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Full text of "Bollettino dell'Accademia degli Euteleti della Città di San Miniato n. 88 2021"

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La direzione del Bollettino dell’Accademia degli Euteleti 
esprime la sua gratitudine 
alla Fondazione Cassa di Risparmio di San Miniato 
che, con il suo contributo, 
sostiene la pubblicazione del presente volume. 


Con il contributo della 
Direzione Generale per i Beni Librari e gli Istituti Culturali 
Ministero della Cultura 


BOLLETTINO 


DELLA 


Ne 





DELLA CITTÀ DI SAN MINIATO 


Rivista di Storia — Lettere — Scienze ed Arti 


n. 88 


SAN MINIATO AL TEDESCO - DICEMBRE 2021 





Accademia degli Euteleti della Città di San Miniato 
Piazza XX Settembre, 21, 56027, San Miniato (PI). 


accademiaeuteleti@gmail.com 





Accademia fondata il 2 ottobre 1822 con Reale e Imperiale Rescritto Sovrano 
del Granduca di Toscana 

Accademia istituita il 10 Luglio 1947 con Decreto di riconoscimento 

della personalità giuridica 

Decreto del Presidente della Repubblica Italiana del 10 Luglio 1947, 
Presidente De Nicola. 


Bollettino dell’Accademia degli Euteleti della Città di San Miniato n° 88/2021 


Il Bollettino è edito con il contributo 
della Fondazione Cassa di Risparmio di San Miniato — anno 2021 


L'Accademia degli Euteleti riceve il contributo della Direzione Generale 
per i Beni Librari e gli Istituti Culturali del Ministero della Cultura 





Comitato scientifico 

Saverio Mecca, presidente 

Luca Macchi 

Roberta Roani 

Il programma editoriale di ciascun numero della rivista è elaborato dal Comitato Scientifico 
che applica una procedura di selezione, valutazione e miglioramento editoriale. 

La selezione degli autori avviene su invito. 


Stampato in 400 copie non numerate su carta Fedrigoni Arcoset, 90 gr, usomano, di pura 
cellulosa ecologica 

Finito di stampare a San Miniato presso la Tipografia Bongi, Via Augusto Conti 10, 

San Miniato, Pisa 


Progetto grafico: Saverio Mecca 
Fotografia sovracoperta: Luca Lupi 
Messa in pagina: Photochrome - Empoli 


Iscritto nel Registro dei Periodici presso la Cancelleria del Tribunale di Pisa in data 2 settembre 1958, n° 11 


ISSN 2281-521X 
Bollettino della Accademia degli Euteleti della Città di San Miniato 
[Testo stampato] 


Diritti di riproduzione 2021: Accademia degli Euteleti della Città di San Miniato 


Ai lettori del Bollettino 


In questo secondo anno di crisi pandemica l'Accademia degli Euteleti si è 
trovata costretta a sospendere tutte le attività nella propria sede, le conferenze, gli 
incontri e le mostre di arte, ma non ha sospeso la blico del suo Bolletti- 
no annuale. Il 12 dicembre 2021 è pubblicato e distribuito. 

Il prossimo anno 2022 sarà il duecentesimo anno della fondazione dell’ Acca- 
demia degli Euteleti della Città di San Miniato con Reale e Imperiale Rescritto 
Sovrano ui Granduca di Toscana. È in preparazione un programma di convegni 
distribuiti nell’arco dell’anno e dedicati a temi e linee di sviluppo della comunità 
e del territorio che possano sostenere la sua crescita civile, culturale ed economi- 
ca, missione storica dell’Accademia onorata fin dalla sua fondazione, secondo la 
illuminata visione dei fondatori. 

È in questa prospettiva che il Bollettino n° 88 dell’anno 2021 propone, come 
sua tradizione, un'ampia e qualificata selezione di articoli dei Soci e degli studiosi 
invitati alla collaborazione. I contributi trattano temi di riflessione sul periodo 
che stiamo vivendo, storia, storia dell’arte e dell’architettura in Toscana e del 
territorio; la qualità dei contributi lo rendono non solo uno dei più importanti 
bollettini delle accademie toscane, ma anche uno strumento per la costruzione 
della storia dei nostri luoghi. 

La varietà e diversità dei contributi, appropriata al carattere di miscellanea nel 
sommarsi negli anni come tessere di un mosaico compone un ritratto continua- 
mente arricchito del territorio di San Miniato, del Valdarno e della Toscana: una 
risposta alle esigenze di conoscenza critica della comunità mediante un costante 
impegno culturale e scientifico dell’Accademia e degli autori che contribuiscono. 

Rivolgiamo di nuovo un appello a tutti i soci, gli amici e i sostenitori dell’Ac- 
cademia, alle Istituzioni del territorio perché ne sostengano, anche economica- 
mente, le attività e le pubblicazioni a beneficio dell'intera comunità. 

Un particolare ringraziamento va rivolto alla Fondazione Cassa di Risparmio 
di San Miniato e al Ministero della Cultura. 


San Miniato, lì 12 dicembre 2021 


Il Presidente dell’Accademia degli Euteleti 
Saverio Mecca 


INDICE 


SAVERIO MECCA p. 9 
Il diritto alla prossimità per città e territori sani e sostenibili 


ROSSANO NISTRI 15 
QUANTE CORNA HA LA CAVALLA? I giochi infantili nella Toscana 
preindustriale, sullo scenario del Ma/mantile racquistato di Lorenzo Lippi 


FRANCESCO SALVESTRINI 65 
Per una storia religiosa e sociale della città di San Miniato dalle pergamene 
inedite dal convento di San Francesco (secoli XIII-XV) 


MARIO BRUSCHI 85 
Ancora su ‘Chaterina’, madre di Leonardo da Vinci 


COSTANTINO CECCANTI 123 
“Il qual ciborio gostò scudi 600 [...]”*. Giorgio Vasari e il ciborio 
di San Zeno a Pistoia: la riscoperta di un'architettura 


LAMIA HADDA 147 
Zriba el-Alia: storia e architettura berbera in Tunisia 


LORENZO BACCI 163 
Reimpiego, Collezionismo e Antiquaria a Terricciola 


ANGELO FABRIZI 183 
Tangenze alfieriane a San Miniato 


DANIELE VERGARI 207 
Echi napoleonici a San Miniato fra reducismo, memoria locale 
e public history (prima parte) 


DON FRANCESCO RICCIARELLI 225 
Note del Pievano di Cigoli sul manoscritto del “Grande Miracolo” (1791) 


MICHELE FIASCHI 229 
Diego Angioletti, un toscano protagonista del risorgimento 


ANTONELLA BERTINI 233 
La Scuola Elementare Rurale di Ponte a Egola da Comunale a Statale 


MARZIO GABBANINI, ALEXANDER DI BARTOLO 251 
L'archivio della Fondazione Dramma Popolare di San Miniato: 
un patrimonio della comunità sanminiatese 


RICCARDO SPINELLI 
Pandolfo Reschi, Atanasio Bimbacci e Francesco Corallo al servizio 
del principe cardinale Francesco Maria de Medici: nuovi documenti 


FABIO SOTTILI 
Elena Fondra, artista poliedrica tra ‘Novecento’ e Fellini 


STEFANO RENZONI 
Quasi un diario. I “Ricordi artistici” di Ferdinando Folchi 


LUCA MACCHI 
Firenze nei dipinti di Giorgio De Chirico (terza parte) 
dalla Grande Guerra all’alba del Surrealismo 


NICOLA MICIELI 
Dilvo Lotti pittore napoleonico 


GIUSEPPE A. CENTAURO 
Verso il nuovo Stadio “Artemio Franchi” di Firenze, 
conservazione e rinnovamento 


LUCA LUPI, ILARIA MARIOTTI 
Esposizione 


MARIA FANCELLI 
Sul diario dell’ Ufficiale della Regia Marina Italiana Giobatta Cerutti 


FRANCESCO FIUMALBI 
La strage di Valicandoli - 20 luglio 1944 


GIUSEPPE CHELLI 


BAMBINI IN CAMICIA NERA. La guerra e la caduta del Fascismo viste 


con gli occhi di un bambino 


PIERA CHELI 
Ricordi di una bambina nel 1944 


Vita dell’Accademia 2021 


261 


281 


335 


363 


379 


397 


423 


431 


435 


651 


465 


473 


Il diritto alla prossimità 
per città e territori sani e sostenibili 





SAVERIO MECCA 


Città vuote 

Sosteneva Walter Gropius, l'architetto fondatore della scuola Bauhaus nella 
Germania di Weimar, che “l'architetto inizia dove finisce l'ingegnere”, afferman- 
do che il continuo progettare che trasforma i nostri territori deve essere guidato, 
oltre che da una base tecnica e razionale, da una visione globale e sistemica, oggi 
si direbbe olistica, nella quale si riuniscano cultura e natura in un equilibrio dina- 
mico, come dinamica è la vita, e sostenibile per tutti gli esseri viventi. 

L’epidemia mondiale ci sta mostrando, ora che se ne intravede la possibile 
fine grazie ai vaccini, che niente potrà e dovrà essere come prima, che tutto dovrà 
essere cambiato. Da questo momento l’architetto inizia dove finisce il virologo, 
da cui tutti abbiamo imparato duramente quanto sia complessa la vita sulla Terra 
e come sia necessario coltivare una visione e un agire globale. 

Fra i grandi cambiamenti che l'epidemia Covid-19 ci sta costringendo a pren- 
dere in considerazione, quelli delle nostre città, grandi e piccole, degli spazi e dei 
luoghi dove viviamo, dovranno arrivare subito dopo, se non insieme, a quelli 
sanitari. 

Nei momenti più difficili, le immagini delle città vuote e svuotate improvvi- 
samente di persone e di funzioni si sono intrecciate nei nostri occhi increduli con 
le immagini degli ospedali e dei volti nascosti, rendendo evidente a tutti noi la 
fragilità e l’insostenibilità dei nostri insediamenti, del modo di abitare i nostri ter- 
ritori, una fragilità che prima solo alcuni esperti avevano percepito e analizzato. 


Le città oggi: fragili e insostenibili 

Le città, storicamente, sono alla base della nostra vita relazionale; sono, insie- 
me all’addomesticamento degli animali e delle piante, oltre diecimila anni fa, la 
grande invenzione su cui si è fondato il nostro processo di civilizzazione. Negli 
ultimi secoli, e in particolare nel XX secolo, le aree urbane hanno svolto un ruolo 
chiave per lo sviluppo dei territori e delle comunità in ogni regione del mondo. 
Le organizzazioni internazionali, prima della pandemia, prevedevano che il livel- 
lo mondiale di urbanizzazione sarebbe arrivato nel 2050 al 69% e nelle regioni 
più sviluppate addirittura al 86%. La crisi globale COVID ci suggerisce che que- 
ste proiezioni, già oggi potenzialmente catastrofiche, dovranno essere rivedute e 
sostituite da previsioni fondate su nuove visioni e strategie incentrate sulla salute, 
la cultura e l'equilibrio con la natura. La Commissione Europea ha lanciato nel 
2021 il progetto New European Bauhaus perché ha percepito l’esaurimento del 
modello di crescita urbana praticato negli ultimi tre secoli e ha avviato un pro- 
cesso corale di costruzione di una nuova visione e di nuovi modelli di habitat, 
guidato dall’ Europa e fondato su una progettazione nuova e diffusa, rispondente 


9 


Saverio Mecca 





a criteri di sostenibilità, inclusione e estetica. 

Le città sono oggi al centro dell’attenzione, le grandi città e le piccole città. 
Con l'epidemia, le grandi città sono emerse come un luogo critico in cui si con- 
centrano e si acuiscono problematiche complesse e contraddittorie. La diffusione 
dei contagi, del COVIDI19 oggi, e da sempre dell'influenza periodica e di altre 
epidemie finora sottovalutate, o fatto percepire la fragilità di un sistema di in- 
sediamenti fondati sulla concentrazione fisica dei luoghi di “produzione”, sulla 
specializzazione funzionale delle città e dei territori, sulla perdita del rapporto 
con la natura. Una fragilità e insostenibilità che risultano accelerate eli effet- 
ti del riscaldamento globale (e da una delle sue manifestazioni più importanti, 
che chiamiamo cambiamento climatico, di cui ancora non conosciamo tutte le 
conseguenze sulla natura vivente), dalla crescente artificializzazione dei territori, 
dall'aumento dei problemi di salute fisica e psicologica, dall’ineguaglianza delle 
persone e dei territori che genera alienazione, diminuzione delle opportunità eco- 
nomiche per molti, frammentazione sociale e conflitti. 


Le città laboratori viventi per il cambiamento 

Allo stesso tempo, le città sono i living lab, i laboratori viventi delle nostre 
comunità, i luoghi primari, densi di relazioni, dove si costruiscono e si sperimen- 
tano nuove visioni e soluzioni innovative in cui, partendo dalle fragilità insoste- 
nibili, si può avviare un processo collettivo per immaginare e trasformare i luoghi 
nei quali abitiamo. Dobbiamo immaginare e costruire giorno per giorno un nuo- 
vo modello di territorio in cui centri maggiori e minori diano luogo a territori 
policentrici e territorialmente equi, che sia coerente con gli obiettivi di crescita 
intelligente come postulati al punto 11! dei Sustainable Development Goals pro- 
mossi dalla Organizzazione delle Nazioni Unite ONU?: Make cities inclusive, safe, 





1 Obiettivo 11: Città e comunità sostenibili. 
Undicesimo obiettivo ONU. 
Rendere le città e gli insediamenti urbani inclusivi, sicuri, vesilienti e sostenibili. 
L'obiettivo previsto entro il 2030 è assicurare l’accesso a un'abitazione sicura e a prezzi 
accessibili. L’indicatore deputato a misurare il progresso in direzione di questo obiettivo è la 
percentuale di popolazione urbana che vive in baraccopoli o insediamenti informali. Fra il 
2000 e il 2014, la percentuale è calata dal 39% al 30%. Tuttavia, il numero assoluto di persone 
che vivono nelle baraccopoli è passato dai 792 milioni nel 2000 a un numero stimato di 880 
milioni nel 2014. L'aumento demografico e la disponibilità di migliori soluzioni abitative ha 
causato un aumento della migrazione da aree rurali ad urbane. (Fonte Wikipedia: https:// 
it.wikipedia.org/wiki/Obiettivi_di_sviluppo_sostenibile) 

2 Gli obiettivi di sviluppo sostenibile, OSS (in inglese: Sustainable Development Go- 
als, SDG) sono una serie di 17 obiettivi interconnessi, definiti dall’ Organizzazione delle Na- 
zioni Unite come strategia “per ottenere un futuro migliore e più sostenibile per tutti”.[1] 
Sono conosciuti anche come Agenda 2030, dal nome del documento che porta per titolo Tra- 
sformare il nostro mondo. L'Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile, che riconosce lo stretto 
legame tra il benessere umano, la salute dei sistemi naturali e la presenza di sfide comuni per 
tutti i paesi. 

Gli obiettivi di sviluppo sostenibile mirano ad affrontare un’ampia gamma di questioni 
relative allo sviluppo economico e sociale, che includono la povertà, la fame, il diritto alla 
salute e all'istruzione, l’accesso all’acqua e all'energia, il lavoro, la crescita economica inclusiva 
e sostenibile, il cambiamento climatico e la tutela dell'ambiente, l’urbanizzazione, i modelli 


10 


Il diritto alla prossimità per città e territori sani e sostenibili 





resilient and sustainable (rendere le città inclusive, sicure, resilienti e sostenibili). 

Penso che l’esperienza dell'epidemia, della clausura nei primi mesi e delle re- 
gole di distanziamento fisico per la riduzione dei contagi ci abbia fatto percepire, 
anche con sofferenza, il valore della “prossimità”: un concetto antico, fondativo 
dell’idea di città, che oggi emerge essenziale nelle sue dimensioni materiali e im- 
materiali, geografiche e fisiche, relazionali ed emozionali, e che ci può essere 
da guida sia per interpretare e comprendere i modi con cui abitiamo nei nostri 
territori, sia per immaginare un futuro, anche molto prossimo, che sia davvero 
inclusivo, sicuro, resiliente e sostenibile. 


L'esigenza di prossimità 

L'idea stessa di città, fin dalla sua invenzione, risponde sostanzialmente alle- 
sigenza di prossimità, un'esigenza che la rivoluzione industriale avviatasi circa tre 
secoli or sono e le tecnologie della produzione industriale e della comunicazione 
hanno interpretato ed espresso come prossimità fisica e concentrazione nei ter- 
ritori delle produzioni e, di conseguenza, delle persone, improntando gli spazi 
di vita, le città e i territori alle esigenze della produzione e dell’organizzazione 
scientifica del lavoro; basti pensare alle grandi migrazioni interne del Novecento, 
in tutta Europa e in Italia, dalle campagne e dai centri urbani minori verso le città 
più grandi. 

Ma mentre le persone, anche forzatamente, si concentravano nelle città, si 
generavano al tempo stesso, paradossalmente, separazione e distanziamento sia 
nelle relazioni interpersonali e sociali, sia con la vita naturale, oltre a spinte di 
separazione e antagonismo fra gli insediamenti dei territori “deboli” e “forti”. 

Il grande e inaspettato “esperimento” sociale della primavera 2020 ha reso 
evidente le separazioni causate dalla ridotta e impedita prossimità fisica, e ha sug- 
gerito a molti di noi nuove interpretazioni che pur ancora stentano ad emergere 
come nuovi modi di vita. Da una concezione ottocentesca di prossimità solo 
fisico-meccanica, cominciamo a intuire e a percepire la necessità di una sua decli- 
nazione più complessa, in cui la prossimità fisica, indispensabile in molte attività 
e necessaria alla vita sociale, sia complementare a una prossimità relazionale, fisica 
ed emozionale, e si integri, intrecci e scambi con la prossimità digitale di dati, di 
informazioni, di servizi e di relazioni che in questo frangente abbiamo iniziato a 
sperimentare. 


La prossimità materiale e immateriale 

La progettazione dei luoghi dove viviamo e lavoriamo, la cosiddetta “rigene- 
razione se che è ancora centrata su pur indispensabili dimensioni edilizie e 
immobiliari-finanziarie, dovrà misurarsi su obiettivi di qualità più alti e comples- 
si, assumendo come primo obiettivo la prossimità materiale e immateriale, fisica 
e relazionale, di comunicazione e di emozione, per ogni progetto di trasforma- 
zione urbana, pubblico e privato, di produzione e di servizi. Se è vero, ed è vero, 
che tutto cambia e deve cambiare, anche in relazione al riscaldamento globale e 
ai rischi di riduzione della diversità della vita sul pianeta, le nostre idee e i nostri 


di peua e consumo, l'uguaglianza sociale e di genere, la giustizia e la pace. (Fonte 


Wikipedia: https://it.wikipedia.org/wiki/Obiettivi_di_sviluppo_sostenibile) 


11 


Saverio Mecca 





progetti di nuovi ambienti di vita, urbana e non, dovranno fondarsi su una più 
intensa e felice ipotesi di prossimità con la propria comunità madre, il proprio 
territorio, il sistema di relazioni affettive e parentali, con i paesaggi culturali di 
appartenenza, e, ancor più, di una prossimità con la natura, natura “selvaggia” e 
natura “addomesticata”, una prossimità fisica, emozionale, ma anche produttiva. 


Il diritto alla prossimità 

La prossimità assume oggi la forza di un diritto fondamentale di tutti i citta- 
dini: un diritto alla prossimità che riguarda i servizi e le infrastrutture, gli spazi e i 
luoghi pubblici, la natura selvatica e la natura “curata”, un diritto che appartiene 
a chi abita nei sistemi urbani più consolidati e a chi abita nelle aree indebolite e 
svuotate in seguito ai processi migratori interni; un diritto alla prossimità che è 
un diritto ad equivalenti possibilità indipendentemente da dove si sceglie di abi- 
tare, oltre il genere o il reddito; un diritto che sarà essenziale per la sostenibilità e 
la resilienza delle comunità del XXI secolo. 

Più in generale le città e i luoghi trasformati dall’ uomo dovranno essere espres- 
sione della “prossimità” delle comunità con l’ambiente naturale, in una nuova so- 
lidarietà fra natura e cultura. Le diverse interazioni fra ambiente naturale, società 
e cultura hanno generato nei secoli un patrimonio (materiale e immateriale) che 
costituisce un elemento determinante dell’identità dei luoghi e delle comunità e 
delle persone che ne fanno parte. 


Oltre i “borghi” e i “15 minuti” 

Le città, grandi e piccole, devono quindi ripensarsi, partendo dalle esigenze 
profonde delle persone; tutti insieme dobbiamo ripensarle, con una visione più 
larga e duratura nel tempo, progettando, anche alla luce della rivoluzione digita- 
le, nelle città e nei territori, nuove interpretazioni dell’esigenza di prossimità delle 
persone ancor prima dei processi di produzione. 

Le grandi città come Parigi, seguita da Barcelona, Milano, Firenze e tante 
altre, hanno lanciato messaggi e progetti per “la città dei 15 minuti”. Qualcuno, 
cercando di cavalcare la tendenza, parla di nuovi borghi: la dimensione della 
mobilità è importante, sottintende le ragioni del perché e come muoversi, ma 
accentuare la durata della mobilità rischia di attenuare e banalizzare l’esigenza di 
prossimità, mentre il concetto di “borgo” sembra suggerire nostalgie e ritorni al 
passato. 


Una città più intensa, più libera e più semplice 

Prossimità non è solo ridurre i costi economici e ambientali della mobilità 
delle persone; prossimità significherà rendere possibile a tutti l’accesso ai servizi 
di base, da quelli sanitari della prevenzione, della cura e della telemedicina - che 
dovranno essere diffusi nel territorio e non più concentrati in poche strutture 
ospedaliere - a quelli dell'educazione e della formazione - valorizzando le possibi- 
lità offerte dalle nuove tecnologie - a quelli commerciali di base, alle biblioteche 
e ai luoghi di socializzazione, a quelli della cura del corpo, agli spazi pubblici di 
relazione e agli spazi di gioco e di sport al chiuso e all’aperto, ai teatri e ai cinema, 
alla rete di dati e di informazioni de rendano possibile la nuova prossimità digi- 
tale con tutte le implicazioni che stiamo scoprendo e sperimentando. 

Abbiamo bisogno di città più intense, più libere e più semplici, più capaci di 


12 


Il diritto alla prossimità per città e territori sani e sostenibili 





sostenere una vita comunitaria, più resiliente e sostenibile, perché chi le abita le 
conosce, le comprende e può partecipare alla loro gestione. 

Le amministrazioni e la polica e non aprire, in modo concreto, alla pos- 
sibilità di pensare, progettare e sperimentare - coinvolgendo e includendo gli 
abitanti - una nuova visione di una rete di città, di un territorio policentrico, 
realizzando una prossimità arricchita ed estesa, materiale e immateriale, pensata 
come un diritto dei cittadini: il diritto individuale e collettivo alla prossimità. 

Le nuove città policentriche e prossime possono nascere già da domani, sti- 
molando tutti i soggetti, dalle amministrazioni comunali, alle regioni, ai grandi 
gestori delle reti, delle infrastrutture e dei servizi, incentivando e limitando sog- 
getti pubblici e privati sulla base di una nuova valutazione di impatto di prossi- 
mità, ovvero di i dei cittadini e di sostenibilità globale. La salute, Pedu- 
cazione e la formazione sono, come abbiamo imparato in questi ultimi due anni, 
fondamentali per le persone e le comunità. 

La prossimità fisica e aumentata può indicarci la strada per costruire nuovi e 
migliori ambienti, più sani, inclusivi, sicuri, resilienti e sostenibili. 


13 


QUANTE CORNA HA LA CAVALLA? 


I giochi infantili nella Toscana preindustriale, 
sullo scenario del Ma/mantile racquistato di Lorenzo Lippi 





ROSSANO NISTRI 


Quando la nonna trastullava il nipotino 

Tra i primissimi ricordi che riaffiorano tra le nebbie della memoria dai lontani 
anni della mia infanzia nella San Miniato dell’ ultimo dopoguerra, uno è partico- 
larmente vivo. Mentre gironzolo per la cucina un po’ annoiato dalla pioggia che 
mi impedisce di uscire a giocare nel vicolo, nonna Vittoria, abiti neri e grembiale 
in tinta, come la tradizione imponeva non solo alle vedove, mi chiede: “Si fa a 
briccicalla?”; e io che rispondo di sì, subito quasi pentito, perché dentro di me 
so che quello non è un gioco vero, ma uno dei modi che la nonna adopera per 
farmi confondere, come quando mi dice la novella dello stento o c'era una volta un 
re'. Allora la nonna si siede sulla seggiola impagliata vicino al camino, poi mi fa 
salire sulle sue ginocchia con la faccia rivolta verso la sua e mi mette le mani col 
pugno chiuso dietro la nuca, prima di chiedermi: “Briccicalla briccicalla / quante 
corna ha la cavalla?”, e intanto avverto il movimento di alcune dita — le corna 
della cavalla — che le escono dai pugni chiusi. “Quattro!” rispondo. La nonna mi 
fa vedere le mani: solo due dita escono fuori, come le corna di una chiocciola. 
“E se due tu dicevi / la cavalla tu vincevi!”, ribatte, facendomi ballonzolare sulle 
ginocchia; e ricomincia a sillabare: “Briccicalla briccicalla / quante corna ha la 
cavalla?”?. Per quanto abbia giocato, la cavalla non lho mai vinta, e solo quando 
fui cresciuto di qualche centimetro, capii che la nonna imbrogliava, cambiando 
il numero delle corna, prima di farmi vedere le mani, nel caso avessi indovinato. 

La mia nonna, nata attorno al 1880 e cresciuta in campagna, scuola fino alla 
seconda elementare, lavandaia, anni e anni di lavoro ripiegata sulla conca di ran- 
no, sull’acquaio e sul camino della cucina, non avrebbe mai potuto immaginare 
che quel trastullo con cui pensava di addolcire le mie ugge infantili fosse la reli- 
quia di un gioco da ragazzi, documentato fino agli ultimi decenni del XIX secolo 
in Toscana, in quasi tutte le regioni della RA e in molte contrade dell'intera 





! — Duetrastulli per far passare il tempo ai bambini piccoli. Il primo: “La vo senti’ la novella dello 


stento?”. “Sì!”. “Allora... Ti racconto la novella dello stento che dura tanto tempo, te l'ho a dd? o te 
la dirrò?”. “Dimmela!”. “Seeh... ocché si dice dimmela alla novella dello stento che dura tanto tempo, 
te l'ho a dd? o te la dirrò?”. “Dai, nonna, dimmela...”. “Ocché si dice dai nonna dimmela alla novella 
dello stento che dura tanto tempo, te l'ho a dd? o te la dirrò?”- e così via, finché il bambino non si stanca 
o finisce per addormentarsi (cfr. Giannini G., p. 35). Il secondo è una strofetta circolare che non ha mai 
fine: “C’era una volta un re / seduto sul sofà / che disse alla sua serva / “Raccontami una storia” / e la 
serva incominciò: “C'era una volta un re / seduto sul sofà...” ecc. all’infinito. 


2 Nistri 1986, p. 87. 


15 


Rossano Nistri 





Europa. Un gioco dal nome altisonante, salincerbio, secondo l’espressione usata 
nell’invito A lettore? premesso alla terza edizione (1750) del Malmantile racqui- 
stato di Lorenzo Lippi, conosciuto fuori dalla Toscana con nomi differenti‘ e 
ricordato anche da Pietro Fanfani nel suo Vocabolario alla voce Biccicuccù. Scrive 
il filologo di Collesalvetti: “E un giuoco fanciullesco che si fa così. Si fa al conto: 
a chi tocca a andar sotto va, e si pone a sedere su uno sgabello: uno degli altri ra- 
gazzi gli si mette dietro e postagli una mano o tutte due sul capo alza quante dita 
gli viene fantasia e gli domanda: Biccicuccù Biccicuccù / Quante corna sta quassù?. 
Se lo indovina, esce, e va sotto quello che ha alzato le dita: se non lo indovina, e le 
dita alzate erano, puta, cinque, tutti gli altri si mettono a battergli sulle spalle can- 
tando: E se cinque tu dicevi, / La cavalla tu vincevi. E da capo lo fanno indovinare. 
E così di seguito, finché non si appone. E questa cavalla sola è rimasta dal nome 
del giuoco stesso, come era in antico, che era: Biccicalla calla, quante corna ha la 
cavalla”. Ma qui, come abbiamo visto, il Fanfani si sbagliava, perché la cavalla 
era rimasta nascosta dove lui non l’aveva cercata, nella memoria della mia nonna. 

Secondo il Fanfani il gioco si faceva in due. Fonti più antiche, come il Pataffio, 
indicano tre giocatori”°. Il sedicente Brunetto Latini concorda sostanzialmen- 
te con Giovanni Cinelli, uno dei prefatori della terza edizione del Ma/mantile 
del Lippi, quando descrive nei minimi particolari le movimentate dinamiche 
del gioco rappresentato nell’acquaforte posta all'inizio del primo cantare’ (Fig. 
1): “Il Salincerbio, si fa da ragazzi in due o più di loro; che uno chinatosi, con 
appoggiare il capo e le braccia a qualche luogo alquanto rilevato: e fatta figura 
come di cavalletto, un altro per didietro, distante alcuni passi, dice: Salincerbio? 
Cioè: Salgh'io sopra il cervio? Colui, che sta sotto, risponde: Diavol hai; cioè: Va al 
Diavolo, Fæ quello, che vuoi; ovvero: Salta pure, sanco tu avessi il diavolo addosso: 
e l’altro replica: Tira la corda, e se tu te n'avvedrai; cioè Tien forte, o Sta’ fermo: e 
t'accorgerai, se mi puoi sostenere e presa la corsa, gli monta di lancio sul groppone: 
ed alzato un braccio, e dalla chiusa mano alzate quante dita e’ vuole, lo interroga 
del lor numero, dicendo questa canzoncina: Bicci calla calla calla, / Quante corna 
ha la cavalla? / Biccicù cuccù / Quante corna son quassù? E questa interrogazione 
si replica, con mutarsi però sempre l’alzata delle dita, finché colui non s'appone: 
ed allora egli s'alza: e l’altro, o chi dee, secondo il turno convenuto tra loro, entra 
sotto per ricominciare il giuoco daccapo”*. 


3. Cinelli, p. XII. Anche Allegri, p. 61 versus (pagine numerate a mano), usa questa forma. In 


Latini, IV. 27 lo troviamo come salincervio. 

4 Per le varianti italiane ed europee, con le rispettive denominazioni, v. Pitrè, pp. XLIV-XIVII. 
Di particolare interesse la versione raccolta nel Pisano a fine ‘800 da Giannini A., p. 88, col nome di 
Chicchiribillì. 

©... Fanfani, p. 143. Con la denominazione beccio cucù v. anche la versione chianina in Felici, p. 119. 
Latini, p. 71: “Allude al giuoco de’ fanciulli, in cui uno siede, l’altro gli pone la faccia in grem- 
bo, sulla cui schiena sale il terzo a cavallo alzando le dita perché quel l’indovini, e dicendo: Biccicalla, 
calla calla, Quante corna ha la cavalla? Biccicù cu cu, Quante corna cen lassù” 

7. L'acquaforte, su disegno del medaglista Lorenzo Maria Veber (1697-1765), è opera di Cosimo 
Mogalli (1667-1738), v. Cinelli, p. XII. Assieme al salincerbio vi sono rappresentati altri quattro giochi: 
beccalaglio, acculattare, guancial d’oro e staccia abburatta. 

8. Ivi. Anche Bellini, p. 91 (“... né a biccicalla calla calla / mai si saltò con sì sciolta avvenenza”), 
allude a un gioco in cui è necessario il salto sulla schiena del compagno. 


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QUANTE CORNA HA LA CAVALLA? I giochi infantili nella Toscana preindustriale, 
sullo scenario del Malmantile racquistato di Lorenzo Lippi 





Senza troppi slanci di fantasia possiamo trovare l’antenato del salincerbio tra 
le amenità proposte da Trimalcione nella celeberrima coena del Satyricon, quando 
l’anfitrione, dopo che il giovinetto Creso, il suo favorito, ruzzando con la pro- 
pria cagnetta, gli ha fracassato un candelabro e i vasi di cristallo che si trovavano 
sulla tavola, “per far vedere di non essere arrabbiato per il danno, dette un bacio 
al ragazzino e se lo fece salire sulle spalle. Subito quello gli montò su come a un 
sù e con le mani aperte gli assestava colpi sulla schiena, e rideva strillando: 
«Becco qui, becco lì — quante sono queste qui?»”?. 

Nell’acquaforte del Mogalli sovrastante l'incipit del Ma/mantile, ultimo a de- 
stra, è rappresentato, un altro gioco di cui ho memoria, nella versione ridotta che 
la nonna Vittoria usava per trastullarmi nei miei primi anni, lo stacciaburatta. 
Anche in questo caso, la nonna, dopo essersi seduta, mi caricava sulle sue ginoc- 
chia, mi prendeva le mani tra le sue e poi cominciava a sbatacchiarmi avanti e 
indietro, a destra e a sinistra, come se stesse stacciando la farina, e cantava una 
filastrocca che mi faceva tanto ridere: “Staccia buratta / Martino della gatta / la 
gatta andette a Colle / andò tutta asciutta / tornò tutta mélle / la fece un ciaccino 
I coll’olio e col sale / col piscio di cane / buttalo buttalo in mare!”!° (Fig. 3). E a 
questo punto la nonna spingeva in avanti le braccia fino a farmi rovesciare all’in- 
dietro per mandarmi a sfiorare il pavimento con la testa. 

Credo che neppure in questo caso la nonna immaginasse di essere nel solco 
di una tradizione ludica molto antica, come testimoniano Lorenzo Lippi — ri- 
cordando il gioco nel secondo cantare del suo poema” — e il suo primo com- 
mentatore, Paolo Minucci, che spiega: “Due seggono incontro l’uno all’altro, 
e si pigliano per le mani: e tirandosi innanzi e indietro, come si fa dello staccio 
abburattando la farina, vanno cantando una lor frottola, che dice. Stacciaburatta 
/ Martin della gatta: / La gatta andò al mulino, / La fece un chiocciolino / coll’olio e 
col sale, / col piscio del cane. E ricominciando da capo questa lor cantilena, la fanno 
durare quanto vogliono: E questo è trastullo, usato dalle balie, per acquietare i 
bambini di quella età, che appena si reggono in piedi”!?. Sorprendente constatare 
come tanto la dinamica del gioco quanto la filastrocca secentesca fossero rimaste 
sostanzialmente le medesime usate dalla mia nonna. Facevamo stacciaburatta an- 
che tra noi bambini dell’asilo, e allora il fine del gioco era di scuotere il più forte 
possibile le braccia del compagno e di unt in modo che lasciasse la presa 
e, semmai, andasse a finire col sedere in terra, tra gli “uh!” e “oh!” di riprovazione 
delle pie suore di San Paolo che trovavano un po’ troppo materiale il gioco e di- 
sdicevoli gli ingredienti del ciaccino. 





° Petronio LXIV: “Trimalchio, ne videretur iactura motus, basiavit puerum ac iussit supra dorsum 


ascendere suum. Non moratus ille usus est equo, manuque plena scapulas eius subinde verberavit, interque 
risum proclamavit: “Bucco, bucco, quot sunt hic”. 

10  Nistri 1986, p. 242-243. Cfr. Nerucci, p. 49; Giannini A. p. 89; Bacci, p. 74; oltre una curiosa 
versione senese (Taccio Buraccio) in Corsi, p. 497. 

! Lippi, II. 48. 2. 

12 Minucci, p. 191. Per altre versioni della filastrocca, v.. Passerini, p. 442 e Ruglioni di Virth, p. 
807; Gherardo Nerucci, Storie e cantari — Ninna nanne e indovinelli del Montale in Archivio per lo studio, 
III, p. 57; De Gubernatis, p. 94; Giannini G., p. 29: “Tenendo il bimbo per le manine, dopo averlo 
posto a cavalcioni sui nostri ginocchi, e mandandolo innanzi e indietro...”. 


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Rossano Nistri 





Pittore purista e poeta giocherellone 

Laver ritrovato quasi casualmente tra le ottave del Ma/lmantile racquistato i 
due trastulli con cita nonna, molti e molti anni fa, tentava di tenermi tranquillo 
per qualche minuto, mi ha indotto alla rilettura dell’intero poema, attratto dai 
giochi di cui il Lippi ha lasciato traccia quasi in ogni pagina della sua opera, se 
non altro per la curiosità di verificare quanta della mia infanzia fosse già stata 
catalogata in quelle ottave scritte tre secoli prima. Le note che seguono sono, in 
parte, un resoconto ragionato di questa rilettura, che mi è stata utile per forni- 
re uno sfondo storico a un'idea che da qualche tempo mi pungolava: quella di 
formare un regesto, quanto più completo possibile dei giochi e delle pratiche 
ludiche inanahi. adesso quasi del tutto cancellate, cui io stesso mi sono dedicato 
nella mia infanzia, che ho visto praticare da altri sul territorio sanminiatese, o di 
cui ho avuto notizia da testimoni attendibili, in relazione a un arco di tempo che 
possiamo racchiudere tra l’ultimo decennio dell’800 e gli anni ’60 del ’900. 

Prima di passare al mio repertorio personale, mi parrebbe però imperdonabile 
non dedicare qualche parola a Perlone Zipoli, cioè a Lorenzo Lippi, che mi ha 
offerto il destro di inoltrarmi in questa ricognizione ludica, tenendomi compa- 
gnia, come si vedrà, per qualche tratto del percorso. Lorenzo Lippi”? (Fig.2), uno 
dei più apprezzati pittori nella Firenze della prima metà del XVII secolo, si era 
formato alla bottega di Matteo Rosselli, per divenire più tardi il continuatore 
delle tendenze puristiche di Santi di Tito. Amico e ul di Salvator Rosa, tra 
gli artisti fiorentini “il migliore nel disegnare dal naturale”, Lorenzo aveva “fino 
dalla fanciullezza, avuta in dono dalla Natura, un'allegra, ma però onesta vivacità 
e bizzarria” e “uno spirito tutto fuoco”! Amava le tradizioni e la lingua della sua 
terra e questo amore lo riversò a piene mani nel suo poema eroicomico, J Mal- 
mantile racquistato, nato come una sorta di parodia della Gerusalemme del Tasso, 
ma divenuto nel corso della sua elaborazione qualcosa di molto diverso. Le vi- 
cende, messe in ottava rima, appaiono talvolta un po’ sconclusionate (come non 
di raro capita nella letteratura parodica), perché sono il risultato di una struttura 
a patchwork, di un collage narrativo formato da disomogenee rielaborazioni mi- 
tologiche, fantasie letterarie e richiami alla novellistica di origine dotta (come Le 
Metamorfosi di Ovidio e Lo cuntu de li cunti di Giambattista Basile), oppure alle 
fiabe di derivazione popolare, come “quelle, che le semplici donnicciuole hanno 
per uso di raccontare a i ragazzi”!°. 

Ben oltre le storie facete di cui sono traboccanti, i dodici cantari del poema 
trovano la loro cifra unificante nel precipuo interesse linguistico dell’autore e, se 
vogliamo, nel pregnante contenuto di materiale etnografico, riferito ai costumi e 
agli usi diffusi in Firenze e nel suo contado nel XVII secolo, materiale puntiglio- 
samente delucidato e posto nella massima evidenza dal monumentale apparato 


13 Per la biografia del Lippi si rimanda a D’Afflitto-Carminati, alla voce. Come pura curiosità, 


non inerente ai contenuti di questa ricerca, si ricorda che di Lorenzo Lippi pittore si conservano in San 
Miniato, nelle sale del Museo Diocesano d’Arte Sacra, tre eccellenti opere, Gesù benedice il pane euca- 
ristico presentato da un angelo, Il sacrificio di Isacco e Agar nel deserto (III decennio del XVII secolo, le 
ultime due provenienti dalla chiesa di Santa Lucia a Montecastello — lascito del cardinale Sanminiatelli). 

4 Baldinucci, p. 451. 

5° Ivi, p. 452. 

6 Ivi, p. 453. 


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QUANTE CORNA HA LA CAVALLA? I giochi infantili nella Toscana preindustriale, 
sullo scenario del Malmantile racquistato di Lorenzo Lippi 





di note predisposto dai tre commentatori antichi, l’Accademico dei Percossi Pa- 
olo Minucci, il cruscante Antonmaria Salvini e il bibliotecario della Laurenziana 
Antommaria Biscioni. Il poema infatti è composto massimamente “in Proverbi 
e Fiorentinismi, soliti usarsi dalla bassa gente”, così appropriatamente utilizzati 
da poter essere “approvato per testo di lingua dal Vocabolario della Crusca” fino 
dall'edizione del 1691'8. Il gusto popolare vi regna incontrastato, eppure il Mal- 
mantile non è un’opera popolare, né tanto meno un trattenimento per i fanciulli, 
come talvolta vorrebbero accreditare talune delle chiose dei commentatori, quan- 
to piuttosto un divertimento accademico, sostenuto dalla curiosità genuina per 
i costumi e per le tradizioni popolari”. Considerato che il Lippi era uso condire 
con “la sola bizzarria del suo ingegno (...) il gusto del camminare a diporto, il 
giuoco e l’allegria della tavola”?°, ecco che la lingua del suo poema si dà sostanza 
a suon di cibo, di giochi, di facezie e di idiotismi tanto più preziosi quanto più 
legati alla vita quotidiana. Per una volta lasceremo da parte il cibo e ci occupere- 
moi soltanto dei giochi, alcuni dei quali, come si è visto, mi portano a Atare la 
memoria nelle ariose giornate della mia infanzia. 

Lo stesso Lippi, in un passo del poema, alludendo alla sua passione = il 
gioco, afferma che Perlone Zipoli, cioè egli stesso sotto la copertura dell’ana- 
gramma, “... pria che mamma, babbo, pappa, e poppe, / chiamò spade, baston, 
denari e coppe”!. Come dire, precisa il Minucci, “che prima d’ogni altra cosa 
questo Perlone chiamò il giuoco e che venne fuora con questo genio naturale 
di giuocare”??. A un esame neppure troppo stringente, scorrendo le ottave del 
poema, si nota che in ogni cantare sono ricordati, in maniera diretta o attraverso 
richiami e allusioni al loro svolgimento e al lessico inerente, giochi e intratteni- 
menti di ogni tipo - giochi di pensa di ruolo, di imitazione, di sorte o solo 
di forza: una cinquantina quelli infantili, una trentina quelli degli adulti. In due 
passi del poema, addirittura il Lippi trova il modo di riunirne un gran numero in 
pochissime ottave. Nel secondo cantare, sono descritti i festeggiamenti occorsi a 
Campi per le nozze di Doralice, figlia del re Stordilano, con Floriano, figlio del 
duca Perione d’Ugnano. La pulzella è messa in palio per mezzo di una giostra, 
nella quale Floriano sbaraglia tutti gli avversari. Una volta celebrati gli sponsali, si 
dà inizio ai festeggiamenti, e per tre giorni, in mezzo a uno scampanio assordante, 
i sudditi del regno, lo stesso re e gli sposi, si abbandonano a divertimenti e giochi 
d’ogni specie, come fossero tornati bambini. Nelle ottave 45-48 è descritto un 
mondo impazzito in cui si gioca a scaldamane, a monna Luna e a guancial d’oro, 
ai burattini, al mazzolino o alla comare, agli spropositi, a capanniscondere, alle 
merenducce, a stacciaburatta, all’altalena, a beccalaglio, a predellucce e a accu- 
lattarsi, prima che Floriano si annoi di quella squinternata baraonda e decida 
di piantare in asso moglie e suocero per andarsene a caccia nei boschi con due 
allegre brigate di amici fiorentini. 





7 Biscioni, IX. 

8. Ivi, VII. 

19 Cfr. Cabani, p. 13. 
2 Baldinucci, 455. 

21 Lippi, IV, 12, 7-8. 
2. Minucci, p. 337. 


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Rossano Nistri 





Similmente, nel sesto cantare, ottave 33-35, quando la strega Martinazza 
scende all’ Inferno per ottenere l’aiuto di Plutone in difesa della usurpatrice regi- 
na Bertinella, giunta ai Campi Elisi, vede in un prato capannelli di gente che si 
trastulla “tutta spensierata / Ballonza, canta, e beve allegramente” e si dedica ai 
giochi più disparati: al pallone, alla pillotta, al sussi, alle murelle, oppure a pri- 
miera, a civetta, alla lotta, agli indovinelli, a raccontar novelle, a te te con deli e 
spilli, a catturare mosche e grilli... L'intento accumulatorio per fini comici è chia- 
ro in ambedue gli episodi, così come lo era stato, nel Gargantua di Rabelais”, il 
lunghissimo elenco dei passatempi cui il gigante si dedica tra un’abbuffata di cibo 
e qualche bigoncia di vino, tra una dormita e l’altra; un intento che nasconde, 
in ultimo, una germinale, premoderna volontà enciclopedica, il desiderio di dar 
conto di un intero panorama del settore ludico, quale da noi, in Italia, si era già 
palesata con il fittissimo elenco di giochi snocciolato da Tommaso Garzoni nella 
sua Piazza universale”. E qualcosa di simile aveva realizzato il pennello di Pieter 
Bruegel il Vecchio con la complessa tavola dei Giochi di bambini (1560), oggi 
al Kunsthistorisches Museum di Vienna. Tutto il Ma/mantile, d'altronde, mette 
in luce la tendenza accumulatoria del Lippi, nello sforzo di compilare e di dare 
corpo, verso dopo verso, ottava dopo ottava, a un regesto più ampio possibile del 
lessico fiorentino e, attraverso questo, dei costumi della sua città. 

Non prenderemo in considerazione i giochi da adulti, quelli da tavolo (come 
la dama, gli scacchi, i dadi), i giochi con le carte (la bassetta, la bazzica, i germìni, 
la primiera, i tarocchi e soprattutto le minchiate, che nel poema ritornano in 
continuazione); e i giochi che oggi chiameremmo sportivi (come la palla a cor- 
da, il pallone, la ei, i tordi, il saracino): nella maggior parte sono ormai 
dimenticati, almeno con le regole e le modalità puntigliosamente descritte dai tre 
chiosatori del poema. Ci attirano invece i semplici giochi infantili, quelli che non 
richiedono strumenti o oggetti particolari, per i quali sono sufficienti la presenza 
fisica dei giocatori o pochi supporti di facile acquisizione, come pietre, noccioli, 
bastoncini, fili di paglia, pezzi di stoffa o fazzoletti. Che poi erano i giochi con 
cui i bambini e i ragazzi ancora si intrattenevano per ore fino al salto di civiltà 
iniziato con il boom economico degli anni ’60 del ‘900; giochi per mezzo dei 
quali si apprendevano i modi e le regole della vita comunitaria e si perpetuava, in 
una sorta di scuola senza maestri, i contenuti fondanti della cultura tradizionale. 
Oggi questi giochi sono quasi del tutto scomparsi — e dimenticati — in seguito al 
cambiamento dello stile di vita indotto dall’industrializzazione e dalla scolariz- 
zazione prima, poi dalle colate d’asfalto e di cemento seguite all’urbanizzazione 
dei centri di vita comunitaria, con la conseguente sottrazione di spazi adeguati e 
sicuri in cui i bambini possano ritrovarsi e formare quei sodalizi infantili, com- 
pagnie, gruppi o bande che, qualche decennio or sono, permettevano i giochi 
collettivi. Il colpo finale è giunto dalla digitalizzazione della società, anche nelle 
relazioni interpersonali, così che il gioco in rete appare, senza possibilità di pa- 
ragone, agli occhi dei bambini e dei ragazzi dei nostri giorni, più attraente del 
vecchio nascondino. 

Ciò nonostante, senza nostalgie e rimpianti, e con intento puramente docu- 


23 Rabelais, XXII. 
2 Garzoni, pp. 416-417. 


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QUANTE CORNA HA LA CAVALLA? I giochi infantili nella Toscana preindustriale, 
sullo scenario del Malmantile racquistato di Lorenzo Lippi 





mentario, proverò, emulo del Garzoni, di Rabelais e del Lippi, a redigere un re- 
pertorio dei giochi con cui, ancora negli anni del secondo dopoguerra, i bambini 
e i ragazzi si sbizzarrivano per le vie e le piazze di San Miniato, per i campi e i 
boschi attorno alla città, e che ho avuto modo di vedere in funzione, di praticare, 
o dei quali ho avuto notizia degli informatori che, con i loro racconti, mi hanno 
permesso di integrare i miei ricordi. 

In linea di massima vigeva separazione di genere: i maschi giocavano prin- 
cipalmente con i maschi, le bambine con le bambine, ma c'erano anche giochi 
ai quali partecipavano senza troppi problemi gli uni e le altre, come rimpiattino 
(diventato più tardi nascondino), chiappino (poi divenuto: 4 fe. rialzino 
e toccaferro. Giochi quasi esclusivamente maschili erano quelli con le palline di 
terracotta colorata (cappe, donzino e buchettola) e con le figurine pe e e santi), 
pattina con le monetine, i circuiti da percorrere con i tappini delle bottiglie di 
gazzosa e di birra le sassate, la guerra con le cerbottane e gli spiruli, i fucili a ela- 
stici, le fionde e gli archi e frecce costruiti in casa. Chi in famiglia aveva qualche 
mezzo in più, riusciva a entrare in possesso di una trottola, a farsi costruire ur al- 
talena, o un carretto di legno per fare le corse in discesa. Le bambine praticavano 
volentieri giochi “di o come i pentolini, le mamme, ecco la sposa che va a 
marito, la A lavanderina, ma talvolta, in mancanza di meglio, in questi giochi 
poteva infiltrarsi anche qualche maschio. 


Mostaccioni, prese per le orecchie e acculattate 
Da quanto ci tramandano i commentatori del Malmantile si evince che in 
buona parte dei giochi praticati nel XVII secolo c’era una certa dose di violenza e 
si richiedeva una posta (o pegno) messa in gioco da ognuno dei giocatori e che era 
ritirato dal vincitore o dai vincitori, precisamente come avviene ancora oggi tra 
iocatori adulti di carte o di biliardo. Senza considerare il gioco delle sassate, in cui 
G violenza è programmatica e costituisce l’oggetto stesso del gioco, applicazioni 
eccessive di forza muscolare sono descritte anche in altri giochi, come civetta (in 
cui, chi fa civetta “tira, quando all’uno e quando all’altro di gran mostaccioni””, 
o guancial d'oro in cui sono previste percosse e prese per le orecchie. Persino uno 
svago per noi innocuo come la mosca cieca rientra in questa visione bellica del 
divertimento: “Tirano le sorti fra più ragazzi a chi debba bendarsi gli occhi (che 
in questo gioco dicono Star sotto) ed a quello, a cui tocca, sono bendati gli occhi 
in modo che non possa vedere: e poi con uno sciugatoio o altro panno avvolto, 
che ciascuno tiene in mano, si danno dagli altri delle percosse a solai che è sotto: 
ed egli così alla cieca, va rivoltandosi: e quello che egli arriva colla percossa, dee 
bendarsi invece del percuziente, il quale si leva la benda, e va fra gli altri a percuo- 
tere il nuovo bendato. Quello al quale di mano in mano tocca a star sotto, mena, 
senza riguardo, colpi spietati: sì perché commosso da tanti colpi vorrebbe vendi- 
carsi: sì anche perché, cogliendo, il colpo sia in modo da non poter’ esser negato, 
procurando ognuno di non toccarne, e d’occultar la percossa, se può, quando 
l'ha toccata, per non avere a stare in quel martirio, in che è colui, che sta sotto”. 
Va da sé che spesso la punizione alla fine di un gioco poteva essere dolorosa, 


5. Minucci, p. 182. 
26 Ivi, p. 66. 


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Rossano Nistri 





massimamente quella definita acculattare: “è passatempo da ragazzi; ma è specie 
di pena e di tormento, dovuto a colui, che è acculattato. Quattro ragazzi pigliano 
uno per le braccia e pe’ piedi: e formandone un quadrato, lo sollevano, e gli fanno 
battere il culo in terra, tante volte, quanto merita il suo delitto o perdita, che ha 
fatto in altri giuochi, come sopra”””. 

Il meccanismo dei pegni è spiegato abbastanza chiaramente dal Minucci nella 
nota al gioco del mazzolino, e valeva, a detta dei commentatori, anche per altri 
giochi, come quello degli spropositi o mona luna: il giocatore che “non risponde 
subito, o vero sia nomina un fiore che non sia in quel mazzo, perde il premio, 
il quale si dà al Giardiniere. E così vanno seguitando fino a che il Giardiniere 
abbia in mano tanti premi, da potere alla fine del giuoco distribuirne almeno 
uno per ciascheduno di quei ragazzi, che sono nel giuoco (...) E questi premi si 
domandano Pegni (...). Finito il giuoco, il Giardiniere distribuisce ripartitamente 
i pegni, pigliandone ancor per se. Tali pegni poi sono, da coloro, che gli hanno 
dal Giardiniere avuti, restituiti a proprj padroni; i quali, se gli rivogliono, devono 
fare una cosa, secondo il gusto di colui, al quale è toccato in sorte il detto pegno. 
E questo gioco dicono Far la penitenza: la quale se egli non fa, il pegno resta in 
mano a colui, al quale è toccato: e però questi pegni devono essere di qualche 
valore, acciocché i padroni abbian caro di riavergli”?8. 

Se questa era l'abitudine del XVII secolo, poteva esserlo tra le classi privilegia- 
te, non certamente tra i bambini e i ragazzi del popolo che non avevano modo 
di mettere in palio denaro o altri oggetti di un qualche valore. E questa, in fondo 
era ancora la condizione di noi ragazzi del dopoguerra: le uniche cose che pote- 
vamo mettere in gioco erano palline, bottoni, figurine e qualche rara monetina 
da una o due lire. Il meccanismo si era semplificato per forza di cose, così che, 
saltando l’andirivieni dei pegni, coloro che perdevano, alla fine del gioco erano, 
senza troppi preamboli, costretti a sottostare a una penitenza che poteva anche 
avere esiti mediamente dolorosi e che, di norma, veniva inflitta dopo la fatidica 
domanda: “Dire, fare, baciare, lettera o testamento?”. Erano queste le cinque op- 
zioni associate alle dita della mano di un compagno, a partire dal pollice, tra cui il 
perdente doveva effettuare la scelta, a occhi chiusi. “Dire” consisteva nell’inviare 
il penitente a riferire una frase maliziosa o sconveniente a una persona, adulto 
o ragazzo, maschio o femmina che fosse, per mettere in imbarazzo il penitente 
stesso e divertirsi alle eventuali reazioni del destinatario del messaggio. “Fare” 
consisteva nell’imporre al penitente un’azione che lo mettesse in difficoltà, ne 
suscitasse la vergogna o che contenesse i presupposti per accendere reazioni in 
terze persone. Con “baciare” si costringeva chi doveva far penitenza a dare un 
bacio a una persona, anche adulta, ma di solito si mandava un bambino a ba- 
ciare una bambina o viceversa, per divertirsi all intraprendenza, alla vergogna o 
all’imbarazzo dell’uno e dell’altra. La “lettera” veniva scritta sulla schiena di chi 





27. Ivi, p. 192-193. Questa punizione ignominiosa veniva inflitta a Firenze sulla cosiddetta “pietra 


del vituperio”, ai debitori insolventi e a coloro che fallivano o ripudiavano l’eredita paterna. 

28 Ivi, p. 189. Il meccanismo dei pegni è sostanzialmente lo stesso indicato, due secoli più tardi, 
dal Fanfani in molti lemmi del suo Vocabolario dedicati a quelli che egli chiama giochi di pegno, realiz- 
zati all’interno di una conversazione, cioè del gruppo di persone che partecipano al gioco. Noi, oggi, li 
chiameremmo giochi di società. 


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QUANTE CORNA HA LA CAVALLA? I giochi infantili nella Toscana preindustriale, 
sullo scenario del Malmantile racquistato di Lorenzo Lippi 





si sottoponeva alla penitenza, usando come penna la nocca di un dito ripiegato e 
calcando, in modo da provocargli qualche sensazione dolorosa con la pressione. 
La lettera si chiudeva RD A con un punto fermo, assestato con un 
pugno nelle reni o con un calcio nel sedere. Il “testamento” coinvolgeva tutti i 
iocatori, che si mettevano dietro al penitente e uno dopo l’altro, facendo, senza 

Pri vedere da lui, un gesto con la mano (nocchino, pattone, biscotto, masa??, 
tirata di capelli, carezza, ditata, pizzicotto ecc.), o con la gamba (ginocchiata), o 
col piede (calcio), o con la bocca (bacio, leccata, sputo), o con le braccia (abbrac- 
cio, strizzata, gomitata) chiedevano: “Di questo quanti ne vuoi?”. Lo sfortunato 
penitente rispondeva a ognuno con un numero da uno a dieci e riceveva tanti 
colpi quanti ne aveva chiesti, sperando fossero abbracci e non calci nel sedere. 

Una sorta di punizione in forma di sberleffo o d’irrisione era fare lia-lia a 
qualcuno che non fosse riuscito in qualcosa, o l'avesse fatta male o avesse perso 
nel gioco per netta inferiorità. Consisteva nel ripetere all’infinito “lia-lia-lia-lia” 
all'indirizzo del beffeggiato, strofinando il dito indice di una mano sopra il dito 
indice dell’altra, a imitazione del gesto di chi lima una barretta di metallo. La 
locuzione lia-lia è probabile corruzione di “lima lima”: ed è con questo nome 
che l’irrisione è ricordata dal Minucci (“è un modo proprio da fanciulli, i quali, 
quando vogliono dar la burla a uno, si fregano il dito indice, ecc.”)5°, e in prece- 
denza dal Varchi, il quale aggiunge che ai suoi giorni il gesto era accompagnato 
da insulti puerili come “mocceca, o, moccicone, o altra parola simile, come baggea, 
tempione, tempie grasse, tempie sucide, benchè la plebe dice sudice”?. 

Se la penitenza lo concludeva, il gioco iniziava il più delle volte con una conta 
(o conto, come si diceva allora) o con un’altra procedura che permettesse di sta- 
bilire il turno di gioco, la composizione delle squadre o chi era scelto o escluso 
da un ruolo. La conta più semplice è quella che si fa buttando le dita: chi svolge 
il ruolo di capogioco, scampanando davanti a sé un pugno chiuso dice; bim bum 
bam oppure: uno due e tre, e al bam o al tre tutti coloro che devono giocare, riuniti 
in cerchio, mettono in mezzo un mano con quante dita aperte vogliono; si fa la 
somma di tutte le dita (mettiamo 25) e il capogioco comincia a contare da chi sta 
alla sua sinistra, scandendo un numero per ogni bambino, e contando anche se 
stesso quando arriva il proprio turno, a va avanti fino a fermarsi sul bambino che 
è il venticinquesimo della conta - il prescelto o l’escluso. 

Altre conte, invece, si basano sulla sillabazione di particolari filastrocche, con 
i bambini sempre in cerchio, un sillaba per ogni bambino, fino a esaurire la fila- 
strocca. Il prescelto o l’escluso è quello su cui cade l’ultima sillaba. Ecco alcune 
delle filastrocche da conta conosciute a San Miniato nella prima metà del XX 
secolo: 

- Ambarabà ciccì coccò / tre civette sul comò / che facevano all'amor / con la figlia 
del dottor / il dottore sammalò / ambarabà ciccì coccò. 





2 Il “nocchino” è un colpo dato in testa con le nocche del pugno chiuso; il “pattone” è il colpo 


dato sulla nuca con il palmo aperto della mano; il “biscotto” è il colpetto dato sulla testa dal dito medio 
della mano sganciato di colpo dal pollice che lo trattiene; la “masa” è lo sfregamento violento del pugno 
chiuso sopra i capelli. 

30 Minucci, p. 265; v. anche Fanfani, p. 530. 

3! Varchi, p. 155. 


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Rossano Nistri 





- An-ghin-gò / tre galline e tre cappo’ / per andare alla gabella / cera una ragazza 
bella / che sonava le ventitré / din don den”. 

- Dindondella, dindondella / chi l’ha rotta la campanella / din don dan / chi l’ha 
rotta / la pagherà. 

- Macchinina rossa rossa dove vai? (il bambino su cui si è fermata la conta dice 
il nome di una città). Quanti chilometri farai? (il bambino su cui si è fermata la 
conta dice un numero, e si comincia a contare per scegliere chi sta sotto o esce). 

- Parigi Parigi è una bella città / si mangia, si beve, all'amore si fa. / Hai tu visto 
mio marito? (si risponde si o no; se è no, si comincia la conta partendo da quel 
bambino). Di che colore era vestito? (l’interpellato dice un colore). Hai tu addosso 
quel colore? (se l’interpellato ha addosso quel colore è il prescelto o l’escluso dal 
gioco): Esci fuori per ia (se non ha quel colore si ricomincia la conta da lui). 

- Pisto pistugno / di maggio di giugno / la bella luminara / che sale la scala / la 
scala e lo scalone / la penna del piccione / gioia mia bella / tira su la ciancherella. 
Questa conta si fa con i bambini seduti su un muretto, contando a ogni sillaba 
una gamba (la ciancherella) per ogni bambino. Ognuno deve accavallare sull’altra 
la gamba contata e, com'è ovvio, al secondo passaggio non è più possibile accaval- 
lare la gamba e il bambino deve uscire. 

- Sotto la cappa del camino / c'era un vecchio contadino / che sonava la chitarra / 
un due tre sbarra! 

- Uccellin che vien dal mare / quante penne puoi portare? / Puoi portarne ventitré 
/ uno due e tre / esci fuori proprio te! 

- Un due tre / la Rosina fa il caffè / e lo fa di cioccolata / la Rosina sè sposata. 

Un altro modo per stabilire le precedenze o le scelte si faceva con i fili di 
paglia: tanti fili di paglia di diversa lunghezza quanti sono i bambini, tenuti in 
mano dal capogioco, Cad vedere solo l'estremità superiore. Secondo le regole 
convenute, si stabilisce, a seconda della lunghezza della paglia sorteggiata, un 
ordine a crescere o a decrescere, oppure si sceglie il singolo ubi che abbia 
tirato la più lunga o la più corta. Scrive il Minucci nel suo commento che tirare 
le bruschette o buschette equivale a tirare le sorti: ©... si fa con pigliare tante fila 
di paglia o d’altra materia simile, quanti sono coloro, che hanno a concorrere al 
premio proposto: e quel filo che tira il premio, si fa o più lungo o più corto degli 
altri. [...] Questo giuoco serve ancora a’ ragazzi per fare le divisioni ne loro giu- 
ochi fanciulleschi, come sarebbe ne’ Birri e Ladri, [...]: che allora pigliano tanti 
fili, quanti sono i ragazzi, la metà lunghi e la metà corti, e cavandosi da loro a 
uno per volta detti fili, quelli che hanno i lunghi vanno da una banda, e quelli 
de’ corti dall’altra...”. 

Una volta che un gioco è cominciato, se uno dei giocatori si vuole ritirare o ha 
qualche problema a continuarlo, grida “Fido!”3' e questo lo esime dal continuare 
il gioco e gli evita di fare penitenza. Quando il gioco viene interrotto, per accordo 


Cfr. De Gubernatis, p. 114; Corsi 1890, p. 114; Giannini G., p. 62. 
8. Minucci, p. 180; v. anche Fanfani, p. 179. 
3 Allo stesso fine, nel Ma/mantile (Lippi, IX, 35, 1) viene indicata la parola “spida” (etimo incerto): 
...quand’uno tocca bomba, o per qualche sua faccenda, non attenente al giuoco, vuol partire; per assicu- 
rarsi dall’esser catturato, dice Spida: e con questa parola s'intende per lui fatta sospensione del giuoco”. 


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QUANTE CORNA HA LA CAVALLA? I giochi infantili nella Toscana preindustriale, 
sullo scenario del Malmantile racquistato di Lorenzo Lippi 





o per arbitrio di alcuni, si dice “buttare (o mandare) a monte””. 


Il catalogo (che non pretende di essere esaustivo) è questo 

Le schede che seguono sono compilate tutte al presente, anche se il gioco, 
oggi, non è più in funzione. Per indicare colui che gioca è usato sempre il termine 
maschile bambino, salvo nei casi in cui il gioco un tempo fosse esclusivamente 
femminile. La suddivisione in categorie è del tutto arbitraria e corrisponde essen- 
zialmente al modo in cui le attività ludiche sono state percepite dall'autore e dai 
suoi informatori. Va da sé che ogni gioco, come ogni elaborazione tradizionale, 
può avere infinite varianti e differenze, sia nelle formule linguistiche sia nelle 
dinamiche. Le parti scritte in corsivo indicano gli apparentamenti con i giochi 
descritti nelle note del Malmantile racquistato o le citazioni da altri autori del 
passato. 


1. Giochi per trastullare gli infanti 


Briccicalla briccicalla — Di questo trastullo si è ampiamente riferito nei pa- 
ragrafi precedenti. 


Cavallino arrì arrò — Trastullo per bambini piccoli. L'adulto prende il bam- 
bino faccia a faccia sulle proprie ginocchia, tenendolo per le mani e, sollevando 
ritmicamente i piedi sulle punte a imitazione del trotto del cavallo, canta la fila- 
strocca: “Cavallino arrì arrò / mangia la biada che ti do / piglia i ferri che ti metto 
/ per andare a San Francesco / San Francesco è bòna via / per andare a casa mia / 
a casa mia c'è un altare / con tre monache a cantare / ce n'è una la più vecchietta 
/ Santa Barbara benedetta”. Segue il ribaltamento del bambino all'indietro”. 


Mano mano piazza — È un trastullo usato dalle mamme e dalle nonne con i 
bambini piccoli, quale elementare strumento per la trasmissione di informazioni 
basilari. L’'adulto con il proprio dito indice traccia diversi cerchi sul palmo della 
mano del bambino, dicendo: “Mano mano piazza / qui ci passò la lepre pazza”. 
Poi gli tocca una dopo l’altro le piccole dita, via via che le nomina, partendo 
dal pollice e dice: “Il pollice pa / l'indice la spellò / il medio A cosse / 
l’anulare la mangiò / e aimmigniolino / ch'era il più ppiccino / ‘un gliene toccò 
nemmeno un briciolino”?7. 


Questo è l'occhio bello — Altro trastullo di didattica elementare per i bambini 
molto piccoli. L'adulto tiene il bambino sulle ginocchia e mentre dice la filastroc- 
ca, gli tocca o stringe tra le dita le parti del viso che viene nominando: “Questo 
è l'occhio bello / questo e i’ssu fratello / questa è la chiesina [la bocca] / e questa 





8. Lippi X. 9. 4. Minucci, p 743: “...In tutti i giuochi si dice Far monte, quando si resta d’accor- 


do, che non segua o non vada la posta o l’invito proposto”. 

3 Cfr. Nerucci, p. 53; Pitrè-Siciliano, p. 384 (tre versioni); Bacci, p. 48; De Gubernatis, p. 106; 
Corsi, p. 497; Giannini, p. 27; Nistri 1986, p. 53; Giannetti e Fornari, p. 34. I versi hanno infinite va- 
rianti sul territorio e nelle diverse regioni italiani. La filastrocca è citata, con diverso esito, da Petrocchi, 
alla voce molino del suo dizionario, vol. II, p. 262. 


#7 v, Nistri 1986, p. 86. Cfr. Pitrè-Siciliano, p. 383-384; De Gubernatis, p. 97; Giannini G., p. 25-26. 


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Rossano Nistri 





è la campanellina [il naso] / dilidin dilidin dilidin” e prendendogli il naso tra le 
dita glielo scuote delicatamente a destra e a sinistra come fosse un campanello8*. 


Stacciaburatta — Anche di questo trastullo si è riferito nei paragrafi prece- 
denti. 


2. Giochi a canto 


Al mio bel castello — I bambini girano in cerchio, salvo uno, scelto con la 
conta, che ne sta fuori e canta: “Al mio bel castello / tollerino e tollerello / al mio 
bel castello / tollerino e tollerò”. Quelli in cerchio, sempre girando, rispondono: 
“Il nostro gliè più bello / tollerino e tollerello / il nostro gliè più bello ecc.”. Quel- 
lo da solo: “Che cosa ci tenete ecc.”, Quelli in cerchio: “C'è una ragazza bella / 
tollerino e tollerello / c'è una ragazza bella / che si vôle marita”. Quello da solo: 
“La mi’ dama è [dice il nome della bambina] / tollerino e tollerello ecc.”. Mentre 
canta si avvicina al circolo, prende per mano e porta con sé la bambina che ha no- 
minato. I bambini del cerchio ricominciano da capo: “Al mio bel castello ecc.” e 
continuano così — botta e risposta — finché chi era solo, portando via un bambino 
alla volta, può formare un nuovo circolo lasciando fuori l’ultimo bambino, che 
ricomincerà il gioco dall’inizio” (Fig. 4). E un gioco conosciuto in tutta Italia, 
con infinite varianti sia nel testo, sia nel ritornello, mentre la melodia è pressap- 
poco la stessa ovunque. 


Beppino su'i’ccanapè o zucchetennetta — Due bambini incrociano le braccia 
e si prendono per le mani, poi cantano la filastrocca: “C’è Beppino su'i' ccanapè / 
fai un salto /e vien da me / fa tre passi la violetta / zucchetennetta!”. Mentre can- 
tano, senza lasciarsi le mani, fanno un salto, tirano il compagno verso di sé, fanno 
tre passi di lato e infine (zucchetennetta) muovono avanti e indietro le braccia, 
come fossero seghe, andando indietro con il corpo e portando sopra il braccio 
che era sotto. Gli ultimi due versi si ripetono quante volte si vuole, fido i passi 
una volta a destra e una a sinistra, con parole e gesti sempre più veloci, finché le 
mani non si staccano‘, 


Ecco l’ambasciatori - I giocatori formano due gruppi, si dispongono su due 
file frontali e quelli della stessa fila si danno le mani incrociando le braccia. La fila 
che rappresenta gli ambasciatori si dirige verso l’altra, facendo un passo avanti e 
cantando la prima strofa della canzone. Quindi torna al proprio posto, cammi- 
nando all'indietro, mentre quelli dell'altra fila fanno un passo avanti, cantando la 
seconda strofa, per poi tornare all'indietro al proprio posto. L'azione si ripete per 





38 


Nistri1986, p. 85; cfr. la versione della Montagna Lucchese in Giannini G., p. 25. 
Cfr. De Gubernatis, p. 115, che avanza l'ipotesi che le locuzioni tollerino e tollerello derivino 
dal latino zo/lere (togliere, portar via) che svelerebbe legami con Pantico rito tradizionale del rapimento 
della sposa; Giannini G., p. 67; Giannetti e Fornari, p. 56; Nistri, p. 32. 

4 Nistri 1986, p. 162; Giannetti e Fornari p. 61. In molte versioni, sul canapè ci troviamo una 
Rosina, oppure la Regina. 


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QUANTE CORNA HA LA CAVALLA? I giochi infantili nella Toscana preindustriale, 
sullo scenario del Malmantile racquistato di Lorenzo Lippi 





le altre due strofe. La canzone: “Ecco l’ambasciatori / sui monti e sulle valli / ecco 
l’ambasciatori / aiulì e aiulà. // Che vogliono da noi / sui monti e sulle valli / che 
vogliono da noi / aiulì e aiulà. // Si vol marita una / sui monti e sulle valli // si 
SENZA una / aiulì e aiulà. // La sposa sarà [nome] / sui monti e sulle valli / la 
sposa sarà [nome] / aiulì e aiulà”. A questo punto due degli ambasciatori formano 
una seggiolina stringendo ognuno con la mano destra ii proprio polso sinistro e 
con la mano sinistra il polso destro del compagno. Si abbassano davanti alla sposa 
prescelta per farcela salire, la sollevano e si avviano scandendo, assieme a tutti gli 
altri bambini, la filastrocca, mentre dietro loro si forma il corteo nuziale. Fiha. 
strocca: “Ecco la sposa che va a marito / con dugento anelli in dito / cento di qua 
cento di là / eccola sposa che se ne va. / Se ne va a Santa Croce / ecco la sposa che 
schiaccia le noce / e le schiaccia due e tre / eccola sposa che va a sede!” (Fig. 5). 

La seggiolina fatta intrecciandole braccia è ricordata nel Malmantile come an- 
dare a predellucce: “Due si pigliano pe polsi d'ambedue le mani, l'un con l'altro in 
croce e formano come una seggiola, e un altro vi siede sopra. (...) E questo sebbene è 
giuoco, tuttavia è specie di pena per quei, che a per aver perduto ad altri de 
suddetti giuochi”*. Il riferimento alla “sposa che schiaccia la noce” potrebbe essere la 
reliquia di un'usanza matrimoniale etrusco-latina, in cui si lanciavano noci augurali 
ai bambini e alla sposa, la quale doveva raggiungere la casa dello sposo evitando di 
schiacciare le noci per garantirsi un matrimonio propizio ®. 


Girotondo — È uno dei giochi infantili più semplici e conosciuti, ripetitivo 
nella sua dinamica fondamentale. Può cambiare però la canzoncina o la filastroc- 
ca che i bambini recitano tenendosi per la mano in cerchio e facendo girare il 
cerchio camminando di lato. Variazioni possono essere inserite a cul delle 
indicazioni contenute soprattutto nella parte finale del canto. Girotondi dalle di- 
namiche più complesse, come “A/ mio bel castello”, “O quante belle figlie madama 
Dorè” e “Ho perso la cavallina” meritano menzione a parte. Le filastrocche più 
usate per il girotondo: 

- “Giro giro tondo / il pane è cotto in forno / un mazzo di viole / si danno a 
chi le vôle / le vôle la regina /caschi in terra la più piccina!” (Fig. 6). 

- “Giro giro tondo /casca il mondo / casca la terra / tutti giù per terra!” (Fig. 7). 

Cantando l’ultimo verso di ambedue i girotondi, i bambini si fermano e si 
accovacciano. 


Ho perso la cavallina — I bambini formano un cerchio tenendosi per mano, 
mentre uno di loro ne rimane fuori, e correndo con le mani sui Banchi attorno 
ai compagni, facendo il passo rimbalzato su ogni piede, canta: “Ho perso la ca- 
vallina / dindina dindella / ho perso la cavallina / dindina e cavaliè”. Il cerchio 





41 Cfr. Giannetti e Fornari, p. 57-58. Versioni più brevi in Corsi, p. 496-497e Giannini G., p. 69; 
una più articolata in Giannini A., pp. 87-88. 

& Minucci, p. 192. 

4 Sesto, IX, 22, 23-26: “Nuces flagitantur nuptis et iaciuntur pueris, ut novae nuptae intranti do- 
mum novi mariti secundum fiat auspicium”. Si riferisce presumibilmente a questa usanza l'accostamento 
delle noci al nome di Imeneo nel carme LXI (vv. 128-140) di Catullo, dedicato alle nozze di Manlio 
Torquato e Vinia Aurunculea. Cfr. anche Vesco, p. 32. 

4 Cfr. Corsi 1890, p. 114; Giannini A., p. 85. 


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comincia a girare in senso opposto e risponde: “Dove l'avete persa / dindina din- 
della / dove l’avete persa ecc.”. Sempre correndo il bambino che sta fuori: “L'ho 
persa alle tre colonne / dindina dindella ecc.”. Con la stessa dinamica, il cerchio: 
“O quanto vi costava ecc.”. Il bambino: “Costava dieci scudi ecc.”. Il cerchio: 
“Facciamo dieci salti ecc.” ed eseguono“ (Fig. 8). 


Madama Dorè — Le modalità di gioco sono più o meno le stesse di “AI mio 
bel castello”. Botta e risposta tra i bambini che formano un cerchio facendo il 
irotondo, e uno che resta fuori. Alla fine del canto, quello che sta fuori sceglie un 
ana del cerchio e lo tiene vicino a sé, ricominciando daccapo il canto, finché 
tutti i bambini saranno passati fuori del cerchio, e allora le parti si invertono. 
Inizia il bambino da solo: “O quante belle figlie madama Dorè / o quante belle 
figlie!”. Rispondono quelli del cerchio: “Son belle e me le tengo, madama Dorè 
/ son belle e me le tengo!”. Me ne dareste una, madama Dorè ecc.”. “Che cosa 
ne vuoi fare, madama Dorè ecc.?”. “La voglio maritare, madama Dorè ecc.”. “A 
chi la mariterete, madama Dorè ecc.?”. “Col principe di Spagna, madama Dorè 
ecc.”. “Entrate nel mio castello, madama Dorè ecc.”. “Nel castello ci sono entrata 
ecc.”. “Sceglietevi la più bella, madama Dorè ecc.”. “La più bella Pho già scelta, 
madama Dorè ecc.”. “E andatevi a sposare, madama Dorè ecc.”‘° (Fig. 9). 


Maria Giulia — I bambini si dispongono in cerchio, mentre uno resta nel 
mezzo. I bambini del cerchio sillabano la filastrocca e quello in mezzo esegue i 
movimenti che gli vengono indicati. “Maria Giulia / da dove sei venuta? / Alza gli 
occhi al cielo / fai un salto / fanne un altro / fa' la riverenza / fa la penitenza / fa 
una giravolta / falla un’altra volta / guarda in su / guarda in giù / dai un bacio / a 
chi vuoi tu”. Dopo l’ultimo verso chi sta in mezzo dà un bacio al compagno pre- 
scelto, e questi prenderà il suo posto in mezzo al cerchio”. Molto simile è la Bella 
lavanderina, in cui con la stessa disposizione i bambini cantano la filastrocca: “La 
bella lavanderina / che lava i fazzoletti / per i poveretti / della città. / Fai un salto 
/ fanne un altro / fai la giravolta / falla un’altra volta / guarda in su / guarda in 
giù / dai un bacio / a chi vuoi tu”. La lavanderina, restando in mezzo al cerchio, 
esegue tutti i movimenti richiesti dei compagni e poi va a dare un bacio a uno di 
loro che diventa lavanderina, e il gioco ricomincia” (Fig. 10). 


Nella città di Mantova — I bambini si mettono in cerchio, tenendosi per 
(<4 . x . da . pi 
mano e cantano: “Nella città di Mantova / c'è una ragazza bella / e il re che l’ha 





5 Cfr. Corsi 1896, p. 21; Giannini A., p. 86; Nistri 1986, p. 164; Giannetti e Fornari, p. 64. Con 
la stessa melodia e gli stessi ritornelli (dindina dinadella // dindina e cavaliè) nel Pisano era conosciuto un 
altro gioco, Inginocchiati o Sandruccia, nel quale la bambina che sta in mezzo al girotondo deve compie- 
re alcuni gesti che le vengono indicati e poi indovinare chi le ha lanciato il fazzoletto (De Gubernatis, 
pp. 109-110). 

4 Cfr. Giannetti e Fornari p. 59; Nistri 1986, p. 32. Fornari, p. 161, ipotizza che la madama 
Dorè non sia nient'altro che la regina, “divenuta una qualsiasi signora, obliando di aver rivestito il rango 
di moglie del re (d’o’ re)” in una reliquia di rappresentazione matrimoniale. 

4. Cfr. Bacci, p. 67; Corsi 1890, p. 115; De Gubernatis, p. 111; Giannini G., p. 64; Nistri 1986, 
p. 162; Giannetti e Fornari p. 61. Pitré-Siciliano, p. 385, ne pubblicano una versione come Bella Giulia. 

48 Cfr. Giannetti e Fornari, p. 61. 


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sullo scenario del Malmantile racquistato di Lorenzo Lippi 





saputo / e’ vôle anda’ a vedella // E si vestì da povero / e via se mandò. / Quando 
fu a mezza strada / lemosina chiedeva”. Tutti i bambini allungano una mano per 
chiedere l'elemosina e continuano a cantare: ‘Mamma, mia cara mamma / guar- 
dalo quel villano / ha chiesto l’elemosina / ha stretto la mia mano”. Tutti alzano 
le braccia al cielo, le riabbassano e poi si danno una stretta di mano. Continuano 
a cantare: “Figlia di quindici anni / lascialo pure anda’ / è un povero pellegrino / 
che chiede la carità”. Cantano ancora: “Ma quando fu alle porte / tutti i soldati 
in pie”, mettendosi sull’attenti, e poi: “Evviva la regina / sposa del nostro re”, e 
tutti battono le mani per applaudire gli sposi® (Fig. 11). 


3 — Giochi di imitazione o di ruolo 


Cavalli — È necessario che ogni bambino si procuri una canna o un manico di 
scopa, che funge da cavallo, e un bastone che serve da spada, se si vuol giocare a 
fare duelli a cavallo; oppure un fuscello di vimini come frustino se si vuol giocare 
alle DR In ambo i casi è d'obbligo muovere le gambe imitando il galoppo del 
cavallo. 


Maestre — Gioco di imitazione, in cui di solito una bambina fa la maestra e 
gli altri, maschi e femmine, la scolaresca. La maestra, scelta con la conta, o più 
spesso la leader del gruppo, si pone “in cattedra”, spiega, assegna compiti e in- 
carichi, fa scrivere e interroga, dà voti, punizioni e premi. Più che un gioco, una 
piccola rappresentazione teatrale, mimata e parlata, che ripropone il già visto e 
sentito durante le lezioni vere a scuola, semmai parodiando il comportamento 
delle insegnanti. 


Mamme — Gioco d’imitazione, esclusivamente femminile. Le bambine, uti- 
lizzando un bambolotto o un altro oggetto che faccia la funzione di una neonato, 
fingono di averlo appena partorito e lo accudiscono come fa una mamma con il 
proprio figlio: gli cambiano le fasce, gli fanno il bagnetto, lo cullano, lo mettono 
a letto cantandogli la ninna-nanna, gli danno il latte e la pappa, lo portano di 
mimmi e se non fa il bravo lo sculacciano... 

Gioco nato assieme alle grandi civiltà umane sulla Terra e quindi praticato dai 
tempi più antichi. Attorno a qualcosa di simile, il gioco della comare, il Minucci 
scrive: “...è trattenimento di o e lo fanno così. Mettono una di loro in un 
letto con un bamboccio fatto di cenci. E fingendo, che colei abbia partorito, le fanno 
ricevere le visite di altre fanciullette, con i quelle cerimonie ed accompagnature, 
che si costumano in occasione di vere go Tal giuoco era usato ancora dalle 
fanciullette Greche, secondo Giulio Polluce libr. IX c. 7. ma invece d'una parturiente, 





4° Cfr. Giannini G., p. 64-65; Nistri 1986, p. 33; Fornari, p. 39. Ne dà dodici versioni in vari 
dialetti piemontesi Nigra, vol., I, pp. 313-322, riscontrando similitudini con archetipi narrativi alto- 
medievali (Autari e Teodolinda nell Historia Longobardorum di Paolo Diacono: Aureliano e Clotilde nei 
racconti di Gregorio di Tours e Aimoino di Fleury; Attila ed Erka nella Vilkina Saga o Saga di Teodorico), 
ma senza azzardare ipotesi sulla origine della canzone da gioco. Fornari, p. 162, rileva che la melodia in 
5/4 richiama “una danza molto antica”. 


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fingevano una sposa: qual giuoco fanno pe ancora le nostre fanciulline, e lo chiama- 

no Fare le zie. Non ha questo giuoco della Comare o delle Zie altro fine, che di passare 
il giorno in quelle cerimonie e ricevimenti, nei quali alle volte si consuma quello, che 
le fanciullette hanno avuto per merendare””. 


Pentolini — È un gioco di simulazione quasi esclusivamente femminile. Con- 
siste nel fingere di essere donne di casa che preparano il cibo e le bevande per se 
stesse, per la propria famiglia o per degli ospiti, spesso rappresentati con bam- 
bole e ARR Utilizzando come tavola e fornelli una panchina, uno scalino 
o un muretto, e servendosi di pochi contenitori di recupero (scatoline, vasetti, 
bustine) e altri utensili ricavati da bastoncini di varia lunghezza, pezzetti di stoffa 
o reticella, le bambine “cucinano” ed elaborano le pietanze da portare in tavola: 
pezzi di carta, grandi foglie o cortecce d’albero fingono i piatti, altri bastoncini 
le posate, dei gusci di noce i bicchieri — ma poi il gioco è basato sulla fantasia e 
ol na Le pietanze sono sassi, sassolini, foglie, erba, fiori e tutto ciò 
che si può trovare sul teatro di gioco. Una parte importante nella simulazione 
hanno i dialoghi, nei quali le bambine reiventano il linguaggio dei grandi ai fini 
della finzione che stanno vivendo. 

Il gioco delle merenducce ricordato nel secondo cantare del Malmantile, ha esse- 
re considerato l'antenato aristocratico dei nostri pentolini, implicando però l'acquisto 
di stoviglie in miniatura e la presenza di veri alimenti. “I nostri stovigliai in alcune 
Fiere, che si fanno in Firenze, ne giorni della festività di San Simone, e di quella di 
San Martino, conducono gran quantità di stoviglie piccolissime, come piatti, tegami, 
pentole, ed ogni altra specie di arnesi e vasellami da cucina, che da essi si fabbricano 
di terra. Di queste si provveggono i nostri fanciulli, per quanto vien loro permesso 
dalla loro borsa: e da questo vien poi loro l'occasione di Fare le merenducce; perché 
avendo altre masserizie adeguate, come tavole, sgabelli, bicchieri, salviette, e simili, 
imbandiscono una mensa, accordandosi più fanciulletti e fanciulline a AS quello, 
che è dato loro per merenda: ed accomodando tutto in piccole particelle, le distribui- 
scono in quei piattellini, figurando di fare un banchetto: e mettono a sedere a quella 
tavolina li loro bambocci””. 


4. Giochi di destrezza, di abilità o prontezza 


Acqua fuochino fuoco — Si può giocare in due o più bambini in età presco- 
lare, ma il numero troppo alto di partecipanti (più di cinque o sei) rende difficile 
il controllo e lo svolgimento del gioco. Mentre i partecipanti restano a occhi 
chiusi, il capogioco (tirato a sorte con la conta) nasconde un oggetto di piccole 
dimensioni (il tesoro). Al suo via i compagni cominciano a cercare l'oggetto, 
usufruendo delle indicazioni non ingannevoli del capogioco, che userà i termini 
“acqua” per indicare che i bambini sono lontani dall'eg etto nascosto, “fuoco” 
quando i bambini sono molto vicini, e i termini intermedi “acquona”, “acquina”, 
“acquetta”, “acquerugiola”, “fochetto”, “focherello”, ’fochino” ecc., a seconda che 


5 Minucci, p. 190. 
9 Minucci, p. 191. 


QUANTE CORNA HA LA CAVALLA? I giochi infantili nella Toscana preindustriale, 
sullo scenario del Malmantile racquistato di Lorenzo Lippi 





i bambini si avvicinino o si allontanino dal tesoro, fino al “focone” che accompa- 
gna il ritrovamento dell oggetto. Chi trova il tesoro, diviene capogioco, nasconde 
nuovamente l'oggetto e si ricomincia. 


A schiaffi — Si gioca in due, un bambino di fronte all’altro. Il primo tiene le 
mani parallele davanti a sé, con le palme rivolte verso l’alto. Il secondo vi appog- 
gia sopra le proprie, palma contro palma, e deve cercare di evitare i colpi che il 
compagno, sfilando all’improvviso le mani da sotto le sue, tenterà di dargli sul 
dorso. Se il colpo va a vuoto, le parti si invertono; se arriva a segno si continua 
alla stessa maniera. 


Belle statuine — Un bambino scelto con la conta a fare la parte del venditore, 
si volta verso una parete e appoggia la fronte su un braccio per non vedere cosa 
fanno i compagni, e recita la filastrocca: “Le belle statuine / d’oro e d’argento / 
che costan cinquecento / ma valgono di più / un due e tre / la più bella sei tu!”. 
Mentre dice la filastrocca, gli altri bambini che gli stanno alle spalle assumono 
la posa che preferiscono, e rimangono fermi in quella posizione. Assolutamente 
vietato muoversi e ridere. Allora il venditore si avvicina ai compagni, cercando, 
senza toccarli, di farli muovere o di spingerli al riso. Chi si muove o ride è eli- 
minato. Tra quelli che rimangono immobili il venditore sceglie la statuina che 
gli piace di più, che prenderà il ruolo di venditore nella continuazione del gioco. 


Cavallina (altrove detto salto della quaglia) — Si sceglie con la conta il bambi- 
no che sarà il primo ostacolo. Questi si piega in avanti, con le mani appoggiate 
alle ginocchia o alle gambe e abbassa il più possibile la testa per non essere colpito 
da chi lo dovrà saltare. Gli altri bambini si mettono in fila per fare la cavallina e 
saltare a turno sopra l'ostacolo. Il salto si esegue appoggiando le mani sulla schie- 
na del compagno e passandogli di sopra, con le so ben allargate per evitare 
di toccarlo. Se lo tocca con le gambe è squalificato. Chi effettua il salto, superato 
l'ostacolo si sposta un po’ più avanti del punto in cui è atterrato e si mette piegato 
nella posizione di ostacolo. Allo stesso modo, uno dopo l’altro, saltano gli altri 
bambini. Quando tutti hanno fatto il salto e sono diventati tutti ostacoli, quello 
che è stato il primo ostacolo si alza, diventa cavallina e il gioco può continuare 
all'infinito senza interruzioni. 


Cavalluccio — I bambini si dividono a coppie: uno dei due farà il cavallo, Pal- 
tro il cavaliere. Quest'ultimo sale sulla schiena del suo cavallo, cingendolo con le 
braccia alle spalle e con le gambe attorno ai fianchi. Le coppie si allineano davanti 
alla riga di partenza e al via, i cavalli si mettono a correre, pungolati e incitati dal 
proprio fantino. Vince la coppia che raggiunge per prima la meta convenuta. 

Altro gioco dalle origini antichissime. Scrive il Minucci: “...noi diciamo portare 
a cavalluccio da un giuoco che fanno i nostri ragazzi in questa forma. Uno mette 
il I fra le gambe dell ‘altro per di dietro, e sollevatolo così da terra, lo porta tra le 
spalle e il collo”. Il gioco era già in uso tra i Greci e i Latini, con diverse modalità di 
presa delle gambe del cavaliere. “Adesso chi porta a cavalluccio sostiene colle proprie 





2... Minucci, p. 259. 


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mani il portato sotto le sue ginocchia” commenta a sua volta il Biscioni®. 


Chiappino (poi divenuto a pigliassi, infine a prendersi) — Si fa la conta per 
scegliere chi sta sotto. Il prescelto le cercare di afferrare uno degli altri bambini 
che scappano da ogni parte per non farsi prendere. Se ci riesce, il bambino che è 
stato preso dovrà, senza fermare il gioco, stare sotto a sua volta, finché non riusci- 
rà a prendere un altro bambino, e così via, fino a che ci si stanca e si cambia gioco. 


È arrivato un bastimento carico carico... - Con i bambini in cerchio, il 
capogioco lancia una pallina o un fazzoletto annodato ad uno dei giocatori, di- 
cendo: “E arrivato un bastimento carico carico di...” (e dirà una lettera dell’alfa- 
beto). Chi ha ricevuto la pallina dovrà dire una parola che comincia con quella 
lettera e che indica una cosa che può essere trasportata sul bastimento (ad esem- 
pio, se la lettera è S, sale, non starnuto e nemmeno Saturno), quindi lancerà la 
pallina a un altro giocatore, ripetendo la domanda e indicando un’altra lettera. 
Chi non risponde prontamente è eliminato. Si può variare il gioco dicendo: “E 
arrivato un bastimento carico carico di... comincia per B e finisce per E”, e la 
risposta dovrà essere una parola con quelle caratteristiche: bambole, bambine, 
biciclette, bomboniere ecc., a meno non si sia stabilito, altra variante, che chi fa la 
domanda aggiunga qualche caratteristica per far riconoscere il carico: “... hanno 
due ruote” e allora la risposta può essere solo biciclette. 


Figurine — Si gioca solitamente in quattro, raramente in due o sei, con le 
figurine delle collezioni in vendita. Prima del 1961, anno in cui Panini cominciò 
a pubblicare gli album dei calciatori, e nel giro di pochissimi anni sbaragliò tut- 
ta la concorrenza, c'erano le figurine delle serie Disney (Biancaneve, Pinocchio), 
quelle della editrice B.E.A. (La nostra bella Italia, Il mondo sul quale viviamo, 
1961 Centenario dell'Unità d'Italia), quelle della editrice V.A.V. (I campioni del 
ciclismo) quelle attaccate sui “formaggini” Ferrero (Epopea Garibaldina, Lu 
Indiana). Il gioco si fa con figurine tutte dello stesso tipo. Fatto il conto, chi è 
di turno raccoglie una figurina da ciascuno degli altri giocatori, cui aggiunge la 
propria. Quindi sceglie una della quattro opzioni (palle, santi, mezza e tutta); i 
compagni scelgono secondo l’ordine del giro, le altre tre opzioni. Chi è di turno 
lancia in aria le figurine e, dopo che sono cadute a terra, ognuno raccoglie quelle 
vinte conformemente alla propria scelta. “Palle” indica le figurine cadute con il 
recto, cioè l’immagine, verso l'alto; “santi” indica quelle cadute con il verso, cioè 
la faccia bianca o scritta, verso l’alto: “mezza” indica due figurine in recto e due 
in verso; “tutta”, le figurine cadute tutte in recto o tutte in verso. Se due o più 
figurine cadono una sopra l’altra, si dice “ciccia”, e quelle figurine devono essere 
lanciate nuovamente in aria. 

Con le figurine si gioca anche a murino. I ragazzi si mettono tutti alla stessa 
distanza da una parete e, a turno secondo l’ordine stabilito dal conto, lanciano 
una figurina, tenendola di piatto tra il pollice e l’indice di una mano, rasente 
al pavimento, verso la parete. Chi si avvicina di più alla parete è il vincitore e 
guadagna le figurine di tutti gli altri giocatori. Se una figurina resta in verticale 





53. Biscioni, p. 259. 


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appoggiata alla parete, deve essere tirata di nuovo. Con le stesse regole si gioca 
usando monetine o bottoni 

Proprio dall'uso di soldini metallici deriverebbe, secondo la tradizione, l'alternati- 
va palle e santi, in riferimento alle monete (piccioli, crazie, giuli) usate a Firenze nel 
tardo Rinascimento, portanti sul recto lo stemma mediceo con le sei palle, e sul verso 
l'immagine di san Giovanni, talvolta in compagnia di san Cosma). 


Gioco del silenzio — Tipico intrattenimento scolastico, imposto dalle suo- 
re dell'asilo e dalle maestre elementari alle scolaresche con lo scopo ufficiale di 
educare i bambini all'ascolto e alla disciplina, ma con l'intento reale di gabellare 
per gioco una inderogabile necessità di silenzio e di ordine. Un bambino viene 
chiamato dalla maestra alla lavagna. Prende un gessetto e poi si rivolge a osservare 
i compagni. Se qualcuno parla, si agita o fa rumore, può scriverne il nome sulla 
lavagna. Dopo un po sceglie tra i compagni quello che gli è sembrato più quieto 
e silenzioso. Lo chiama alla lavagna, gli passa il gessetto e ritorna al suo posto nel 
banco. E così via. La semplificazione del gioco è brutale e repressiva. La maestra 
chiama alla lavagna un bambino e gli dà la semplice consegna; “Scrivi il nome di 
chi fa chiasso” o, peggio, “dei cattivi”. 


Guardie e ladri — I bambini, accordandosi tra loro o per mezzo della conta, 
formano due squadre con lo stesso numero di componenti, quella delle guardie 
e quella dei ladri. Quando viene dato il via, i ladri devono cercare di sfuggire alle 

uardie, mentre le guardie devono catturare i ladri e metterli in prigione in un 
lo convenuto e solitamente delimitato da una linea per terra. Un ladro cat- 
turato è liberato se un altro ladro riesce a toccarlo senza farsi a sua volta toccare 
da una guardia. Quando i ladri in prigione formano una catena, il primo che è 
toccato ritorna libero e libera anche gli altri. Il gioco finisce quando tutti i ladri 
sono in prigione. 

Con il nome di Birri e ladri, questo gioco è menzionato nelle note del Malmantile 
con termini leggermente diversi da quelli usati nel dopoguerra, poiché “toccare bom- 
ba” o “andare a bomba” era pin da noi usata nel gioco del rimpiattino: “.un 
giuoco fanciullesco, detto Birri e Ladri, il quale fanno in questa maniera. S'uniscono 
molti fanciulli: e tirate le sorti a chi di loro debba essere birro, e chi ladro; quelli, che 
sono eletti birri, si mettono in mezzo della stanza o piazza, dove sha da fare il giuoco: 
e ciascuno de’ ladri piglia il suo posto, il quale è già stato consegnato per immune: 
e questo luogo da essi è chiamato Bomba (...). Questi ladri vanno scorrendo da un 
luogo all’altro: e i birri procurano di pigliargli. Ed i ladri, quando si veggono stracchi, 
corrono a trovare un di quei luoghi immuni, detto Bomba: dove stando, sono franchi, 
ed i birri non possono pigliargli... 4. 


Manorossa — Un bambino allunga un braccio con il palmo della mano rivol- 
to verso il basso. Un secondo bambino appoggia il suo palmo sul dorso di una 
mano del primo, e così di seguito tutti gli altri bambini. Finito il giro, il primo 
bambino appoggia l’altro palmo sul dorso dell'ultimo e gli altri di seguito. Fatto 





5... Minucci, pp. 173-174. 


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il cumulo delle mani, il primo bambino deve estrarre la sua mano da sotto le altre 
e sbatterla con forza sull ultima del cumulo, e così faranno gli altri quando una 
delle loro mani è la prima in basso. Chi estrae la mano quando non è il suo turno 
è fuori del gioco. 

Si tratta, nella sostanza, dello scaldamane del Malmantile, di cui il Minucci scri- 
ve: “Quattro o più saccordano, e mette ciascuno ordinatamente le mani sopra quelle 
del compagno: e pa vanno cavando per ordine quella mano, che è oren e metton- 
la di sopra all'altre mani: e con questo modo e confricazione DE ono scaldarsele: e 
però tale operazione è detta Scaldamane: ed è giuoco fanciullesco, che ha la sua pena 
per chi erra, cavando la mano, quando non tocca a lui”. 


Mano rota — Un bambino mostra agli altri bambini un oggetto di piccole 
dimensioni, poi porta le braccia dietro E schiena e nasconde l'oggetto in uno 
dei due pugni chiusi. Riporta le mani davanti, le mostra, girando i pugni chiusi 
Puno attorno all’altro, e dice la filastrocca: “Mano rota mano rota / qual è piena 
e qual è vòta / Pero melo, dimmi il vero / non mi dire una bugia; / dimmi tu 
qual è la mia”. Presenta i pugni ad uno dei compagni e questi dovrà indicare in 
quale pugno si trova l'oggetto nascosto. Se indovina va lui sotto a fare mano rota. 
Se non indovina, quello che sta sotto porta ancora le braccia dietro la schiena, e 
può spostare, se vuole, l'oggetto da un pugno all’altro, e tocca a un altro bambino 
tentare di indovinare”. 


Monaca o frate? — Si gioca in due, usando i boccioli dei papaveri. Dentro il 
bocciolo, i petali possono essere rossi oppure rosa chiaro tendenti al bianco: si 
chiamano frati nel primo caso, monache nel secondo. Il primo bambino strappa 
dal fusto un boccio, e dice “frate”, oppure “monaca”. Vince se, aprendo il boc- 
ciolo, il colore corrisponde a ciò che ha detto. Poi tocca al secondo bambino, e 
poi di nuovo al primo e così via, un bocciolo per uno, un punto per ogni colore 
indovinato. Vince chi arriva per primo al numero deciso all’inizio come termine 
del gioco”. 


Mondo (o a zoppino) — Con il gesso, con un mattone rosso (o con un ba- 
stoncino se si è sullo sterrato) si disegna in terra uno schema con un numero di 
caselle da 7 a 12, poste singolarmente o affiancate e contrassegnate da nume- 
ri progressivi. All’inizio, stando fuori del tracciato un bambino lancia un sasso 
piatto nella casella con il numero 1, stando attento che non ne tocchi i bordi. 
Saltando su un piede solo (a zoppino), passa da una casella all'altra, seguendo 
l'ordine progressivo, ma evitando la casella dove c'è il sasso, che viene raccolto 
al ritorno, dopo che il bambino sarà arrivato all'ultima casella e avrà fatto il per- 





> Ivi, p. 186. 

5 Giannetti e Fornari p. 53. 

Con i papaveri si faceva a fine ‘800 il gioco del bubbolo (nome senese del papavero), documen- 
tato da da Pitrè-Siciliano, p. 385 e da Corsi 1890, p. 106: “... sfogliato un rosolaccio dei suoi petali [i 
bambini] se ne mettono il calice nel dorso delle mani, gridando: - Bubbolo, bubbolo, fammi 1 segno -. E 
ripetono questa tiritera finché non credono che il bubbolo li possa aver segnati. E quando un bubbolo 
ha fatto il suo servizio, ne pigliano un altro e poi un altro, finché non si stancano di questo gioco. Quegli 
poi che non è rimasto segnato dal bubbolo, perché non ha scelto bene, ha le beffe dei suoi compagni”. 


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corso all’inverso. Nella casella col numero più alto può posare in terra ambedue i 
piedi. Quando nello schema ci sono due riquadri affiancati, deve mettere a terra 
entrambi i piedi simultaneamente, ma uno in una casella e uno nell'altra. Quan- 
do nel percorso di ritorno giunge alla casella precedente quella con il sasso, deve 
chinarsi e raccoglierlo, sempre su un piede solo, e, scavalcando quel riquadro, 
termina il percorso. Parte allora il secondo bambino con le stesse procedure e 
dopo di lui tutti gli altri. Quando tutti avranno fatto il loro percorso di andata 
e ritorno, il primo bambino lancia il sasso nella seconda casella e continua come 

er il giro precedente. E dopo di lui tutti gli altri. Chi commette un errore (di 
a, di salto o pesta le righe) deve aspettare il termine del giro e ripetere la pro- 
va. Vince il giocatore che per primo riesce completare tutto il percorso gettando 
il sasso fino all’ultima casella’. 


Morra (0 mora) cinese — Si gioca in due. Ognuno dei due giocatori scampana 
un pugno chiuso davanti a sé, come per fare Bim bum bam, e sul terzo movimen- 
to compie uno dei tre gesti sui quali si basa il gioco: lascia la mano chiusa a pugno 
(sasso); apre la mano con tutte le dita stese (carta); a pugno chiuso forma una V 
con l’indice e il medio (forbici). Vince chi sceglie il gesto capace di sconfiggere 
quello dell’avversario, secondo le tre regole: 1. Il sasso spezza le forbici (vince il 
sasso); 2. Le forbici tagliano la carta (vincono le forbici); 3. La carta avvolge il 
sasso (vince la carta). Se i due giocatori scelgono la stesso segno, il gioco è pari. Si 
ripete il gioco più volte, secondo quanto convenuto, ed è vincitore chi guadagna 
più mani. 


Mosca cieca — Si gioca all'aperto (ma comunque in uno spazio delimitato) o 
al chiuso in una stanza grande e vuota. Si sceglie con la conta il bambino che sta 
sotto a fare la mosca cieca. Gli altri lo bendano con un fazzoletto, in modo che 
non possa vedere, poi si allontanano da lui. La mosca cieca conta fino a dieci, poi 
deve cercare di toccare uno degli altri bambini che gli corrono attorno, semmai 
facendo richiami con la voce. Chi viene toccato diviene la mosca cieca, viene 
bendato e il gioco ricomincia. 

Con modalità simili e con il nome di gattacieca, il gioco è citato dal Fanfani a 
metà Ottocento” , avendo già perso molta della virulenza che invece sembra avesse nel 
XVII secolo, stando alle note del Malmantile: “.. è trattenimento da fanciulli, che 
deriva dall'antico, e si diceva musca aenea: e si faceva nel modo che usano oggi” e 
che abbiamo già descritto a p. 147°. Anche nella Grecia antica, dove al posto della 
benda si usava mettere una pentola in testa a chi stava sotto, il gioco (kutrinda 0 gioco 
della pentola) ammetteva solleticamenti pizzicotti e percosse. Un altro gioco simile era 
chiamato apodidraskinda, ed era una sorta di nascondino in cui chi era sotto veniva 
bendato®!. A voler essere precisi, a parte il nome, la nostra mosca cieca è più simile al 
gioco nel Malmantile chiamato beccalaglio, del quale le chiose argomentano: “E un 





598 Cfr. Turcatti, p. 71-72. 
Fanfani, p. 426. 
6 Minucci, p. 68. 
& Costanza, pp. 237-241. 


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giuoco simile alla Mosca cieca, (...) né vi è altra differenza che dove in quello si dà 
con un penna avvolto 0 altra cosa simile: in questo si dà colla mano piacevolmente 
una sola volta da colui, che bendò gli occhi, a quel che sta sotto: ed il bendato, in 
vece di dare, saffanna di 2 un di coloro, che in quella stanza sono del giuoco: e 
colui che resta preso, dee bendarsi in luogo del bendato, e RS il pegno o premio: ed 


il primo bendato resta libero, e sintruppa fra quelli, che hanno a essere presi”. 


Pallammuro — Si può giocare da soli, in due o in gruppetti più numerosi, a 
turno. Chi è di turno deve lanciare la palla contro un muro e riprenderla, senza 
lasciarla cadere, compiendo determinate azioni tra il momento del lancio e quella 
del recupero. Quando sbaglia, ricomincia da capo (se è solo) o passa la palla a un 
compagno (se i giocatori sono due o più). Le azioni da compiere sono progres- 
sivamente più difficili, ma non c'è limite alla varianti, basta ci sia tra i giocatori 
l'accordo preventivo nella progressione. Le azioni più comuni sono: battere le 
mani una volta, battere le mani due volte, fare una giravolta, fare un inchino, 
battere le mani sopra la testa, battere le mani dietro A schiena, battere le mani 
sotto una gamba sollevata, prendere la palla con la sola mano destra, prendere la 
palla con la sola mano sinistra... Con un po di fantasia si inventano altre azioni. 


Palla avvelenata (poi chiamato anche palla prigioniera) — Si delimita il cam- 
po di gioco con tre linee, due agli estremi e una nel mezzo a separare l’area di 
ciascuna squadra e quella dei prigionieri. Si fa bim bum bam per scegliere il cam- 
po e per stabilire chi lancerà la prima palla. I giocatori di una squadra devono 
colpire con la palla quelli della squadra avversaria. Quando un giocatore viene 
colpito, prende la palla e va a mettersi nella prigione avversaria, oltre la linea di 
fine dell'altra squadra; da lì, può cercare di liberarsi colpendo qualcuno con la 
palla. Se un giocatore afferra al volo la palla che gli è stata lanciata per colpirlo, 
non viene fatto prigioniero e al suo posto viene fatto prigioniero chi ha lanciato la 

alla. Se la palla arriva nell’area dei prigionieri, questi possono tentare di liberarsi 
ini a colpire gli avversari. Vince la squadra che riesce ad eliminare tutti 
gli avversari. 


Palline — Palline di terracotta colorata (mai di vetro — le cosiddette vetrone 
— né tanto meno di plastica o di altro materiale), comprate al negozio, molto 
irregolari, sia per forma (da sferiche a ovali, con infinite curvature) che per di- 
mensione (da uno a due centimetri di diametro). Queste ultime, rarissime, più 
pesanti delle altre, sono destinate ad essere il “boro”, cioè il proiettile, per così 
dire, la pallina con cui ogni giocatore porta avanti il proprio gioco e per questo 
mai messa in palio). Con le palline si fanno principalmente tre giochi: 4 cappe, 
a donzino e a buchettola. 

Giocare a cappe. Ogni giocatore mette in palio quattro palline che sistema 
in forma di piramide, tre sotto e una sopra (la cappa, appunto), nel luogo conve- 





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Minucci, p. 192; in Guarini III, 2 è chiamato gioco de la cieca. Cfr. Fanfani, p 123. 

Il Fanfani (p. 160) riporta che “bocco chiamano i ragazzi quella Noce, o più grossa delle altre, 
o anche impiombata, con la quale, giocando a nocino, tirano alle castelline delle altre noci”. Altra de- 
nominazione, còccioro (ivi, p. 279). 


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nuto, a circa 7-8centimetri dalle cappe degli altri giocatori, secondo la posizione 
reciproca in uso. Per esempio, se i giocatori sono tre, le tre cappe disegnano un V; 
se sono quattro disegnano un rombo equilatero (non un quadrato, ci deve sempre 
essere una cappa davanti alle altre); se sono cinque un rombo con la quinta cappa 
in mezzo, cioè una croce, e così via. Sistemate le cappe, si traccia una riga in terra 
alla distanza di circa due metri: è il punto che ogni giocatore non dovrò superare 
al momento di tirare il suo doro verso le cappe. Si fa la conta per stabilire l'ordine 
di gioco, poi uno dopo l’altro i giocatori lanciano il proprio boro verso le cappe, e 
vincono le palline che formavano le cappe abbattute, lasciando il boro nel punto 
in cui è andato a fermare la sua corsa. Se, dopo che tutti hanno fatto il loro tiro, 
restano ancora cappe in piedi, si fa il tiro di ritorno, partendo dal giocatore che 
ha il boro più lontano dalle cappe (distanza misurata a piedi — mettendo un piedi 
davanti all’altro — e a dita delle mani messe in orizzontale). Se il boro è meno 
distante di un piede dalle cappe, il giocatore non può lanciarlo normalmente, me 
deve tirare 4 nappa (a nasino), cioè inquadrare le cappe rimaste tra i suoi piedi — 
talloni uniti e punte divaricate — e restando in posizione perfettamente verticale, 
portare con due dita il boro a un lato del naso, reclinando appena la testa in 
avanti, e sganciarlo dall’alto sopra le cappe. Qualora dopo che tutti hanno fatto 
il secondo tiro ci fossero ancora cappe in piedi, si può dire stia, e si tira di nuovo 
alle cappe rimaste; oppure, i giocatori che vogliono, possono assoprillare, cioè 
rilanciare, affiancando alle cappe rimaste un’altra cappa ognuno, e continuare il 
gioco con le stesse regole di prima”. 

Più semplice il donzino. Si gioca solitamente in due. Fatta la conta per stabi- 
lire l'ordine di gioco, il primo giocatore lancia la sua pallina a una certa distanza. 
Il secondo lancia la sua tentando di donzare, cioè di colpire, la pallina del primo. 
Se ci riesce, vince la pallina colpita. Se non ci riesce il primo giocatore tenterà di 
colpire la pallina del secondo nel luogo in cui si è fermata, lanciando dal punto 
in cui si trova la sua pallina, E così via, finché una delle palline non viene colpita. 
Nel caso i giocatori siano più di due, il terzo che lancia può scegliere quale delle 
palline degl avversari colpire e così di seguito per gli altri. 

A buchettola. Si scava in terra una piccola buca di 5-6 centimetri di diametro, 
nella quale ogni giocatore mette una pallina, A una distanza concordata si traccia 
la linea di lancio. Secondo l’ordine uscito dalla conta, il primo giocatore lancia 
la sua pallina cercando di farla entrare nella buchetta. Se non ci riesce tenterà il 
secondo e poi gli altri. Dopo il primo lancio, le palline devono rimanere nel pun- 
to in cui si sono fermate, e i giocatori, sempre avvicendandosi secondo l’ordine 
precedente, devono cercare di farla andare in buca per mezzo di un biscotto (v. 
n. 27). Chi manda la sua pallina in buca per primo prende tutte le palline che ci 
sono state messe all’inizio. 

Questi tre giochi con le palline di terracotta sono la versione aggiornata di quelli 
che nei secoli ona e fino al periodo tra le due guerre mondiali, erano i giochi delle 
noci, ai quali alludono gli autori latini”, e dei noccioli, di cui ancora una volta 
testimoniano le note del Malmantile, elencandone ben nove differenti. Noci, noc- 





6 Ivi, p.919: “È pretto latino super illum. (...) Quando dopo il primo o secondo tiro, resta un 


nocciolo solo da colpirsi, i giocatori ne aggiungono uno per ciascuno e dicono di far soprello”. 
6 Persio, 1. 10; Marziale, XIV, 19. 


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ciole, castagne, ma più spesso noccioli di pesca o di albicocca venivano infatti usati 
dai bambini fin dai tempi più antichi, per fare gli stessi giochi appena descritti con 
le palline. Nelle note del Malmantile, il gioco della cappe è chiamato alle caselle 
o alle capannelle. “Mettono sopra ad un piano tre noccioli in triangolo, e sopra di 
essi un altro nocciolo: e questa massa dicono Casella o Capannella: e fatto di esse il 
numero tra loro convenuto, ed allontanatisi nella distanza concordata, tirano a dette 
Caselle un altro nocciolo: e colui che tira, e coglie, vince tutte quelle caselle, che fa 
cascare col colpo. Questo fu usato anche dagli antichi...’ Il donzino, sempre stando 
al Minucci, prendeva di nome di truccino: “Uno tira un nocciolo in terra, e l'altro 
tira un nocciolo a quello, che è in terra: e cogliendolo, vince; se no, quello, che tirò in 
terrà il primo, raccoglie il suo nocciolo, e lo tira a quello, che tirò l'avversario: e così 
continovano: e chi coglie, vince il nocciolo che coglie, o quello che sieno convenuti”. 
Il gioco a buchettola sembrerebbe invece la reliquia estremamente semplificata del 
gioco dell’orca praticato nell'antica Roma® e di quello alle buche che si giocava nella 
Firenze tardorinascimentale, descritto nelle note del poema, con sette buchette alline- 
ate, e un diverso valore del premio (anche in denaro) in esse contenuto. Dopo il primo 
tiro, i successivi movimenti del nocciolo potevano essere ottenuti sia con la spinta del 
dito, sia “col buffare o col soffiare nel nocciolo”. Un gioco con numero variabile di 
buchette, da cinque a nove, disposte in quadrato è descritto come ancora in funzione 
negli anni 60 del ’900 in Val di Chiana". 


Pattina — Si traccia in terra col gesso o col mattone rosso (sullo sterrato con un 
bastoncino) un quadrato di circa 10 centimetri di lato. A distanza di due metri, 
due metri e mezzo si traccia la linea di lancio. Ogni giocatore dovrà cercare di 
lanciare la sua monetina (di solito di piccolissimo taglio. 1, 2, 5, 10 lire massi- 
mo), che coincide con la posta convenuta, all’interno del quadrato. Chi ci riesce 
prende tutta la posta, cioè le monetine di tutti gli altri giocatori. Se più di un 
giocatore centra il quadrato, la posta viene divisa in parti uguali. 


Pè — È un gioco che si fa con i bottoni. Ogni giocatore mette il suo bottone sul 
bordo di una piano liscio come quello di una tavola, Poi vi soffia sopra, oppure 
di lato, come meglio crede, tirando in dentro le labbra e rilasciandole di colpo 
per farne uscire a forza uno sbuffo d’aria che produce il suono secco pè (da cui il 
nome del gioco). Con questo sbuffo il giocatore deve riuscire a far capovolgere il 





& v. Alessandri, III. 21; Boulanger, VIII. 

9. Pseudo Ovidio, Nux, vv. 75-76: “Quatuor in nucibus non amplius, alea tota est, / Cum sibi 
suppositis additur una tribus” (In quattro noci, e non di più, è tutto il suo rischio, / quando una viene 
aggiunta alle tre sottostanti). Cfr. Fanfani, p.220 e 242. 

6&8 Minucci, p. 289. Un gioco simile, chiamato a tiro (“... si dura più e se ne perde meno”) fatto 
con le noci è ricordato dal Giuliani, p. 250, in una lettera dalla Valdichiana a metà Ottocento. 

6. La noce doveva entrare nel collo di un vaso (orca, appunto) — v. Persio III, 48. 

? Ivi, p. 290. V. anche Pseudo Ovidio vv. 85-86: “Vas quoque saepe cavum spatio distante 
locatur, / In quod missa levi nux cadat una manu” (Spesso ‘de un vaso è messo lontano, 
nel cui cavo far cadere una noce sospinta da lieve mano); e 73-74: “Has puer aut certo rectas 
dilaminat ictu / Aut pronas digito bisve semelve petit (Queste [le noci] il bambino o le divide 
in due con un colpo sicuro / o le spinge rapide una o due volte col dito). 

7! Felici, p. 116. 


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QUANTE CORNA HA LA CAVALLA? I giochi infantili nella Toscana preindustriale, 
sullo scenario del Malmantile racquistato di Lorenzo Lippi 





Ere bottone. Chi ci riesce vince i bottoni di chi non c'è riuscito. Terminati i 
ottoni sottratti al cestino della mamma, per continuare a giocare si comincia a 
staccare quelli della camicia o dei pantaloni”. 


Primoarriva — Si formano due squadre di un ugual numero di ragazzi: la 
squadra di chi sta sotto e quella di chi va sopra. Un ragazzo di quelli che sta sotto 
si mette in piedi con la schiena appoggiata a un muro o a albero. Uno della sua 
squadra gli si appoggia a testa bassa contro il petto, tenendolo alla vita. Uno alla 
volta gli altri che stanno sotto si mettono allo stesso modo in fila dietro a lui, 
afferrandosi alla vita del compagno che sta davanti. Uno alla volta, i ragazzi della 
squadra che va sopra, appoggiando le mani sul fondo schiena dell’ultimo di quelli 
che sta sotto, dovranno cercare di slanciarsi il più possibile sopra la fila in modo 
da raggiungere con il proprio salto quello che sta appoggiato al muro, anche ca- 
valcando le schiene di chi sta sotto. Quelli che stanno sotto possono, senza molla- 
re la presa delle mani, sgroppare e agitarsi per tentare di farli cadere. Se quelli che 
stanno sotto non riescono a reggere il peso di quelli che saltano loro sulla schiena 
e, di conseguenza, rompono la fila, staranno sotto anche al turno successivo. Re- 
steranno sotto anche se tutti quelli che vanno sopra riescono ad avvicinarsi il più 
possibile al ragazzo che sta in piedi al muro, senza farsi sgroppare e senza lasciare 
spazi vuoti tra loro. Altrimenti al turno successivo andranno sotto loro”. 


Quattro cantoni — All’interno di un ambiente chiuso ma sgombro da ostacoli 
si può giocare in cinque; all'aperto, dove possono essere individuati elementi (per 
es. alberi) che fungano da casa attorno a uno spazio libero ma non eccessivamente 
ampio, i giocatori possono essere tante quante sono le case più uno. Con la conta 
si stabilisce chi deve stare sotto, e questi si posiziona in mezzo allo spazio libero. 
Gli altri prendono casa ciascuno in un angolo della stanza o davanti ad un albe- 
ro. I bambini tentano di scambiarsi le case tra di loro e quello che sta sotto deve 
cercare di prenderli o toccarli dopo che sono partiti dalla loro casa e prima che 
raggiungano la nuova. Chi viene preso va sotto. 

Col nome di poma o toccapoma, il gioco è menzionato dal Fanfani, nei termini 
descritti sopra, asserendo che poma è il nome delle poste (le case) assegnate, facendo 
intuire in riferimento agli dai da frutta (lat. poma, pl. di pomum). Precisa che 
‘quando quel del mezzo ne chiappa qualcuno degli altri, dice: “Qui ti piglio e qui 
ti lascio”; ed il chiappato rimane in mezzo a fare il chiappatore”*. Più anticamente, 
si suppone accenni a questo gioco Libanio, quando afferma che i patti convenuti si 
fia e “non sarà lecito passare da questi a quelli e da quelli a questi, come fanno 
i bambini giocando attorno agli angoli”. 





72 v. Nistri 1986, p. 303; v. anche Felici, pp.117-118: “... il gioco più alla portata delle nostre 
tasche era quello a bottoni, che, uno ad uno, ce li strappavamo dalla giacca e dai calzoni col risultato di 
doverli legare e chiudere con una corda, o — a volte — con un vinco o con una ginestra...”. 

73 Di questo gioco ricordo, come descritto, lo svolgimento. Non ricordo il nome, come 
non lo ricorda nessuno degli informatori che mi hanno aiutato in questa indagine. Il nome 
con cui è qui indicato è ricavato dal sito internet 4tp://www.vocabolariofiorentino.it/ricerca/ 
lemmi?l=476t=1. 

7. Fanfani, pp. 739 e 986. 

75. Libanio, 27. 





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Rossano Nistri 





Regina reginella o @ passi — Si sceglie con la conta una regina che dovrà 
condurre il gioco mentre gli altri bambini avranno il compito di ambasciatori. 
Si traccia in terra una linea a quindici/venti metri dal punto in cui si trova la 
regina. Tutti gli ambasciatori si collocano dietro questa linea e, a turno, recita- 
no la filastrocca: “Regina reginella / quanti passi devo fare / pe’ arrivare al tuo 
castello / tutto d’oro e tutto bello?”. La regina decide a suo piacimento, in che 
modo il compagno dovrà avvicinarsi a lei imitando i passi degl animali, nella 
quantità indicata dalla regina. I tipi di passi: da leone, avanza con passi molto 
lunghi; da gru, avanza saltando su un piede solo; da canguro, avanza con saltelli 
a piedi pari; da formica, avanza a piccoli passi con un piede davanti all’altro; da 
gatto, avanza a gattoni; da gambero, avanza all’indietro con passi molto lunghi; 
da cavallo, avanza simulando il galoppo; da serpente, avanza strisciando a terra. 
Qualcuno usa anche il passo da insalata, che consiste nel fare un giro su se stessi, 
rimanendo fermi nello stesso punto. Con la fantasia si possono inventare infiniti 
altri passi. Vince chi arriva primo al luogo dove si trova la regina, ma è chiaro che 
assegnando il tipo di passi in numero adeguato, la regina ha la possibilità di far 
vincere chi vuole. 


Rialzino — È una variante del chiappino. Si gioca seguendo le stesse regole, 
con la differenza che chi è sotto non può prendere chi è riuscito a mettersi in 
salvo su qualcosa che lo tenga sollevato da terra anche con un piede solo (ne qual 
caso, l’altra gamba dovrà essere tenuta flessa per non toccare terra). 


Rimpiattino (o a bomba, diventato più tardi nascondino) — Si sceglie con la 
conta chi deve stare sotto o a bomba (di solito un albero, una porta o una porzio- 
ne delimitata di muro), cioè nella casa che deve essere toccata per far prigioniero 
o per liberare qualcuno. Chi sta sotto appoggia un braccio alla casa, vi preme 
contro gli occhi chiusi per non vedere e conta fino al numero convenuto così da 
dare modo ai compagni di nascondersi. Finito di contare si volta gridando l’ulti- 
mo numero, per avvertire gli altri che sta iniziando la caccia e cerca di scoprire i 
nascondigli dei compagni. Quando ne vede qualcuno, deve rapidamente tornare 
a toccare la casa, gridando: “Bomba”, il nome del bambino scoperto e il luogo 
dove si trova, se non è ben visibile. Il primo bambino preso e portato a bomba, 
sarà quello che starà sotto al turno successivo. Per non essere preso prigioniero, 
il bambino scoperto deve correre più velocemente di chi sta a bomba e arrivare 
a toccare la casa prima di lui, gridando: “Bomba libero me”. Chiunque arriva a 
toccare bomba prima di chi sta sotto, è libero, altrimenti è prigioniero e rimane 
fuori gioco in prossimità della casa. L'ultimo bambino rimasto, se arriva a toccare 
bomba senza essere piegato, può gridare “Bomba libero tutti”, i prigionieri saran- 
no tutti liberati e sarà perciò lo stesso bambino di prima a restar sotto anche nel 
turno successivo. 

Non considerando il solito meccanismo dei pegni e della premiazione dei vincitori, 
un gioco molto simile al nostro, nel Malmantile è chiamato capo a nascondere (0 
a niscondere) e le sue regole sono spiegate in nota: “Uno si mette col capo in grembo 
a un altro, che gli tura gli occhi; ed un altro o più si nascondono, e nascosti danno 
cenno: e colui, che aveva gli occhi serrati, si rizza e va cercando di coloro, che sono 
nascosti: e trovandone uno, basta, per liberarsi da tornare in grembo a colui, dove 
mette quello, che ha trovato: e questo perde il premio proposto, e il trovatore va a 


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QUANTE CORNA HA LA CAVALLA? I giochi infantili nella Toscana preindustriale, 
sullo scenario del Malmantile racquistato di Lorenzo Lippi 





nascondersi; ma se non trova il nascosto in tante a o in tanto tempo, quanto sono 

convenuti, perde il premio, e ritorna a stare con gli occhi chiusi come prima: e seguita 

così fino a quattro volte, perdendo quattro premi (...) E quello stare con gli occhi 
6 


>: 


serrati, si dice Star sotto”. 


Ripiglino — Si annodano i due capi di un cordicella di 50-60 centimetri, 
formando un anello. Il primo giocatore mette le mani dentro Panello, tenendolo 
teso e lasciando fuori i pollici rivolti in alto. Quindi, avvolge lo spago attorno a 
entrambe le mani, passandole una dopo l’altra all’interno dell'anello Infila poi il 
dito medio di una mano sotto il passante dell’altra e tira bene la corda; fa lo stesso 
con l’altra mano. Allontana le mani e tende la corda, ottenendo la prima figura 
del gioco, la culla, formata da due x laterali con una stringa dritta sottostante. Il 
secondo giocatore deve sfilare la culla dalle mani del primo in modo da formare 
una figura diversa. Prende in orizzontale, dall'esterno, tra pollice e indice gli in- 
croci delle due x, li tira verso l'esterno e, passando sotto la stringa dritta di ciascun 
lato, infila le dita verso il centro della culla e allontana le mani, tendendo la corda 
e formando la seconda figura, il diamante, una croce di sant'Andrea circoscritta 
da un rettangolo. Il primo giocatore deve riprendere la corda formando un'altra 
figura. Pizzica con le dita le due x esterne sul lato lungo della corda, le tira fuori 
dai lati e le porta sotto, rialzandole poi attraverso il centro. Allontanando le mani 
e tendendo la corda si ottiene la terza figura: le candele, un rettangolo con due 
fasce parallele sui lati lunghi, senza incroci. Il secondo giocatore aggancia dal 
basso con i due mignoli i due spaghi interni, li porta verso l’alto per passare poi 
fuori, ed entrare sotto le stringhe esterne. Allontanando le mani con delicatezza 
e tendendo lo spago si forma la quarta figura, simile alla prima, ma capovolta, la 
mangiatoia. Il primo giocatore afferra le “x” laterali in senso orizzontale, le tira 
verso l’esterno, poi verso l’alto, oltre le stringhe, portando le dita verso il basso 
e rientrando al centro. Tendendo lo spago si forma nuovamente il diamante. Il 
gioco continua, formando, con prese diverse, altre figure, e termina quando il filo 
si ingarbuglia in modo inestricabile o nel caso uno dei due giocatori, nell’ eseguire 
una presa, si lasci scappare il filo dalle dita. 


Rubabandiera — Gioco a squadre. Si delimita il campo attraverso tre linee, 
due di fondo e una mediana. Sulle linee di fondo si schierano le due squadre, 
composte di un ugual numero di bambini cui è assegnato un numero progressivo 
a partire da 1. I numeri 1 si fronteggiano, così come tutti gli altri bambini con 
identico numero. Al limite esterno della linea mediana si posiziona il capogioco, 
che tende un braccio lasciando penzolare un fazzoletto (la bandiera) e grida un 
numero a suo piacere. La coppia di giocatori delle opposte squadre con lo stesso 
numero che è stato chiamato corre verso il centro del campo con l’obiettivo di 
prendere il fazzoletto. Chi giunge per primo, afterra la bandiera e, per guadagnare 
il punto, deve ritornare al proprio posto tra i compagni della sua squadra, senza 





76. Minucci p. 190. L’accademico fa risalire il nascondino al gioco greco apodidraskinda, sulla base 


di Giulio Polluce IX, 7, ma quel gioco, nelle pagine del lessicografo greco risulta più simile alla mosca 
cieca (v.) che non al nascondino, poiché chi stava sotto a cercare gli altri doveva essere bendato (cfr. 


Costanza, pp. 237-241). 


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Rossano Nistri 





farsi prendere o toccare dall’avversario che lo insegue. Se l’inseguitore lo tocca, 
il punto passa a lui. Il capogioco riprende la bandiera e la partita continua con 
la chiamata di altri numeri. Vince la squadra che ottiene un maggior punteggio 
rubando più bandiere. 


Scalpo — È un gioco di destrezza a eliminazione se si gioca tutti contro tutti; 
a punteggio se si gioca a squadre. Con la conta i bambini formano delle coppie. 
I due componenti di ogni coppia si dovranno affrontare in un duello nel modo 
seguente. Ogni bambino, dopo essersi infilato un fazzoletto (lo scalpo) nella cin- 
tura dei pantaloni, di dietro, come fosse una coda, deve cercare, con movimenti 
abili e veloci, anche girandogli intorno, di afferrare lo scalpo dell’antagonista, 
sfilandoglielo dalla cintura, senza toccare il bambino che lo porta. Chi si È sfilare 
lo scalpo è eliminato. Tra i vincitori si sorteggiano le nuove coppie e si procede 
con altri duelli finché non resta Pultima coppia dalla quale uscirà il vincitore 
assoluto. Per giocare a squadre, si fa la conta per stabilirne i componenti, quindi 
si formano le coppie di antagonisti che faranno il loro duello tutti contempora- 
neamente. Vince la squadra che alla fine avrà raccolto il maggior numero di scalpi 
dagli avversari. 


Schiaffo del soldato — Si usa come gioco in sé, oppure per far fare la punizio- 
ne a chi perde un gioco o una gara. Si È il conto a chi deve stare sotto. Questi si 
passa una mano con il palmo aperto sotto l’ascella dell'altro braccio. Con l’altra 
mano si copre gli occhi e mezza faccia in modo da non vedere. Poi un ragazzo gli 
tira con forza uno schiaffo sul palmo della mano. Il malcapitato si volta verso il 
gruppo e trova tutti i ragazzi con l'indice alzato a significare che è stato ognuno 
di loro ad assestare il ii Si tratta di indovinare chi è stato davvero a dare lo 
schiaffo: se lo indovina, lo schiaffeggiatore va sotto; altrimenti rimane sotto quel- 
lo che c'è già, finché non indovina. 

Guancial d’oro è detto questo gioco nel Malmantile: “S'adunano più n ed 
uno si mette a sedere sopra una seggiola: ed un altro se ge pon inginocchioni avanti, 
e posa il capo in grembo a quel che siede: il quale gli chiude gli occhi con le mani 
acciocché non possa veder chi sia colui, che lo percosse in una mano, che egli si tiene 
dietro sopr'alle reni; dovendolo egli indovinare: e colui che gli serra gli occhi, dopoché 

uesto tale è stato percosso, gli do Chi tha percosso? Ed egli risponde: Ficosecco: e 
falm e Menamelo qua per un orecchio. Ed allora quello si rizza, e va a pigliar 
colui, che egli crede il percussore: e se sappone, ha vinto: sone il percussore in aa 
suo, e gli fa dare il premio, che si deposita in mano a quello che siede: e se non sappo- 
ne, perde il premio, quale consegna al detto sedente, e ritorna al luogo di prima per 
continuare, fintantochè sapponga”. 


Tappini — I tappini sono i tappi a corona delle bibite recuperati presso i bar. 
Non devono essere piegati; quelli piegati poco devono essere resi di nuovo ben 
lisci con colpetti di un martello piccolo dati dall’interno. Si sceglie il più integro, 


si toglie la guarnizione di plastica interna e si sostituisce con un dischetto di carta 


7 Similmente il Fanfani, p. 464. Per referenze classiche, sotto il nome di co/labismio, v. 


Giulio Polluce, p. 292 e Boulanger, 37. 
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QUANTE CORNA HA LA CAVALLA? I giochi infantili nella Toscana preindustriale, 
sullo scenario del Malmantile racquistato di Lorenzo Lippi 





di uguale misura con il nome del ciclista preferito e i colori della sua maglia. Il 
tappino è pronto per il giro di d’Italia o per il tour de France. Bisogna fare la 
pista. Si sceglie uno spiazzo sterrato o coperto di ghiaino e si traccia un percorso 
portando avanti le due mani con le dita intrecciate, in modo da spianarne il fon- 
do e da lasciare bordi in rilievo ai due lati. Una volta tracciata la pista (più è lunga, 
più è divertente), si segna, di solito nel rettilineo più lungo, la linea di partenza 
— che sarà anche il traguardo — e si stabilisce il numero di giri da compiere. Si fa 
la conta per l'ordine di partenza e poi via! Ogni bambino manda avanti, secondo 
il turno, il proprio tappino a forza di biscotti dati con il dito medio sganciato a 
forza dal pollice. Chi manda il proprio tappino fuori della pista, oltre il culmine 
del bordo, deve ritornare al punto da cui ha fatto partire il colpo e perde il turno; 
la stessa regola vale per chi rientra in pista dopo aver tagliato una curva. Vince chi 
giunge per primo il traguardo dopo il numero convenuto di giri. 

A San Miniato il posto più frequentato per fare il giro d'Italia era la pinetina sotto 
il piazzale, dove le piste venivano ricavate nel tappeto di aghi di pino che ricopriva 
il terreno e che si rivelavano ricche di ostacoli o di tratti difficili per via delle radici 
degli alberi affioranti dal terreno. Particolarmente ap ili per tracciare la pista 
erano anche i mucchi di sabbia ancora un po umida che venivano scaricati all'esterno 
degli edifici in ricostruzione dopo la guerra — ma solo nei momenti i cui non erano 
al lavoro i muratori, i quali non volevano che il mucchio di sabbia fosse sciantinato 
in mezzo di strada. 


Telefono senza fili — I bambini si mettono seduti in riga, uno a fianco dell’al- 
tro. Il primo sussurra una parola o una breve frase nell'orecchio del bambino che 
li sta vicino, senza farsi sentire dagli altri, Il secondo bambino ripete ciò che 
ha sentito nell'orecchio del terzo e così via. Il divertimento sta nello scoprire, 
quando l’ultimo bambino ripeterà ad alta voce le parole che gli sono state a 
come queste si siano modificate nel corso dei diversi passaggi, con effetti spesso 
comici o ridicoli, talvolta creati apposta dai bambini più spiritosi. 


Toccaferro — Come il ria/zino, si gioca con le stesse regole del chiappino, con 
la differenza che chi è sotto non può prendere chi è riuscito a mettersi in salvo 
toccando con qualsiasi parte del corpo un oggetto metallico che si trova nello 
spazio di gioco. Sono esclusi gli oggetti iena che possono portarsi addosso, 
come le chiavi o i bottoni degli abiti. 


Un due tre stella — Tutti i bambini, salvo il capogioco scelto con la conta, si 
pongono dietro una linea, distante 15-20 metri dalla casa del capogioco, il quale 
volge le spalle ai compagni appoggiandosi a un albero o a un muro, e dice a voce 
alta e chiara “Un, due, tre ... stella!”. Quindi si volta verso i compagni. Questi 
ultimi possono avanzare e muoversi finché il capogioco è di spalle, ma devono 
immobilizzarsi e restare fermi quando questi si volta a guardarli. Se un giocatore 
si muove mentre è osservato dal capogioco deve tornare alla linea di partenza. Si 
va avanti allo stesso modo finché uno dei giocatori non arriva alla casa, raggiun- 
gendo o superando la posizione del capogioco e ne prende il posto. 


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Rossano Nistri 





5. Giochi “da tavolo”, da panchina o da scalino 


Battaglia navale — Si gioca in due. Su un foglio quadrettato ognuno disegna 
due ili dello stesso numero convenuto di quadretti, identificando le file 
verticali con i numeri da 1 a quanti sono i quadretti, e le orizzontali con le lettere 
dell’alfabeto in ordine da A. Sul primo schema ogni giocatore colloca le proprie 
navi, avendo convenuto in precedenza la loro quantità e la loro grandezza (in 
quadretti) e vi segna i colpi che riceve. Sul secondo schema ogni giocatore tiene 
nota dei colpi sparati all'avversario. I giocatori “sparano” a turno i propri colpi, 
indicando le coordinate (A2, B8, F5 ecc.) e segnando sulla seconda tabella un 
puntino se il colpo è andato a vuoto, oppure una croce se è stata colpita una 
nave o una parte di essa. I due giocatori devono posizionarsi in modo de Puno 
non possa vedere gli schemi dell'altro, Vince chi affonda tutte le navi della flotta 
avversaria. 


Dolce-fiore — All’inizio si decidono quali sono le categorie di gioco. Le no- 
stre solitamente erano: dolce — fiore — frutta — cosa — qualità — fiume o città, ma 
possono essere variate se c'è accordo tra i giocatori. Ciascun giocatore ha una 
matita e un foglio con sette colonne, denominata con le sette categorie indicate. 
Attorno a un piano su cui si possa scrivere, un giocatore recita mentalmente le 
lettere dell’alfabeto fino a che un altro giocatore lo blocca: l’ultima lettera che ha 
pensato sarà quella del turno di gioco. Ogni giocatore scrive sul suo foglio, per 
ogni categoria, tutte le parole che iniziano con la lettera scelta. Vince li scrive 
più parole. Il gioco si può fare anche senza foglio. Ogni giocatore dice una pa- 
rola per ogni categoria, fino a completare il giro dei giocatori, poi si riparte con 
una seconda Gul per ciascuno, non detta in pel ma che inizia sempre 
con la stessa lettera, andando avanti, finché uno dopo l’altro i giocatori non 
conosceranno più alcuna parola che inizia con quella lettera, anche per una sola 
categoria, e saranno eliminati dal gioco. Vince chi saprà aggiungere una parola 
più dei compagni. 





Filetto — Si gioca su uno schema (disegnato col gesso o con un mattone ros- 
so) formato da tre quadrati concentrici uniti da segmenti che ne tagliano i lati a 
metà. I due giocatori dispongono ognuno, secondo quanto stabilito in preceden- 
za, di sei o nove sassolini di due colori diversi. Si sceglie con la conta chi inizia, 
poi i due giocatori sistemano alternativamente, uno alla volta, i loro sassolini 
nelle intersezioni e negli angoli del campo, cercando di allineare tre sassolini e 
contemporaneamente di impedire all'avversario di fare altrettanto. Il giocatore 
che riesce ad allineare tre sassolini mangia un sassolino all’avversario, comincian- 
do da quelli non allineati. Una volta piazzati tutti i sassolini, a turno i giocatori 
muovono un sassolino, seguendo le linee, da un angolo a una intersezione o vice- 
versa, cercando di allineare altri tre sassolini. Il gioco finisce quando uno dei due 
giocatori resta con due soli sassolini. 


Tris — Una versione ridotta del filetto può essere considerato il tris. Si gioca 
su uno schema di nove caselle, ottenuto incrociando a distanza regolare due seg- 
menti paralleli verticali con due orizzontali. Il primo giocatore traccia una crocet- 
ta in una delle nove caselle; il secondo traccia a sua volta un cerchietto, e così via, 


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QUANTE CORNA HA LA CAVALLA? I giochi infantili nella Toscana preindustriale, 
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cercando di allineare tre crocette o tre cerchietti (in orizzontale, in verticale o in 
obliquo) e contemporaneamente di impedire il tris dell’avversario. 

Si ritiene comunemente che il gioco abbia origine orientale, che fosse ben cono- 
sciuto anche nella Roma imperiale, tanto che Ovidio lo descrive ben due volte nelle 
sue opere, prima e dopo l'esilio: “E c'è poi un [genere di] gioco diviso da sottili righe in 
tante / caselle quanti sono i mesi dell'anno fuggevole: // la tavoletta, ha su entrambi i 
lati tre pedine / e vince chi [per primo] le allinea da un altro lato”’. 


6. Giochi sportivi e di forza 


Baruffa — Non di rado finiscono in baruffa le lunghe partite a figurine, ma 
non per litigi o controversie di gioco. Se qualcuno ha voglia di divertirsi, ma non 
ha più voglia di giocare e ha molte figurine; oppure se capita che un giocatore 
abbia vinto un gran numero di figurine ai compagni, si prende un supplemento 
di gloria e di soddisfazione. Si arrampica in un luogo rialzato e grida ai perdenti: 
“Baruffa!”, buttando, una dopo l’altra, qualche manciata di figurine verso Palto, 
in modo che piovano volteggiando sulle teste dei compagni. E questi si azzuffano, 
spintoni, gomitate, qualche calcio e qualche manata, per riuscire a raccogliere, al 
volo, per terra o tra le mani dei compagni più figurine possibile. 


Corsa — Praticata come gara sportiva, insieme ad altre (salto in lungo e salto in 
alto — quest'ultimo realizzato on mezzi di fortuna: due manici di scopa, qualche 
chiodo e una luna canna) soprattutto negli anni delle Olimpiadi. Per il resto del 
tempo, più che uno sport, è un gioco per provocare lo sfottò. Un gruppo di ra- 
gazzi si ritrova a parlare o a giocare, quando uno lancia la sfida: “Si A a chi arriva 
primo in fondo al Piazzale... chi arriva ultimo è un buaiolo!” e via, tutti di corsa 
per non prendersi gli sberleffi da parte dei compagni. 


Corsa nei sacchi — Ogni bambino si procura un sacco di iuta, di quelli per le 
patate, ci infila dentro le gambe, tenendolo con le mani all’altezza della vita. Tutti 
allineati sulla linea di partenza, al VIA cominciano a correre e vince, come in tut- 
te le corse, chi arriva per primo al traguardo. Vietato, pena l’esclusione, ostacolare 
volontariamente gli avversari. 


Mentìa — Non un gioco vero e proprio, ma un comportamento belligerante, 
con cui si conclude talvolta un gioco. Uno screzio, un'offesa, uno sfottò, un tra- 
dimento oppure l’inosservanza delle regole del gruppo o delle indicazioni del ca- 
pobanda portano all'applicazione della mentìa, solitamente lanciata dal più forte 
verso il più debole. Chi si sente offeso si caccia un dito in bocca, lo insaliva bene 
e poi va ad appoggiarlo sulla guancia dell’offensore. Scatta immediatamente la 
reazione: “M’ha dato la mentia... m'ha dato la mentia”, quasi che in quelle gocce 





78. Ovidio, Ars III, 363-366: “Est genus in totidem tenui ratione redactum / scriptula, 
quot menses lucricus annus habet: Il parva tabella capit ternos utrimque lapillus, / in qua vicisse 
est continuasse suos”; e Tristia TI, 481-482: parva sit ut ternis instructa tabella lapillis, / in qua 
vicisse est continuasse suos” 


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Rossano Nistri 





di saliva bruci il malocchio. Ne segue una scazzottata rituale che ha l’unico scopo 
di ripristinare l'ordine di gruppo e la gerarchia. Poi, di solito, amici come prima. 
Nel Vocabolario del Fanfani il gesto è chiamato lecchino: “... lo dicono i ragazzi 


per quell'atto di dispregio, che si fa mettendosi un dito in bocca, spo: a quel mo’ 


bagnato di saliva battendolo sul viso di un altro, Es. se tu non esci di costì ti do un 


lecchino, buacciuòlo””. 


Palla — Per giocare a palla si intende il gioco del calcio, più o meno con le stes- 
se regole usate nei campionati nazionali. Solo che negli anni precedenti attorno 
alla metà del secolo scorso si giocava in qualsiasi piazza, spiazzo o terreno non 
importa di quali dimensioni, ma più ampio possibile, sterrato, erboso, asfaltato, 
col ghiaino, purché abbastanza pianeggiante e libero da inciampi o ostacoli. Le 
porte segnate con due sassi, con due cartelle, con delle giacche o con qualsiasi 
altro oggetto di adeguate dimensioni, posti alla distanza di circa tre metri Puno 
dall'altro. La palla: un fagotto di cenci o di carta di giornale, tenuto insieme ben 
stretto da molti giri di spago per dargli, come a un gomitolo di lana, una forma 
più sferica possibile. Normale che una palla del genere sia destinata a durare non 
più di una partita. Le palle di gomma arrivarono dopo il ’60. 


Salto della fune — Gioco con la fune corta. Occorre un pezzo di corda (fune) 
di un paio di metri di lunghezza. Ogni bambino si attorciglia i due capi un paio 
di giri attorno alle mani perché non scappino e comincia a saltare a piedi uniti, 
facendo passare la corda sotto i piedi, in avanti o all’indietro, mentre salta. Il 
gioco può esaurirsi così o divenire gara a chi fa più salti, senza inciampare o in- 
garbugliarsi la corda ai piedi e senza stancarsi. Gioco con la fune lunga. Occorre 
una corda di almeno tre metri di lunghezza. Due bambini ne tengono i capi 
facendola girare con moto continuo nella stessa direzione. Gli altri bambini, a 
turno si pongono a fianco della parte centrale della corda e devono saltarla con 
i piedi uniti mentre questa gira, senza fermarsi e senza impigliarcisi. Vince chi 
riesce a fare più salti. 


Sassaiola — Più che un gioco, una vera e propria battaglia, combattuta fra 
gruppi (bande) rivali che si affrontano per la conquista del territorio. Nel secondo 
dopoguerra, quando San Miniato faticava a smaltire i cumuli di macerie lasciati 
dal passaggio del fronte, le munizioni, cioè i sassi, non mancavano. Il paese era 
diviso in territori, in ognuno dei quali scorrazzava una banda di ragazzi, ciascuna 
con il suo capo, di solito il più forte e coraggioso tra i più grandi, ormai adole- 
scenti fatti. I contenziosi tra le bande erano risolti con vere e proprie dichiarazioni 
di guerra, formalizzate dall’incontro tra delegazioni degli opposti eserciti in terri- 
torio neutrale, di solito la piazza del Seminario o in piazza Grifoni. Le frequenti 
sassaiole, erano organizzate attorno a due regole principali. La prima, ferrea: “Chi 
le piglia, ènno sue”, chi le prende sono sue, cioè chi si fa male se lo tiene, senza 
andare a raccontarlo ai genitori, perché l’intromissione dei grandi nelle dispute 
infantili era esclusa e la consegna del silenzio inviolabile. La seconda: “Non sassi 
troppo piccini, perché vanno negli occhi”, ragione per cui era abbastanza normale 





? Fanfani, p. 521. 


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QUANTE CORNA HA LA CAVALLA? I giochi infantili nella Toscana preindustriale, 
sullo scenario del Malmantile racquistato di Lorenzo Lippi 





veder volare sassi, pietre e pezzi di mattone di dimensione grandi come prugne. 
Tra le note del Malmantile troviamo riferimenti all'usanza delle sassaiole nel- 
la Firenze rinascimentale, soprattutto in particolari momenti del calendario rituale 
(San Biagio, 3 febbraio; Carnevale, San Giovanni, 24 giugno, e in “occasione di 
allegrezze pubbliche*°). Di più, questo “giuoco, ovvero battaglia popolare, fatta co’ 
sassi” era così popolare da meritare l'attenzione dell'autorità granducale che tra ‘5 e 
600 emanò diversi bandi per proibirne la pratica. L’Accademico fiorentino con- 
clude la sua nota con una certezza: “Ancora ne tempi della mia gioventù si praticò 
una simile battaglia nella strada, (...). Ma tutti questi impertinenti divertimenti 
sono al presente, sì di per se stessi, che per le pene eseguite, DA cessati”: non poteva 


prevedere, il Minucci, che le battaglie “a sassi” sarebbero davvero finite solo dopo la 
metà del XX secolo. 


Sbarbacipolle — Si fa la conta per scegliere chi fa lo sbarbacipolle. Gli altri 
bambini sono tutti cipolle e si siedono per terra con le gambe divaricate, uno in 
collo all’altro, ognuno abbracciando stretto chi gli sta Lan Lo sbarbacipolle 
deve sbarbare le cipolle a una a una, cominciando a tirare il primo bambino per 
le braccia, in modo da staccarlo da chi lo sta trattenendo o facendo rompere la 
catena di abbracci in un altro qualsiasi punto. La prova di forza termina dopo 
aver sbarbato tutte le cipolle. Questo gioco si può fare anche in due squadre. 
Ogni squadra sceglie il suo sbarbacipolle che deve tentare di rompere e annullare 
la catena avversaria. Vince la squadra che resiste più a lungo senza essere sbarbata. 


7. Giochi da costruire 


Altalena — Si fa in due modi, con le funi e con un tronco, ed è un gioco più 
adatto alla campagna, o a un giardino, che non a un centro abitato. Nel primo 
caso è quasi sempre necessario l’aiuto di un adulto che fornisca due robusti pezzi 
di corda lunghi più di due metri e una tavoletta di legno rettangolare piuttosto 
spessa, con due fori in prossimità dei lati corti. Ognuno dei capi delle due corde, 
viene fatto passare per uno dei fori e quindi annodato in modo che la corda non 
esca dal foro. L'altro capo delle due corde viene annodato al ramo robusto di 
un albero o a una trave del soffitto, in modo che le corde restino parallele e che 
la tavoletta rimanga più o meno a quaranta/cinquanta centimetri dal suolo. Il 
bambino si siede sulla tavoletta e, tenendosi saldamente alle corde si dà la spinta, 
portando di colpo in avanti le gambe e indietro il busto, in modo da raggiunge- 
re, una oscillazione dopo l’altra, il punto più alto possibile. Lo stesso risultato si 
raggiungeva per mezzo di spinte date da un compagno messo dietro l’altalena. In 
campagna, invece della tavoletta, era abbastanza comune usare un sacco di iuta, 
ripiegato più volte, e appoggiato direttamente sul una lunga corda le cui estremi- 
tà erano legate al ramo dellilbero: 

L'altro tipo di altalena, detto più propriamente biciàncola, si prepara appog- 





8° Minucci, p. 852. 
8! Ivi, p. 161 segg.. Le sassaiole fiorentine sono ricordate anche da Boiardo X, 56 e in un canto 
carnascialesco attribuito al Lasca (Trionfi, “Canto di fare a’ sassi”). 


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Rossano Nistri 





giando un palo o un tronco d’albero non troppo spesso su una pietra piatta o su 
un altro pezzo di tronco. Due bambini salgono a cavallo delle estremità del palo 
e, dandosi la spinta con le gambe, lo fanno alzare o abbassare, ora da una parte 
ora d'altra. 

Nel commento al Malmantile: “Legano due funi al palco — scrive il Minucci - 
ovvero a due alberi, e le fanno calare a doppio fino presso a terra un braccio, e sopra 
di esse funi accomodano un'asse, sopr'alla quale si pone uno o più a sedere: e pa 
dare il moto a detta asse, vanno cantando alcune canzoni, con un'aria, aggiustata 
al tempo dell'ondeggiamento di quell’asse*?. Il Minucci spiega ancora che l'altalena 
con i pali è fatta “a foggia di mazzacavallo 83, ovvero come la catapulta e come 
quel marchingegno a leva che si usa Da tirare su l'acqua dai pozzi. Nell'antica 
Grecia si ia la Festa delle altalene (aiora) dedicata a Bacco, quando l'uva 
iniziava ad invaiare. Anche nell'antica Roma si praticavano ambedue i sistemi di 
oscillazione. 


Aquilone — Per costruire un aquilone occorrono innanzitutto due pezzi di 
canna sottile, ben diritti, uno di 70 e l’altro di 50 cm. Alle estremità dei due pezzi 
di canna si fa una piccola scanalatura a forma di V, quindi si incrocia, esattamen- 
te a metà, il pezzo più piccolo a 15-20 cm dall’estremità di quello più lungo, in 
modo che le scanalature restino parallele al piano su cui stiamo lavorando. Si 
legano strettamente le due canne con un filo sottile e poi si fascia il punto di in- 
crocio con del nastro isolante o del cerotto. Si passa uno spaghino sottile attorno 
alle estremità delle canne, nelle scanalature a V e si annoda. Questo è il telaio 
dell’aquilone. Si prende un foglio di pergamino colorato o di altra carta leggera e 
resistente e appoggiandoci sopra il telaio, si ritaglia un rombo di dimensione leg- 
germente più grande del telaio stesso (almeno due cm per lato) che poi, ripiegato 
sopra la cordicella perimetrale, si incolla uniformemente su se stesso. Si praticano 
quattro piccoli fori nella carta a un cm di distanza dal punto d’incrocio delle due 
canne, attraverso i quali si fanno passare due pezzetti di cordino, uno sopra e uno 
sotto l'incrocio, annodandoli in modo che non siano troppo aderenti alle canne. 
Poi si uniscono i due anelli di corda con un terzo pezzo, anch'esso annodato ad 
anello. A questo si collega un altro filo sottile e resistente, molto lungo (15-20 
metri o più) che servirà, avvolto a un bastoncello di legno, per guidare l’aquilone 
quando si leverà in volo. Infine si attacca alla parte bassa dell’aquilone la coda, 
cioè un filo con fiocchetti di carta colorata. Far alzare l’aquilone e tenerlo in alto, 
poi, è solo questione di esperienza. 


Arco e frecce — È un'arma usata per giocare al tirassegno, ma che talvolta ha 
fatto la sua comparsa anche nelle guerre tra bande. Dopo aver scelto un ramo di 
aborniello, lungo 60-80 cm, dritto e flessibile, si lascia a bagno nel pozzo per 3-4 
giorni. Poi si spella, praticando ad ognuna delle due estremità una piccola inci- 
sione a forma di V nella quale si annoda ben stretto un pezzo di spago da pacchi, 
mettendo in tensione il legno per dargli la forma leggermente arcuata e si espone 





82 


Minucci, p. 191. 
Ivi. 


v. Boulanger, cap. XI. 


83 
84 


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QUANTE CORNA HA LA CAVALLA? I giochi infantili nella Toscana preindustriale, 
sullo scenario del Malmantile racquistato di Lorenzo Lippi 





alcuni giorni al sole perché il legno asciughi del tutto, mantenendo la forma. Le 
frecce si preparano liberando dalle piccole viti le stecche lunghe e non piegate 
ricavate i vecchi ombrelli o staccando i raggi dalle ruote delle biciclette. Si fa 
loro la punta, pazientemente, con una lima o, in mancanza di questa, sfregandole 
a lungo contro una pietra. All’estremità opposta si pratica, con lo spi T della 
lima, una piccola incisione a v per poter accoccare la freccia sulla corda”. 


Bolle di sapone — Un pezzetto di canna senza nodi da 15-20 cm, un bicchie- 
re con acqua in cui è stato sciolto un po’ di sapone: si intinge un'estremità della 
canna nel bicchiere, si soffia leggermente dalla parte opposta, ed escono le bolle 
iridescenti... 


Capanni e fortini — Venivano costruiti soprattutto dai ragazzi più grandi (10- 
13 anni), mentre i più piccoli, se erano ammessi nella banda, dovevano prestare 
opera di manovalanza per i grandi, senza potere decisionale. Si cercava una radura 
in un boschetto, si tagliavano dei rami dagli alberi e si intrecciavano tra loro così 
da fare le “pareti” per chiudere uno spazio di 3-4 metri quadri. Si ricopriva il ter- 
reno di paglia o foglie secche, usando i ciglioni e le prode come sedili. Il capanno 
era il ritrovo privato della banda e lì si radunavano i ragazzi a mangiare la frutta 
rubata sugli alberi e raccontarsi cose specialmente sul sesso, se c'era qualche ragaz- 
zo sui 15 anni che ne sapeva di più e che approfittava del riparo anche per fumare 
qualche sigaretta. Nella San Miniato del secondo dopoguerra, approfittando delle 
macerie lasciate dalle mine tedesche si costruivano fortini, come muri a secco, 
accatastando le pietre, i mattoni che abbondavano ovunque. 


Carretto di legno — La costruzione di un carretto per fare le corse in discesa 
è un'attività che richiede ai ragazzi più piccoli l’aiuto di un adulto e a quelli più 
grandi qualche competenza di falegnameria e di meccanica. Si parte da un pia- 
nale di legno a forma di triangolo o di trapezio su cui possa sedere il ragazzo che 

uiderà il carretto. Sotto il pianale si applicano i due assali in cui saranno inserite 
È ruote. Lassale posteriore è fisso (viti o chiodi), mentre quello anteriore è mo- 
bile (tenuto da bullone e dado bloccato), per permettere al carretto di sterzare. 
Alle estremità degli assali si fissano le quattro ruote. Prima dell’ultima guerra, 
erano in prevalenza ruote di legno o piccole ruote metalliche, recuperate da vec- 
chie carrozzine da neonati o da altri arredi mobili. Dopo la guerra si usavano i 
cuscinetti a sfera recuperati dai meccanici del paese quando li cambiavano alle 
auto. Una corda robusta viene legata agli estremi dell’assale anteriore, all’interno 
rispetto alle ruote e, tenuta tra le mani del guidatore, gli permette di girare l’assale 
per affrontare le curve nel modo migliore. I piedi dal guidatore si appoggiano 
sull’assale anteriore, con le punte delle scarpe vicine alle ruote, per poter frenare, 
premendole sulle ruote stesse in caso di bisogno. Le corse, dalla partenza al tra- 
guardo segnati in terra con un pezzo di mattone rosso, si svolgono chiaramente 
solo in discesa, a rischio e pericolo dei guidatori. 





8 v, Nistri 2015, pp. 39-40. 


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Rossano Nistri 





Cerbottana e spiruli — La cerbottana è un’arma primitiva formata soltanto 
da una porzione di tubo metallico o di canna del diametro di circa 1-1,2 cm. La 
lunghezza (da 30 cm a mezzo metro e più) è a piacere, ma la cerbottana risulta 
più precisa quanto più è lunga e dritta. I proiettili, i cosiddetti spiruli, si fanno 
con strisce di carta di giornale (una volta con le schedine del totocalcio) circa 
12x5 cm. Si avvolge a spirale una striscia di carta sul dito indice della mano 
sinistra, e tirandola verso l'alto si forma un piccolo cono. Se ne mette la punta 
fra le labbra e si bagna con la saliva, facendola girare affinché il cono rimanga 
sigillato. Lo spìrulo semplice si rende più pericoloso lasciandovi cadere all’inter- 
no uno spillo che poi è spinto con un bastoncino fino a farne uscire la punta dal 
vertice. Lo spillo viene bloccato con una minuscola pallina di pece o di stucco, 
fatta cadere all’interno e compressa col solito bastoncino. Lo spirulo risulta quasi 
sempre di diametro maggiore rispetto alla cerbottana: allora si infila nel tubo e 
se ne strappa con un gesto netto la parte più larga che resta fuori, in modo che 
si adatti perfettamente alla cerbottana. Poi si accosta alla bocca e si soffia, facen- 
dolo partire®s. 


Cerchio — Cerchio nobile e cerchio plebeo. Il primo, in legno lucidato, alto 
una ottantina di centimetri, e dotato di una bella bacchettina, Ticida anch'essa — 
o da un attrezzo di metallo con l'estremità a gancio, è usato dai figli delle famiglie 
agiate, che si possono permettere il lusso di comprarlo alla bottega dei giocattoli. 
Il secondo, ricavato di solito da un cerchione di bicicletta cui sono stati tolti i 
raggi (utilizzati, come si è visto, per fare le frecce da scagliare con l’arco), basta ai 
bambini di strada, che lo portano avanti con un bastoncino, il più diritto possibi- 
le, recuperato nel bosco. Il gioco consiste nel far rotolare il cerchio, mantenendo- 
lo in piedi, senza farlo cadere, senza aiutarsi direttamente con le mani e arrivando 
prima dei compagni, dalla linea di partenza a quello del traguardo. 

Gioco antico, già presente nelle decorazioni fittili greche (tròchos), menzionato da 
Orazio”, da Marziale e da Properzio, e raffigurato in tempi a noi più vicini nei 
dipinti di Bruegel, di Renoir, di Sottocornola e scolpito da Giuseppe Sartorio”. 





86 v. Nîstri 2015, pp.40-41. 

37 Orazio, 380-382: Ludere qui nescit, campestribus abstinet armis, / indoctusque pilae discive trochi- 
ve quiescit, / ne spissae risum tollant impune coronae” (Chi non sa giocare, si astiene dalla armi al campo 
di Marte e si riposa, dalla palla, dal disco e dal cerchio, e resta tranquillo, per non suscitare a ragione il 
riso nella corona degli spettatori). 

88- Marziale, XIV, 168: “Inducenda rota est: das nobis utile munus: / iste trochus pueris, at mihi cantus 
eri (Bisogna metterci una ruota: è un regalo utile: quello che per i bambini è un cerchio, per me sarà 
canto). 

® Properzio, III, XIV, 3-6 “quod non infamis exercet corpore ludos / inter luctantis nuda puella viros, 
/ cum pila veloces fallit per brachia iactus, / increpat et versi clavis adunca trochi” (perché la ragazza esegue 
esercizi fisici non infami, quando nuda tra maschi che lottano tra loro, la palla sfugge rapida alla presa, 
quando strepita l’adunca verga del cerchio rotante). 

% Pieter Bruegel il Vecchio, Giochi di bambini, Vienna, Kunsthistorisches Museum; Pierre Auguste 
Renoir, Bambina con un cerchio (1885), Washington D.C., National Gallery of Art; Giovanni Sottocor- 
nola, J gioco del cerchio (1886), collezione privata; Giuseppe Sartorio, Tomba di Zaira Deplano Pinna 
(1901), cimitero di Iglesias. 


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sullo scenario del Malmantile racquistato di Lorenzo Lippi 





Fionda — Arma da caccia (passerotti, lucertole, ranocchi) o per le battaglie tra 
bande o semplicemente per fare il tiro a bersaglio (bottiglie, barattoli, lampioni). 
Per fabbricare una fionda si taglia per corto una camera d’aria da bicicletta, rica- 
vandone una decina di elastici circolari di circa un cm di altezza. Dalla rimanente 
camera d’aria, tagliata per il lungo, si ricavavano due strisce di circa 30x1,5 cm 
ciascuna. Si sagoma in forma di rettangolo (8x6 cm circa) un pezzo di cuoio 
sbassato (o di pellame robusto) recuperato tra gli avanzi del calzolaio, nel quale si 
praticano due taglietti di 1,5 cm in prossimità dei lati corti. Si infila in ognuno 
dei tagli un’estremità di un elastico lungo, ripiegandolo su se stesso circa 3 cm e 
fissandolo stretto con uno degli elastici corti. Allo stesso modo, si fissano con due 
o più elastici corti gli altri due estremi degli elastici lunghi ai corni divergenti di 
una forcella di robinia ben asciutta”. 


Fucile a elastici - Altra arma per la guerra tra bande. Per fabbricarla si taglia 
un manico di scopa o un regolo di legno a sezione quadra della lunghezza deside- 
rata (tra 60 e 100 cm). A 5 cm da una delle due estremità si fissa con le semenze 
da calzolaio una molletta da bucato di legno (o due, tre, massimo quattro, tutto 
attorno al legno, a seconda dei colpi che si vogliono dare al fucile). La molletta 
costituisce il cane dell'arma. All'estremità opposta del regolo si infila un chiodi- 
no (o due, tre, quattro). Si annodano tra loro degli elastici in modo da formare 
una catenella lunga meno della metà del fucile (ii solo elastico lungo sarebbe 
meno potente — e poi i nodi fanno più male quando colpiscono la carne nuda). 
Si inserisce un'estremità della catena di elastici nel cane e si tira l'elastico fino a 
fermarlo al chiodino all'estremo opposto o viceversa. L'arma è carica. Per renderla 
più micidiale, si inserisce nell’elastico dalla parte del cane la molla di metallo tolta 
a una molletta rotta”. 


Giochi di carta — La forma ruspante dei sofisticati origami giapponesi. Prin- 
cipalmente cinque: il cappellino, le barchette, gli aerei, il girotondo, inferno e 
paradiso. 

- Il cappellino semplice: si prende la metà di un foglio di giornale (quello co- 
munemente detto “una pagina”), si ripiega in due facendo combaciare il lati corti, 
quindi si ripiega ancora in due sempre E combaciare i lati corti del rettan- 

olo. Si piega ancora in due, sempre facendo combaciare i lati corti, si riapre il 
A lio e si piegano a triangolo le due metà del lato lungo, a combaciare al centro 
NE linea della piega fatta precedentemente. Nella parte inferiore del giornale 
avanzerà una striscia di carta, che si ripiega verso Palto, così da bloccare i due 
triangoli, prima nella parte anteriore, poi in quella posteriore. I quattro estremi 
di queste strisce andranno poi ripiegati dalla parte opposta, fissando gli ultimi 
due con un tocco di colla. 

- Il cappellino doppio: si prende un intero foglio di giornale e si procede come 
per il cappellino semplice, fino al ripiegamento dei bordi che bloccano la parte 
triangolare. I quattro estremi di queste strisce vanno ripiegati tutti dalla stessa 
parte, quindi premendo leggermente sui lati obliqui si dm il triangolo in 


% y, Nistri 2015, pp. 39-40. 
2 v. Nistri 2015, pp. 40-41. 


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Rossano Nistri 





un rombo equilatero. Si ripiega verso l’alto una delle due punte aperte, poi l’altra, 
per ottenere un nuovo triangolo: divaricandone un po’ la base, il cappellino è 
pronto, senza bisogno di colla. Poteva, come il cappellino semplice, essere ornato 
con una penna di piccione infilata nella ripiega, in modo da somigliare a una 
cappello degli alpini. 

- La barchetta: occorre un foglio rettangolare di carta più resistente di quella 
dei giornali perché deve resistere qualche tempo prima di imbeversi d’acqua, se 
vogliamo che navighi. La procedura è la stessa del cappellino doppio. Se ne di- 
varica completamente la base, ottenendo nuovamente un rombo equilatero, del 
quale si allargano verso esterno i lati obliqui superiori fino ad aprirli completa- 
mente. Basterà schiacciare la parte inferiore e la barchetta è pronta. Per metterla 
in acqua è necessario infilare una mano da sotto nel triangolo della vela in modo 
che si apra, permettendo alla barchetta di galleggiare. 

- Gli aerei, in due versioni: l'aereo e il missile. Per fare l’aereo si parte da una 
normale pagina di quaderno. Si piega in due facendo combaciare i lati lunghi. 
Si riapre il foglio e, tenendolo in verticale, si piega langolo superiore sinistro in 
modo che il semi-lato superiore sinistro combaci con la piegatura centrale. Si 
ripete l'operazione con langolo superiore destro. Si richiude il foglio sulla piega- 
tura centrale, quindi si creano le ali, piegando i lembi esterni del foglio lungo una 
linea parallela alla piega centrale, fino a farli combaciare con questa, oppure ri- 
manendone uno o due centimetri distante: a seconda della distanza si ottengono 
effetti di volo diversi. Per fare il missile si eseguono le prime tre piegature come 
per l'aereo, fino a richiudere il foglio sulla piegatura centrale. Ora si ripiega il lato 
obliquo fino a sovrapporsi alla piega centrale, quindi ancora il nuovo lato obliquo 
appena ottenuto fino alla piega centrale. Le stesse due pieghe si ripetono sull’altra 
ala. Si sollevano le ali e il missile è pronto a volare. 

- Il girotondo: si prende una striscia di carta, possibilmente bianca, alta una 
quindicina di centimetri e lunga a volontà. Si ripiega in due, facendo combacia- 
re i lati corti, poi in quattro, in otto ecc. fino ad ottenere un rettangolino di circa 
otto, nove centimetri di base, formato da tanti strati sovrapposti. Sulla faccia a 
vista si disegna con la matita la figura di un omino, facendo in modo che a destra 
come a sinistra le braccia aperte e le gambe divaricate arrivino a toccare i lati 
lunghi. Si ritaglia quindi con le forbici il contorno della figura (con un taglio 
solo tutti gli strati di carta sovrapposti) stando ben attenti a non tagliare lester- 
no della mani e dei piedi o delle altre parti che toccano i lati lunghi. Allargando 
la fisarmonica le figurine appariranno tutte per la mano. Ogni figura può essere 
colorata a piacere con i pastelli. Logicamente, con un po’ di fantasia e di abilità 
nel disegno, è possibile cambiare soggetti e dimensioni del girotondo. 

- pra e paradiso: Si parte da un quadrato di carta e si piega lungo le diago- 
nali. Si porta poi con precisione ogni angolo al centro, schiacciando bene i lati 
e formando un quadrato più piccolo. Si gira, mettendo la parte appena ripie- 
gata verso il tavolo e portando di nuovo gli angoli al centro, anche questa volta 
schiacciando bene i lati. Si piega il iL a metà premendo bene su tutti i 
lati e poi ancora a metà. Si riaprono queste ultime due piegature. Ognuno degli 
otto triangoli che formano il quadrato può essere colorato a piacere. Si alzano le 
quattro linguette triangolari e in ognuno dei sedici triangoli formati dalle piega- 
ture si scrive una frase segreta (es. canta una canzone, fai otto salti su un piede 


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sullo scenario del Malmantile racquistato di Lorenzo Lippi 





solo, dai un bacio a chi vuoi, sei una caccola, fai una pernacchia al primo che 
passa ecc.). Ripiegando di nuovo la carta e infilando pollice e indice di ogni mano 
nelle quattro alette quadrate dalla parte inferiore, si può giocare. Il primo bam- 
bino, che tiene il gioco, chiede all’altro di dire un numero, poi contando fino al 
numero indicato, ad ogni numero apre e chiude il gioco, una volta in avanti e una 
volta lateralmente, in modo da far alternare i colori. Quando il primo bambino 
ha finito di contare, il secondo sceglie uno dei quattro colori visibili, specificando 
“sopra” o “sotto”. Il primo bambino alza la linguetta e legge cosa è scritto nel 
triangolo indicato; il secondo esegue o, se è una presa in giro, se la tiene. 


Rocchetti — Con un coltellino si incidono i bordi rilevati del rocchetto di 
legno di quelli usati per avvolgere il filo da cucire, in modo da ricavare delle tac- 
che simili ai cingoli di un carro armato. Si conficca un piccolo chiodo sul bordo 
del rocchetto in prossimità del foro centrale. Dopo aver ammorbidito della cera 
vicino a una fonte di calore, se ne prepara un disco dello spessore di un centime- 
tro e, quando si è di nuovo consolidato vi si pratica un foro nel centro. Si passa 
un elastico appena più corto della lunghezza del rocchetto, nel dischetto di cera, 
fermandolo verso l’esterno con un bastoncino di legno di 7-8 centimetri. L'altro 
capo dell’elastico si infila nel foro del rocchetto, tirandolo fuori dalla parte oppo- 
sta e vi si passa un bastoncino più corto, fermandolo sotto al chiodino. Il trattore 
è pronto, basta caricarlo ruotando molte volte il bastoncino più lungo in modo 
che l'elastico si attorcigli su se stesso. Appoggiandolo in terra o sul tavolo, il vei- 
colo sarà spinto in avanti dallo srotolarsi daie che un po’ alla volta ritorna 
in posizione di riposo. 


Telefono — Si prendono due bicchierini di cartone cerato, di quelli usati come 
coppette per il gelato, si lavano e si fanno asciugare Si pratica un forellino in 
mezzo al fondo e ci si infila in ognuno, dall’interno verso l'esterno uno dei capi 
di uno spago sottile, fermandoli all’interno con un nodo multiplo perché non si 
sfili dal Ho, Il bicchierino funge sia da microfono che da ricevitore, sfruttando 
le leggere vibrazioni dello spago. Tenendo il filo teso, un bambino parla appog- 
giando il bicchierino alla bocca, l’altro ascolta appoggiando il suo bicchierino 
all’orecchio Non è raro che la comunicazione sia poco chiara e generi equivoci: 
anche in questo sta una parte del divertimento. 


8. Giochi preparati da adulti 


Padella — Gioco di destrezza che ho visto durante le sagre di San Rocco, il 
16 di agosto, a metà degli anni ’60 del secolo scorso, in Piazza Buonaparte a San 
Miniato. Una padella nera di fuliggine viene appesa a una traversa per mezzo di 
uno spago, con il fondo ad altezza della faccia di un ragazzo. Nel centro del fon- 
do esterno è stata attaccata con della sugna una moneta d’argento da 500 lire. I 

artecipanti al gioco devono cercare di staccare la moneta dalla padella solo con 
e labbra, i denti e la lingua, senza aiutarsi con le mani. 

Questa prova è descritta con precisione dal Fanfani, che conclude la voce del suo 
Vocabolario con questa considerazione: “Non sarà difficile trovare o istigare un ba- 
lordo, che voglia farne la prova per l'avidità del denaro, ma non riuscirà che ad insu- 


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Rossano Nistri 





diciarsi il viso, e diverrà il soggetto della comune derisione”. 


Pentolaccia — Gioco comune nel giorno dell'Epifania o nel periodo di Car- 
nevale. Una o più pentole di terracotta, riempite di dolciumi, di coriandoli e 
talvolta anche d’acqua, vengono appese a una corda tesa da un lato all’altro della 
stanza a un paio di metri dal pavimento. Il bambino che vuole partecipare, al 
momento del gioco, è bendato e armato di un bastone. Dopo che il capogioco 

li ha fatto compiere alcuni giri su se stesso per fargli perdere l'orientamento, il 
TA deve cercare di colpire con il bastone e di rompere una delle pentole, 
per farne uscire il contenuto che, secondo le regole stabilite, gli apparterrà o sarà 
conteso in baruffa anche dagli altri bambini. 

Ne descrive due varianti ottocentesche il Fanfani alle voci pentola e pentolaccia. 
La prima con “una oa entro la quale a vista di tutti si pongono dei fichisecchi, 
de marroni, o simili altre cose, e si propone che tutto ciò che è nella pentola toccherà 
a quello, il quale, bendato, la colpirà con un bastone e la romperà (...). Quando toc- 
cherà a colui, al quale è destinata la burla, allorché sarà bendato, si cambierà la pen- 
tola, ponendone una piena d'acqua”. La seconda si faceva con una pentola rovesciata 
posta vicino a una parete della stanza: chi non riusciva a romperla, 0 oltrepassava la 
pentola o colpiva il muro doveva depositare un pegno, che sarebbe andato a chi, infine 
sarebbe riuscito a rompere la pentola”. 


Trottola — È un cono di legno duro, lavorato al tornio, con la parte inferiore 
scanalata (in modo tale da poterci avvolgere la cordicella che le dà il moto), e una 
punta di ferro all’estremità. Difficilmente un ragazzo riesce a costruirla da solo e 
ha bisogno dell’aiuto di un adulto per fabbricarla. Dopo aver avvolto la cordicella 
dal basso verso l’alto nelle scanalature della trottola, i giocatori, trattenendo il 
capo della cordicella, con un colpo forte e deciso della mano in avanti e poi del 
braccio all’indietro, le imprimono un movimento rotatorio che la libera e le per- 
mette di girare rapidamente su se stessa. Vince il giocatore che riesce a far girare 
la trottola per un tempo maggiore. 

Il gioco era già praticato dai Greci” e dai Romani, che lo chiamavano turbo. Il 
Minucci definisce la trottola simile al Paleo, “uno strumento di legno, che serve per 
trastullo e giuoco de ragazzi, il quale è di figura oo all'ingiù: e nella testata, 
che viene di sopra, ha un manichetto tondo, il quale avvoltolato con uno spago o 
cordicella, infla in unassicella bucata: e tirandosi quello spago, si svolta: ed il Paleo 
scappa dal buco dell'assicella, e va per terra girando, portato dall'impulso di quello 
spago”. Successivamente però nota che il a non è identico alla trottola, come ‘ci 





9. Fanfani, p. 652. 

9% Fanfani, pp. 678-679. 

95 Callimaco, VII, 89. 

% Virgilio VII, 378-380 : “...ceu quondam torto volitans sub verbere turbo,/ quem pueri magno in 
gyro vacua atria circum / intenti ludo exercent...” (... come quando volteggiando sotto la frusta vibrata, 
una trottola, che i ragazzi in gran cerchio intorno agli ampi atrii spingono, intenti al gioco. ..); Tibullo I, 
5, 3-4.: “Namque agor ut per plana citus sola verbere turbo / Quem celer adsueta versat ab arte puer” (... sto 
girando come una trottola, mossa sul selciato con la frusta, che un bimbo fa vorticare con la destrezza 


che gli è nota...). 
7. Minucci, p. 166 e 461. 


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QUANTE CORNA HA LA CAVALLA? I giochi infantili nella Toscana preindustriale, 
sullo scenario del Malmantile racquistato di Lorenzo Lippi 





testifica una certa cantilena assai praticata fra’ ragazzi, che dice: E il Cristian non è 
Giudeo, / E la trottola non è paleo, / e il paleo non è la trottola, ec.”*, tal che il Sal- 
vini poco più sotto può precisare che è questione di dimensioni, perché propriamente 
“Il Paleo è un Trottolone...”?. 


Zimbello — Era, negli anni dell’ultimo dopoguerra, un sacchettino di tela a 
spicchi colorati, riempito di segatura così da risultare sferico, attaccato all’estre- 
mità di un sottile elastico. Si comprava sulla bancarelle della fiera o in qualche 
negozio per Carnevale. Disponendo di un elastico di 70-80 centimetri si poteva 
fabbricare in casa con un calzino riempito di segatura nella punta. Era scherzo 
innocuo che i bambini lanciavano addosso alle persone, richiamandolo a sé per 
mezzo dell’elastico. 

Nei tempi passati, ne fanno fede il Malmantile!®® e la Crusca, era “un sacchettino 
legato a una cordicella, pieno di borra, o di cenere, col quale [i bambini] si percuoto- 


no, per ischerzo, e chiamanlo zimbellare, e zimbellata il colpo”. 


100 





9. La filastrocca era ancora in uso a fine XIX secolo nel Pisano (v. De Gubernatis, p. 102 e Gian- 


nini A. p. 93). 
9 Salvini, p. 166. 
10 Minucci, p. 90: “... un sacchetto, pieno di crusca o di censio di segatura, legato a una cordicel- 


la, lunga circa due braccia, con il quale i fattorini delle botteghe de’ setaiuoli, nel tempo di Carnevale, 
quando passano i contadini (...), uno di loro perquote il contadino: e mentre questo si volta per veder 
chi l’ha percosso, gli altri ragazzi lo perquotono dall’altra banda” 

11 Vocabolario della Crusca, alla voce, dalla 1° ed. (161) fino alla 4° ed. (1729-1738), e non più 


riportata nell’edizione seguente né nelle integrazioni. 


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Rossano Nistri 





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QUANTE CORNA HA LA CAVALLA? I giochi infantili nella Toscana preindustriale, 





sullo scenario del Malmantile racquistato di Lorenzo Lippi 





I 
DI PERLONE: 
PRIMO CANT 


a N 
by m 


Maree fiegnara perchè il Monda è in 

e aTe 4 im pace 

Cinta o aie Ja lenti a fma 3 
E fe afperta, e con parlar mendace 
Ma ala a jve har Fire in Celidera, 
Fa la mofira * fuoi Baldone audace © 
Indi all'imbarco non frappon dimora: 
E per via marra, con che mode inde 
Bersinella occuparo atea il fue Regno Ù 


Anto lo flocco e "1 battical di maglia ; 
Onde Baldon fotto guerriero armele , 
Movendo a-Malmantile afpra battaglia; 
Fece prove da fcriverne al paefe, 

Fer chiarir.Bertinella e la smpi s 





Che fu feco al delitto in crimenlefe, 
Del fare a Celidora fna cugina ; 
emi Per canfarla del Regno, una pedina. 

‘fi ALMARTILE nacamistato. Quei ‘da intitotazione dell Bali , 
M fto Poema ha avuto tre titoli a P alateti ivi avanti Pra nni 
werh phot MALMANTILE DISPATTO: LA 3 il fecondo è nella Chianti, o-fiano 
PRESA DI MALMANTILE: E MALMANTI- ‘brevi Annotazioni MSA. fopra la Cicala- 


LE RACQUIITATO» Fi prata sie A3 ta della Lingua fonidutoca gna 


Fig. 1: Incipit della terza edizione del Ma/mantile racquistato di Perlone Zipoli, in Firenze MDCCL nella 
Stamperia di Francesco Moücke. L’acquaforte con i giochi dei bambini è opera di Cosimo Mogalli, su 
disegno di Lorenzo Maria Veber. 


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Rossano Nistri 





3 
sa 
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Si 
si 

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T 


l 


T TI HIDI 
Erli i i mT 





Fig. 2: Ritratto di Lorenzo Lippi alias Perlone Zipoli, acquaforte di Francesco Zuccherelli di Pitigliano, 
premessa alla terza edizione del Malmantile racquistato, cit.. 


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QUANTE CORNA HA LA CAVALLA? I giochi infantili nella Toscana preindustriale, 
sullo scenario del Malmantile racquistato di Lorenzo Lippi 





Staccaburstia 
ER ERE 


bu- rabia = tino della gatta, lu 
gi] 


gat- rE ET CE do tetto agata 






Ill 





— þa 





È = = - 
; La ni rsa dita. 
Fig. 3: Una delle più note filastrocche da gioco, conosciuta ovunque in Toscana, con infinite varianti nel 


testo, si canta “...tenendo il bimbo per le manine, dopo averlo posto a cavalcioni sui nostri ginocchi, e 
mandandolo innanzi e indietro...” (Giovanni Giannini). 


AI mo la castello 








E A lir a 
Po ad 
e | rtro Mir: pio bido Hide Hit a tall eta: 


Fig. 4: Per questo girotondo a botta e risposta alcuni studiosi avanzano l’ipotesi che le locuzioni tollerino 
e tollerello derivino dal latino tollere (togliere, portar via) che svelerebbe legami con l’antico rito tradizio- 
nale del rapimento della sposa. 


Ess l'ambascadtori 











Erto lam Josia- fon sà unici 


mon fia cd-ha 


Ea to Vama girri- te a ae - lar 


Fig. 5: Anche nella struttura di questo gioco, il riferimento finale alla “sposa che schiaccia la noce” 
potrebbe essere la reliquia dell’usanza matrimoniale etrusco-latina di lanciare noci augurali ai bambini 
e alla sposa, la quale a raggiungere la casa dello sposo evitando di schiacciare le noci per tenere 
lontane le sventure e garantirsi un matrimonio propizio. 


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Rossano Nistri 





Giotende:4 


QUANTE CORNA HA LA CAVALLA? I giochi infantili nella Toscana preindustriale, 
sullo scenario del Malmantile racquistato di Lorenzo Lippi 


La # Wa lavandtrina 











tata tot-tr gio per r-re 





Figg. 6 e 7: La pratica del girotondo è diffusa in tutte le civiltà, fin dalle epoche più antiche. Alcuni folk- 
loristi ritengono che nel gesto conclusivo di accovacciarsi a terra si celi la memoria di comportamenti 
apotropaici risalenti al periodo peste nera o addirittura a riti precristiani. 






Ho peso ast lina din-din din dela ho 





Fig. 8: Con la stessa melodia e gli stessi ritornelli (dindina dinadella // dindina e cavaliè) nel Pisano era 
conosciuto un altro gioco, Inginocchiati o Sandruccia, nel quale la bambina che sta in mezzo al giroton- 
do deve compiere alcuni gesti che le vengono indicati e poi indovinare chi le ha lanciato un fazzoletto. 


62 


Fig. 9: Il gioco della bella lavanderina condivide le sue dinamiche essenziali con un altro conosciuto 
come Maria Giulia / perché non sei venuta, che si recita senza melodia e nel quale la bambina che sta al 
centro del girotondo deve eseguire i movimenti che le vengono di volta in volta indicati. 





Fig. 10: Altro notissimo girotondo a sfondo matrimoniale, con infinite varianti sia nel testo sia nelle 
dinamiche. Si è ipotizzato che la madama Dorè non sia nient'altro che la regina, “divenuta una qualsiasi 


signora, obliando di aver rivestito il rango di moglie del re (d’o’ re)” in una reliquia di rappresentazione 
di un rito nuziale. 


Nell citta di Mastova 





tl Ul: tl Man. CASIO Sila yal- a 





el vede Vi pito sveleudta ve- A lm, 


Fig. 11: Costantino Nigra dà dodici versioni di questo canto, in vari dialetti piemontesi, riscontrando 
similitudini con archetipi narrativi altomedievali (Autari e Teodolinda nell Historia Longobardorum di 
Paolo Diacono: Aureliano e Clotilde nei racconti di Gregorio di Tours; Attila ed Erka nella Vilkina Saga 
o Saga di Teodorico), senza azzardare ipotesi sulla sua origine. 


63 


Per una storia religiosa e sociale della città di San Miniato 
dalle pergamene inedite dal convento di San Francesco 


(secoli XIII-XV): 





FRANCESCO SALVESTRINI 


Nemo propriis ornamentis esse privandas existimet civitates 
(Imperatoris Theodosii Codex, XV, 1,1) 


Premessa 

Il convento di San Francesco a San Miniato al Tedesco, tra Firenze e Pisa, 
costituisce senza dubbio l’edificio storico di maggior impatto per chi giunge da 
fuori alla suddetta località. Esso appare ancor più evidente dell’esile ma emble- 
matica torre fatta erigere da Federico II di Svevia, la quale svetta solitaria sulla 
sommità del nucleo Li e da secoli costituisce il simbolo della cittadina?. Il 
complesso minorita presenta, infatti, come sottolineava Renzo Baldaccini negli 
anni Cinquanta del Novecentoì, i caratteri esterni di una grande abbazia forti- 
ficata, la cui imponenza, soprattutto in relazione alle dimensioni dell’abitato, 
è sottolineata dai robusti contrafforti in laterizio che si appoggiano al profilo 
scosceso della collina, facendo intendere come il grande insediamento claustrale 
sia il più ampio e articolato monumento d’età medievale rimasto sul rilievo che 
ospita l'antico centro urbano‘. 


La presenza dei Francescani a San Miniato costituì per il secolo XIII un’'atte- 
stazione del rilievo politico e strategico rivestito da questa comunità. Quando i 
viri poenitentiales de civitate Assisii oriundi vi giunsero essa aveva, infatti, già ac- 
colto un nucleo di frati agostiniani, i quali, seguendo modalità di avvicinamento 
tipiche dei Mendicanti, si erano prima fermati sulle pendici, poi si erano spinti 
all’interno del castello, e infine si erano stabiliti presso il convento di Santa Cate- 





! Abbreviazioni usate nel testo: ASFi, DCS = Firenze, Archivio di Stato, Diplomatico, Comune 
di San Miniato al Tedesco; NV = Archivio Apostolico Vaticano, Archivio della Nunziatura di Venezia, 
Fondo Toscano, Diplomatico, Blocchetto III 65; SFSM = Firenze, Biblioteca di Santa Croce, Archivio 
Storico della Provincia Toscana dei Frati Minori Conventuali, Diplomatico, Fondo S. Miniato, Con- 
vento di S. Francesco; SM7 = ivi, Corda 7, fasc. 2, s. fasc. 1, San Miniato, Convento di S. Francesco; 
AOSC = Firenze, Archivio dell'Opera di Santa Croce. Ringrazio Simone Allegria, Secondino Gatta e 
Novella Maggiora (Biblioteca di Santa Croce); Claudia Timossi (Opera di Santa Croce) per la collabo- 
razione. Il saggio, in forma parzialmente diversa, è stato edito come Salvestrini 2019, di cui la presente 
versione costituisce un aggiornamento. 

2 Cfr.in proposito Salvestrini 2008, pp. 229-230. 

° Baldaccini 1955, pp. 281-282. 

‘ Per il popolamento di San Miniato in età comunale rinvio a Salvestrini 2013, pp. 26, 30, 37. 


65 


Francesco Salvestrini 





rina, successivamente Sant'Agostino, nel terziere di Poggighisi?. 

Stando a una controversa cartula confirmationis risalente al 783, oggi conser- 
vata nel fondo diplomatico dell’archivio arcivescovile lucchese (San Miniato fu 
soggetta a tale ordinario diocesano fino al Seicento), nel corso del secolo VIII 
sarebbe stata edificata sull’altura oggi occupata dal centro storico di San Miniato 
una ecclesia dedicata all’eponimo martire fiorentino. Tale oratorio, denominato 
San Miniato in loco Quarto, avrebbe costituito uno dei primi nuclei della co- 
munità castrense che da tale santo successivamente prese il nome. Di recente la 
tradizionale identificazione di questo oratorio con quello citato nella suddetta 
testimonianza è stata contestata. Si è, infatti, proposto che la costruzione richia- 
mata nell’atto si trovasse non lontano dall’odierna Capannori, e che il toponimo 
valdarnese debba riferirsi ad una cappella più tarda, databile tra la fine del IX 
e l’inizio del X secolo, menzionata in alcuni documenti successivi, nonché di- 
pendente dalla pieve battesimale di San Genesio, la quale sorgeva a sua volta 
all’interno del vicino borgo di Vico Wallari posto nella valle dell’ Arno ai piedi del 
colle sanminiatese®. Di tale oratorio, in ogni caso, le antiche fonti lucchesi non 
indicano l’esatta ubicazione. 

Non è questa la sede per tornare sull'argomento”. Mi limito a rilevare che 
quando nel Duecento i sanminiatesi decisero di accogliere una prima fondazione 
minoritica e concessero ai frati una chiesa preesistente scelsero un /ocus situato al 
margine dell’abitato cui essi attribuivano un particolare significato in quanto pri- 
mo tempio cristiano sorto all’interno del castello. Ricordo, infatti, che gli statuti 
comunali del 1337 e 1359 stabilivano che la festa del martire si celebrasse apud 
locum fratrum minorum, sottolineando come a quei religiosi fosse stata affidata la 
memoria liturgica dell'antica dedicazione®. Appare, quindi, chiaro che la docu- 


© Nel primo Trecento si aggiunsero anche i Domenicani, che edificarono la chiesa dei Santi 
Jacopo e Lucia. Cfr. Bianchetti - Imbesi, 1998, p. 12; Ginatempo 2018, pp. 66, 75. 

€ Tomei 2018, pp. 14, 18, 40, 47, 53, 59-60, 81, 85. Sulla località di San Genesio e sui rapporti 
col primitivo centro d'altura cfr. Vico Wallari-San Genesio 2010; ed anche Concioni 2010; Gagliardi 
2015. 

7 Osservo unicamente che le nuove chiavi di lettura lasciano senza spiegazione il motivo per cui 
sul colle di San Miniato si volle erigere un oratorio, perché questo più tardo momento di fondazione 
(IX-X secolo) non ha lasciato tracce nella documentazione vescovile relativamente cospicua circa il pe- 
riodo in esame, e per quale ragione si volle dedicare la chiesa al martire fiorentino. Tale ultima questione 
è brevemente posta in Gagliardi - Campigli 2014, pp. 21-22, e, più approfonditamente, in Gagliardi 
2021. Sulla figura sostanzialmente leggendaria di Miniato e sulle più antiche scritture agiografiche che 
lo riguardano cfr. Le Passioni di san Miniato 2018; La Basilica 2021. 

8 Statuti del Comune 1994, IV, 90<94>, p. 381; ivi, Appendice ITI, p. 500. Sulle relazioni tra 
governi comunali e insediamenti mendicanti nell’area cfr. De la Roncière 1999, pp. 236-243. Riguardo 
agli statuti sanminiatesi mi corre l'obbligo di fare alcune precisazioni in merito a quanto scrive Mazzoni 
2017, p. 6, il quale sostiene che gli editori dei codici normativi risalenti al 1337 e 1364 «hanno sbagliato 
la datazione dei rispettivi documenti». Da parte dei due studiosi citati (il sottoscritto e Valori 2006) 
non è stata compiuta dal punto di vista filologico alcuna imprecisione, dal momento che i manoscritti 
recano una datazione esplicita (lo statuto più antico cita: sub anno Domini ab eius incarnatione 
millesimo trecentesimo trigesimo septimo, quinte indictionis, habens initium in kalendis mensis 
decenbris dictorum anni et indictionis, Statuti del Comune 1994, I, p. 60). L'errore consistereb- 
be, quindi, nel non aver alterato la lettera del manoscritto per evidenziare il ricorso allo stile pisano 
dell’incarnazione. Per altro verso il testo non contiene alcun riferimento esplicito alla datazione propria 


66 


Per una storia religiosa e sociale della città di San Miniato dalle pergamene inedite 
dal convento di San Francesco (secoli XIII-XV) 





mentazione lucchese e quella municipale di San Miniato non solo confermano 
la nascita sul castrum di un antico luogo di culto intitolato al mitico testimone 
fiorentino, ma suggeriscono anche che questo vetusto edificio, forse col tempo 
abbandonato e magari ridotto a poco più di un rudere denso, però, di riferimenti 
memoriali (per lungo tempo la via di San Francesco e la vicina porta cittadina di 
Sant Andrea continuarono ad essere denominate di S. Miniato), si trovasse ove in 
seguito sorse la chiesa dei frati minori’. 

A tale complesso conventuale le tradizioni locali non hanno fatto mancare nes- 
suno dei più tipici e nobilitanti riferimenti connessi alle origini del movimento 
serafico, a partire dalla fondazione operata dallo stesso Francesco nel 1211, anno 
in cui, reduce dal viaggio a Roma compiuto per ottenere dal papa l'approvazione 
della sua forma vitae, egli avviò una missione di predicazione itinerante attraverso 
vari centri dell’Italia centrale, fra cui la vicina Pisa!°. Sarebbe stato, quindi, Pas- 
sisiate a lasciare alla guida della nuova comunità il beato Buonincontro, il quale, 
divenuto poi ministro della provincia francese, avrebbe affidato il convento a un 
frate proveniente dalla locale famiglia dei Borromei!!. A prescindere da questa 
non documentata circostanza, è certo che negli anni Settanta del secolo i Minori 
erano stabilmente insediati su un sito che la tradizione identificava con l’oratorio 
del martire Miniato. Infatti il primo documento certo in merito all’esistenza del 
complesso claustrale risale al 1276, allorché il vescovo di Lucca Paganello da Por- 
cari concesse un’indulgenza a coloro che avessero contribuito al completamento 
delle nuove strutture del convento". La data appare significativa nella misura in 
cui è di poco successiva agli importanti mutamenti politici che il comune di San 
Miniato, chiusa ormai la stagione dei rapporti ci con l’Impero e in par- 
ticolare con Federico II, il quale non aveva «in Toscana [...] la più fedel terra di 


della città tirrenica. È ben vero che nella documentazione privata locale sembra prevalere questo tipo 
di calcolo, almeno fino al 1369-70. Tuttavia alcuni documenti di San Francesco mostrano come i notai 
ritenessero talora di dover esplicitare, quando ricorrevano allo stile pisano: secundum communem 
usum et consuetudinem saminiatensium (cfr. SFSM, 1295, giugno 17; NV, 16602, 1344, aprile 26); 
e quando, soprattutto dopo il 1369-70, seguivano quello fiorentino: secundum cursum et consuetudi- 
nem civitatis Florentie (cfr. SESM, 1373, dicembre 24; 1376, febbraio 10; NV, 16606, 1372, marzo 
12). Ciò suggerisce che nella San Miniato del Trecento, laddove non dichiarati, entrambi gli stili, pisano 
e fiorentino, potessero essere in uso, soprattutto in rapporto ai testi normativi. Non dimentichiamo 
che lo statuto fu redatto all’epoca di un capitano del Popolo fiorentino (Nepi de’ Bardi) e durante un 
periodo segnato dalla stretta alleanza tra San Miniato e la città gigliata (cfr. Waley 1968, pp. 89-90, 94; 
Salvestrini 1999; Salvestrini 2003, pp. 230-232). Non vi è, pertanto, certezza in merito all’uso seguito 
per datare quei codici. Nel dubbio gli editori bene hanno fatto a trascrivere la data cronica riportata sui 
manoscritti e non ad inserirne una che appare frutto di mera congettura. 

°? — Una localizzazione del resto proposta da tempo, cfr. Gamucci 1968, p. 32; Baldaccini 1955, p. 
281; Cristiani Testi 1967, pp. 16, 72; Morelli 1995a, p. 91; Gagliardi Campigli 2014, pp. 21, 41. 

10 Cfr. Ronzani 1985, p. 1. 

!! Cfr. Wadding 1731, p. 115; Rondoni 1876-1980, p. 42; Galli 1922, pp. 13-26; Gagliardi - 
Campigli 2014, p. 93. 

12 Indulgenza di Pavanello vescovo di Lucca (1276, agosto 4) per la nuova costruzione della chiesa 
e del convento di San Francesco (Copie di testamenti e contratti, 1276-1518). Tale fondo, ancora conser- 
vato presso l'archivio del convento di San Francesco ed esaminato da Silvano Mori negli anni Novanta 
del Novecento, non è al momento consultabile (cfr. Mori, 1992, p. 21). Del documento citato esiste una 
trascrizione settecentesca in Ricordi e memorie. 


67 


Francesco Salvestrini 


Per una storia religiosa e sociale della città di San Miniato dalle pergamene inedite 
dal convento di San Francesco (secoli XILI-XV) 








San Miniato né in che più si fidasse»!?, una volta consolidato il proprio dominio 
entro l’area compresa fra la pianura del Valdarno e i rilievi della Valdegola, nel 
1271 fece atto di sottomissione a Carlo I d'Angiò“. 

Vi è, tuttavia, la concreta possibilità che il convento sia stato abitato in pre- 
cedenza. Lo suggerisce, rilevando le modeste dimensioni della chiesa originaria 
ancora leggibile entro il profilo di quella più tarda, Maria Laura Cristiani Testi, 
la quale ha proposto una datazione del primo nucleo edilizio anteriore al 1260". 
L'ipotesi verrebbe indirettamente confermata dalla testimonianza relativa all’esi- 
stenza di una tavola dipinta, purtroppo oggi perduta, raffigurante san Francesco e 
scene della sua vita, recante la data del 1228. L'opera è nota grazie ad un'incisione 
seicentesca che ne tramanda provenienza e datazione, riferendola al convento 
dei Minori; mentre un documento del 1613 ricorda come essa risultasse all’epo- 
ca molto ammalorata, fosse stata restaurata dal locale pittore Gabriele Grassi e 
fosse stata depositata presso il convento dei Cappuccini, dove, però, oggi non è 
attestata!9, Tale testimonianza risulta alquanto incerta, sebbene circostanziata (se 
confermata rivelerebbe una delle più antiche raffigurazioni del santo), e in ogni 
caso non implica necessariamente che il convento fosse esistente fin dagli anni 
Venti, potendo i frati aver acquisito licona dopo che questa era stata dipinta al- 
trove. Resta comunque un indizio interessante. 

Anche un’altra tavola, raffigurante la Madonna col Bambino, riferibile al se- 
condo decennio o alla metà del Duecento e accostabile alle opere attribuite alla 
cerchia di Bonaventura di Berlinghiero, attualmente alla Galleria dell’Accademia 
di Firenze, sembra provenire dalla chiesa francescana di San Miniato”. 


Gli studi ad oggi condotti sull’insediamento minorita della cittadina federicia- 
na sono stati quasi esclusivamente dedicati alle vicende costruttive e alla struttura 
architettonica del complesso. Nessuno di essi ha fatto riferimento ai due poco co- 
nosciuti fondi membranacei che nella presente occasione intendiamo valorizzare. 
Venendo, infatti, a parlare di questi ultimi, rileviamo come si tratti di cospicui 
depositi documentari, resi particolarmente preziosi dal fatto che costituiscono 
la principale raccolta di fonti relativa alla vicenda medievale dei Francescani val- 
darnesi, la cui consistenza patrimoniale non è verificabile al Catasto fiorentino 
del 1427 (nel quale è presente il convento di San Jacopo, ma non quello di San 
Francesco); ed offrono un apporto significativo alla storia dell'intero comune 
sanminiatese nel Due e Trecento, essendo questo sostanzialmente privo di docu- 
mentazione pubblica, perduta in occasione della conquista fiorentina occorsa fra 


1369 e 70. 





8 Collenuccio 1929, p. 142. Cfr. anche ASFi, DCS, 1216, febbraio. Sul periodo federiciano 
rinvio a Salvestrini 2008, pp. 246-253. 

4 ASFi, DCS, 1272, aprile 8; 1272, aprile 10; 1272, agosto 14; Documenti delle relazioni, 
1950, nn. 294, 413, 420, 426, 691, pp. 169, 225, 366-367. Cfr. Lotti 1980, p. 52; Mazzoni - Salvestri- 
ni 1999, p. 4; Salvestrini 2008, pp. 251, 255-256; Mazzoni 2017, pp. 177-179. Sul contesto politico 
si veda Zorzi 2006; Terenzi 2019. Sul ruolo svolto dai Minori nella ‘riscossa guelfa’ degli anni 1270, 
Vauchez 2005, p. 174. 

!5 Cristiani Testi 1967, pp. 72-73. 

16 Cfr. Gagliardi - Campigli 2014, p. 93. 

17 Cfr. Boskovits 1993, pp. 75-76. 


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Con l'ausilio delle carte di San Francesco proveremo ad integrare e lumeg- 
giare, sia pure in forma più o meno ampia e comunque sempre parziale, tre 
elementi fondamentali a al passato del convento, ossia: l'evoluzione degli 
edifici claustrali; la presenza di privilegi pontifici ed episcopali diretti all'Ordine e 
alla comunità religiosa locale; le relazioni intessute da quest’ultima con la cittadi- 
nanza sanminiatese e con gli organi del governo municipale fra XIII e XV secolo. 

Il più consistente dei le fondi in esame è quello costituito dalle pergamene 
relative a San Miniato riunite in 2 faldoni depositati presso l'archivio della Pro- 
vincia toscana dei Frati Minori Conventuali in Santa Croce a Firenze. Si tratta di 
92 pezzi, di cui 22 del XIII secolo, 30 del XIV, 10 del XV, 4 del XVI, 16 del XVII, 
7 del XVIII, e 3 del XIX. Fra questi si segnalano ben 24 documenti pontifici (una 
sorta di vero e proprio Bullarium), riferibili soprattutto a papa Innocenzo IV (f 
1254), 12 pezzi. 

L'altro giacimento si conserva come parte dell’Archivio della Nunziatura di 
Venezia (ex Archivio della Cancelleria della Nunziatura Veneta), Fondo Tosca- 
no, presso l'Archivio Segreto Vaticano. Tale complesso riunisce le pergamene dei 
conventi toscani appartenenti alle congregazioni soppresse da Clemente IX nel 
1668 per finanziare la guerra di Candia combattuta dalla Serenissima contro i 
turchi (Canonici regolari di San Giorgio in Alga, Gesuati, Girolamini di Fiesole); 
documenti convogliati verso la nunziatura di Venezia per disposizione del nunzio 
Lorenzo Trotti!8. In rapporto al San Francesco di San Miniato (Blocchetto III 65: 
da 16600 a 16630) si enumerano 31 pezzi datati agli anni 1297-1545, di cui 1 
relativo al XIII, 12 al XIV, 16 al XV e 2 al XVI secolo. 

A tale cospicuo patrimonio vanno aggiunti i 20 testamenti trecenteschi redatti 
per lo più in favore del convento conservati presso l'Archivio Storico Diocesano 
di Pisa, oggetto di recente edizione da parte di Luca Cadonici!?, e le sole 5 unità 
componenti il fondo Diplomatico di San Francesco a San Miniato al Tedesco 
compreso nel deposito pergamenaceo dell’Archivio di Stato di Firenze (1349/50- 
1476, fra cui 3 carte del XIV e 2 del XV secolo). 

Poiché la storia del comune di San Miniato è stata ripercorsa da numerosi 
studi, alcuni anche molto recenti, i quali, però, non fanno alcun riferimento al 
complesso dei frati minori, una prima ricognizione delle pergamene provenienti 
da San Francesco potrà essere confrontata con altra documentazione disponibile, 
aprendo in certa misura nuovi spazi di conoscenza sulla vita religiosa e sociale di 
San Miniato, soprattutto durante i secoli finali del Medioevo. 


Venendo al primo punto sopra richiamato, ossia l'evoluzione degli edifici 
conventuali, le pergamene risultano, per la verità, avare di informazioni, anche 
se offrono spunti interessanti di comparazione con altre testimonianze in passa- 
to richiamate dagli studiosi. Questi hanno analizzato le strutture singolarmente 
‘parlanti’ del convento ed hanno ripercorso l’evoluzione dell’alzato primitivo, an- 
cora evidente sul prospetto dell’odierna facciata della chiesa, fino alla fabbrica più 
ampia realizzata a distanza di alcuni decenni. In particolare i lavori di Baldacci- 





!# Cfr. in proposito Documenti e notizie 1936, pp. 265-266; L'archivio della nunziatura di 
Venezia 1998; Gagliardi 2004, pp. 483-484. 
19 Cadonici 2011. 


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Francesco Salvestrini 


Per una storia religiosa e sociale della città di San Miniato dalle pergamene inedite 
dal convento di San Francesco (secoli XIII-XV) 








ni e Cristiani Testi hanno evidenziato alcune caratteristiche dell’edificio sacro, a 
navata unica, in certa misura modellato sulle forme della basilica assisiate. Esso 
fu realizzato in laterizi, come gran parte degli edifici medievali di San Miniato, 
data la prossimità del castello ad aree fluviali ricche di argille e a spazi boschivi 
che producevano abbondante legna da ardere?°. Il fabbricato evoca modelli co- 
struttivi presenti nelle pievi della zona, da quella castrense di Santa Maria, oggi 
cattedrale, a quella rurale di Corazzano (con richiami abbastanza evidenti anche 
alla chiesa di San Iacopo a San Gimignano), sapientemente declinati secondo la 
cultura architettonica degli Ordini mendicanti. 

San Francesco, vero e proprio monumento della ‘terracotta architettonica’ val- 
darnese, presenta in facciata i tipici caratteri di transizione dal tardoromanico al 
gotico, come appare soprattutto nel primitivo portale a tutto sesto, che si caratte- 
rizza per una decorazione a denti di sega di matrice lombarda con ghiera a viticci 
e foglie stilizzate di gusto chiaramente goticizzante. Il fronte doveva presentare in 
origine anche una tettoia; mentre i due avelli laterali, ancora ben leggibili, molto 
probabilmente appartenevano uno alla struttura originaria e l’altro al più tardo 
ampliamento della medesima”. La prima versione della chiesa, sicuramente due- 
centesca, presentava un leggero allargamento absidale reso necessario dal maggior 
sviluppo orizzontale delle cappelle terminali della navata rispetto alla larghez- 
za della medesima, in forma di pseudo transetto, ricorrente in varie fondazioni 
mendicanti della Valdelsa??. Come già aveva rilevato il Baldaccini, nel 1338 ser 
Michele di Bindo Portigiani della contrada di Pancole, fra le sue ultime volontà 
menzionò un contributo destinato alla costruzione, dentro la chiesa dei France- 
scani, di una cappella intitolata alla Beata Vergine e a San Michele Arcangelo, 
confermando che almeno a partire quella data il transetto iniziò a presentare tali 
strutture”. 

Nelle pergamene oggetto d'esame in questa sede manca ogni riferimento diret- 
to ai momenti chiave lla ristrutturazione del convento, come il completamento 
degli spazi abitativi nel 1331°“, gli ampliamenti datati dal Wadding al 1343”, la 
realizzazione di altri altari di famiglia durante la seconda metà del Trecento e i 
dipinti ad affresco risalenti allo stesso periodo, oggi in gran parte perduti, ma di 
cui resta, a testimoniare la ricchezza dell’apparato decorativo, la monumentale 
figurazione della Maestà e profeti eseguita intorno alla metà del secolo XIV dal 
senese Jacopo di Mino del Pellicciaio per la sala capitolare (oggi conservata nel 
museo diocesano di San Miniato)?°. Sappiamo, però, che a partire dal primo de- 
cennio del Trecento i frati incrementarono le loro relazioni con gli abitanti della 


2° Cfr. Frati - Lastraioli - Stopani 1996, pp. 157-159; Ducci - Badalassi 1998, pp. 91-92, 95-96. 

2! Baldaccini 1955, p. 282; Cristiani Testi 1967, pp. 72-75, 88. 

2 Moretti 1999, pp. 304-305. 

3 ASFi, Notarile antecosimiano, 7640, c. 6v, 1338, giugno 18, st. com. Cfr. Baldaccini 1955, 
pp. 289-290. Sulle cappelle di San Francesco cfr. SM7, ins. 4. 

24 Lascito di Iacoba vedova di Lippo Grani, che destinava somme di denaro ai Domenicani, e 
25 libre in. ecclesia fratrum minorum de Sancto Miniate, videlicet in constructione muri ipsius 
ecclesie vel dormitorii seu capituli vel alicuius alterius hedificii ibidem construendi (ASFi, Notarile 
antecosimiano, 7640, cc. 2r-2v, 1331, giugno 18, st. com.). 

2 Cfr. Baldaccini 1955, pp. 281, 286-287; Cristiani Testi 1967, pp. 75-77, 80-81. 

26. Gagliardi - Campigli 2014, pp. 93, 95. 


70 


cittadina, e che questi procurarono donazioni ed emolumenti in qualche modo 
destinati a supportare i lavori eseguiti nel corso dello stesso periodo”. 

Analoghe considerazioni possiamo fare in merito alle grandi trasformazioni 
che il complesso conobbe nel 1403, con l'avvio della realizzazione dei due chio- 
stri, e circa l’ulteriore ampliamento del coro, accompagnato dalla costruzione di 
vari ambienti posti sotto il livello della navata; rifacimenti menzionati in una la- 
pide posta in situ. Sempre da questa testimonianza e da alcuni protocolli notarili 
anteriori sappiamo che almeno dagli anni Venti del Trecento esisteva un’Opera 
di San Francesco, incaricata di raccogliere i finanziamenti e di curare la manu- 
tenzione del convento”. Nel 1476 furono avviati importanti lavori di ulteriore 
ingrandimento che modificarono sostanzialmente l'impianto dell’intero com- 
plesso, grazie soprattutto all'apertura di numerosi vani sovrapposti addossati al 
pendio, ospitanti forse un refettorio, dei magazzini e dei granai”. Appare degno 
di nota che proprio nel 1475, alla vigilia di tali interventi, papa Sisto IV avesse 
autorizzato i Minori ad amministrare direttamente un legato concesso in loro fa- 
vore da tale Guccio di Pasqua della locale famiglia Gucci, senza l'intervento degli 
esecutori testamentari, onde completare la cappella di Santa Maria Annunziata 
sita all’interno dell'unica navata della chiesa (structurarum complemento, manu- 
tentione, ornamentis dote et divinis officiis). L’anno successivo i frati ricevevano 
una donazione inter vivos di vari beni immobili, ivi compresa una casa ad Empoli, 
compiuta da donna Verdiana del fu Domenico di Lippo”. 

Le interessanti considerazioni di Baldaccini, per certi aspetti riprese da Cri- 
stiani Testi, che accostano il blocco edilizio due-trecentesco e le sue soluzioni co- 
struttive all’architettura cistercense, evidenziano a mio avviso la qualità e la mo- 
numentalità del sito minoritico sanminiatese, nonché la ricchezza di suggestioni 
che certamente i frati avevano portato a San Miniato attraverso la Francigena e le 
altre vie di comunicazione terrestri e fluviali della zona?. 


Se per la ricostruzione della storia dell’edificio le pergamene in esame ag- 
giungono poco a quanto già si sapeva, questo non vale per il secondo ambito di 
ricerca che ci siamo proposti di analizzare, ossia i privilegi conferiti all'Ordine 
minoritico e alla comunità regolare locale. Infatti la raccolta di carte presenta co- 





27. Cfr. ad esempio i munimina, alcuni datati secondo lo stile pisano, altri con quello fiorentino, 


qui riportati al comune: SFSM, 1307, ottobre 18; 1326, ottobre 17 (redatta a Castelfalfi, comunità del 
distretto sanminiatese, da un notaio di Montaione); 1347, aprile 15 (1 e 2); 1348, settembre 17; 1350, 
maggio 6; 1351 o 52, aprile 28; 1359, luglio 2; 1362, dicembre 19 (concernente un acquisto fondiario 
da parte di Tedaldo del fu Berto dei Ciccioni); 1364, aprile 15 (riguardante Vanni del fu Guido da Cigo- 
li, comunità del contado sanminiatese); 1364, ottobre 28; 1365, novembre 11 (stilato dal notaio Pietro 
di ser Tommaso dei Borromei); 1370, settembre 1; 1400, agosto 25; 1416, marzo 21; 1426, dicembre 
26; 1434-35, ottobre 11; 1442, settembre 20; 1468 giugno 23; 1481 febbraio 22; 1489 novembre 10; 
1489 dicembre 28; 1490 agosto 27; NV, 16607, 1383, maggio 17; 16612, 1399, giugno 20; 16622, 
1451, gennaio 20. 

28 ASFi, Notarile antecosimiano, 3818, c. 3r, 1320, ottobre 16. L'Opera ricorre ancora in un 
documento del comune risalente al 1442 (ASFi, DCS, 1442, luglio 3). 

2. Baldaccini 1955, pp. 288-289; Cristiani Testi 1967, pp. 77, 81. 

30. SFSM, 1475, gennaio 14. Copia del secolo XVI in SM7, ins. 5, n. 3. 

31 ASFi, Diplomatico, San Miniato al Tedesco, S. Francesco, 1476, giugno 2. 

8 Baldaccini 1955, pp. 281, 283-287; Cristiani Testi 1967, p. 78. 


71 


Francesco Salvestrini 





pie autentiche o imitative di quasi tutti i principali documenti pontifici diretti ai 
Francescani nella stagione delle origini, a partire da uno dei mandati di Gregorio 
IX (1237) successivi alla bolla Nimis iniqua del 1231, raccomandanti ai vescovi 
e ai prelati di tutta la Chiesa di ammettere, con debita licenza, i frati minori a 
svolgere l'ufficio della predicazione, ormai non più solo esortativa, e a confessare 
nelle loro diocesi (Quoniam abundavit iniquitad?. 

Seguono gli importanti brevi e privilegi di Innocenzo IV emanati nel 1243, 
concernenti il divieto di imporre ai Minori l’accoglienza di cause o esecuzioni 
di sentenze, nonché confermanti l’autorizzazione per loro a dimorare nelle terre 
degli scomunicati e a celebrare tempore generalis interdicti (il vescovo di Lucca 
scomunicò il comune di San Miniato intorno al 1283)‘; così come i documenti 
degli anni successivi che il medesimo pontefice concesse per conferire la facoltà 
di punire i frati che non rispettavano la disciplina dell'Ordine, o di usufruire dei 
diritti di conventualità (come, ad esempio, habere libere cimiteria)?. 

Il fondo presenta poi, in copie autentiche sottoscritte da due notai attivi per 
conto dei Minori sanminiatesi, il divieto di Clemente IV per ogni legato non 
apostolico di minacciare scomunica contro le chiese dei Francescani e per ogni 
fedele di arrecare violentiam dapnabilem alle medesime; quindi la proibizione di 
costruire conventi o chiese mendicanti entro lo spazio di 300 canne da una strut- 
tura di tali frati9°. Chiude la serie la bolla accordata nel 1281 da Martino IV ai 
ministri generali e provinciali dell’Ordine per autorizzarli a nominare predicatori 
e confessori (Ad fructus uberes quos in agro dominico)”. 

I religiosi sanminiatesi conservavano, accanto ai privilegi dell'Ordine, quelli 
relativi alla loro casa e al territorio di pertinenza. Ricordiamo il breve di Ales- 
sandro IV (1256), che concedeva cento giorni di indulgenza a chi avesse visitato 
le chiese dei frati minori della diocesi di Lucca nelle festività e rispettive ottave 
di san Francesco, sant'Antonio e santa Chiara (un atto che e far pensare 
all’esistenza del complesso francescano almeno da questa data); oppure il do- 
cumento segnato nel 1298 dal cardinale Matteo d’Acquasparta come ministro 
generale e legato apostolico, col quale si stabiliva analogo lieto per chi si fosse 
recato nelle suddette festività, ed anche per la festa del santo Miniato, presso la 
chiesa dei Minori di San Miniato”. 


Come sopra ricordavamo, a partire dal tardo Duecento i Francescani avvia- 
rono una serie di contatti con le famiglie sanminiatesi. Tali relazioni, attestate 





3. SFSM, 1237, aprile 6 (Sbaraleae, I 1759, pp. 214-215). Cfr. in proposito Vauchez 2005, p. 
111; Accrocca 2011; Benedetti 2011. 

3. ASFi, DCS, 1283, giugno 27. 

3. Cfr. SFSM, 1243, giugno 29; 1243, novembre 20; 1243, dicembre 22; 1244, agosto 5; 1245, 
agosto 18; 1245, settembre 24; 1246, gennaio 13; 1246, agosto 16; 1246, ottobre 30; 1247, giugno 13; 
1250, aprile 5. Gli atti sono esemplati in più copie. Cfr. Pisanu 1957. 

386 SFSM, 1265, giugno 15; 1265, giugno 29; 1265, ottobre 11; 1265, novembre 20 (Ad conse- 
quendam gloriam). Cfr. Sbaraleae, III 1765, pp. 59-60. 

87 SFSM, 1282, luglio 4. Cfr. Dal Pino 2007, p. 282. 

88. SFSM, 1256, giugno 17. Un privilegio di analogo tenore fu diretto anche ai Minori pisani. 
Ivi, 1298, marzo 8. Cfr. ivi anche i tardi privilegi concessi da Leone X e Gregorio XIII, datati 
1513, luglio 15 (copia cartacea moderna in SM7, ins. 1); e 1580, aprile 21. 


39 


72 


Per una storia religiosa e sociale della città di San Miniato dalle pergamene inedite 
dal convento di San Francesco (secoli XILI-XV) 





dai documenti, da un lato favorirono la stipula di lasciti testamentari in favore 
dei frati, dall'altro generarono alcune controversie in tema di eredità e diritti di 
sepoltura. Appare al riguardo interessante la sentenza pronunciata da un giudi- 
ce sanminiatese, presenti alcuni procuratores et sindici Appostolice Sedis, in o 
dei Minori che rivendicavano il corpo di Beatrice uxor olim Veltri Venture et filia 
condam Franchi de Sancto Miniate, la quale aveva manifestato la volontà di essere 
sepolta presso di loro, ma che era stata poi inumata nella chiesa degli eremiti 
di San Giacomo Fuoriporta in quanto residente in quella contrada (gli eremiti 
violenter rapuerunt in via publica il corpo et etiam catalectum, et cultrem eodem 
modo abstulerunt)“. Sempre alla fine del Duecento risale la donazione di Meo 
del fu Stantollo sanminiatese, che affidava all’arcidiacono Tommaso, vicario del 
presule lucchese Paganello, una casa con orto sulle pendici del castello al fine di 
farne un hospitale ad hospitalitatem pauperum, col quale certamente i frati ebbero 
successive relazioni”!. Negli anni Venti del Trecento era normale contemplare fra i 
beneficiari dei lasciti pro anima monasterio Sancte Clare e fraternitati ecclesie Beati 
Francisci de Santo Miniate (ordine di menzione era generalmente inverso per i 
testatori rispetto alle testatrici)‘. 

Un testamento in favore dei religiosi, quello di /acobus olim domini Ugonis, 
risale al maggio 1348, anno indubbiamente difficile anche per San Miniato, al- 
lorché tale foi cittadino, forse colpito da grave malattia, chiedeva di essere 
sepolto all’interno della chiesa di San Francesco*. Analoga motivazione deve aver 
spinto Bella di Cante di Mannino ad avanzare nello stesso periodo la medesima 
richiesta‘. In una carta dell’anno successivo Gualando di Bucello, sindaco e pro- 
curatore dei frati minori, dava il proprio consenso alla cessione di una dote la 
cui documentazione certamente era stata affidata in deposito al convento; dote 
costituita da due pezzi di terra situati nella località di Montappio sulle pendici 
di San Miniato”. Possiamo al riguardo ricordare che, al pari ci molti ui enti 
ecclesiastici, anche i Minori acquisivano le scritture di notai che avevano lavorato 
per loro o avevano ceduto ad essi le loro sostanze, come dimostra il protocollo di 
Piero di ser Francesco di Paolo da San Miniato relativo agli anni 1473-149845. 
Datano, infine, agli anni 1388, 1393, 1396, 1397, 1398 e 1419 altri testamenti 
e carte di donazione tramite i quali alcuni sanminatesi lasciavano beni e sostanze 
ai Minori affinché questi pregassero per le loro anime”. I frati spesso fungevano 
anche da esecutori testamentari per conto dei fedeli, e conservavano sia gli atti 
relativi alle loro ultime volontà, sia la documentazione concernente altre transa- 





40 SFSM, 1295, giugno 17. 

41 NY, 16600, 1297, aprile 23. 

4 Cfr. ad esempio il testamento di Vanna vedova di Puccio di Bonaventura (ASFi, Notarile 
antecosimiano, 3818, c. 31v, 1322, luglio 23, st. com.). 

& NV, 16603, 1348, maggio 15. 
“4 ASFi, Diplomatico, San Miniato al Tedesco, S. Francesco, 1348, luglio 23. 
4 NY, 16604, 1350, settembre 19. Cfr. anche ASFi, Diplomatico, San Miniato al Tedesco, S. 
Francesco, 1363, settembre 11. 

4 AOSC, Mébis. 

47 NV, 16608, 1388, agosto 17; 16609, 1393, luglio 7; 16610, 1397, febbraio 5; 16611, 1398, 
dicembre 16; 16616, 1419, maggio 30; 16624, 1461, maggio 14; ASFi, Diplomatico, San Miniato al 
Tedesco, S. Francesco, 1396, luglio 19. 





73 


Francesco Salvestrini 





zioni patrimoniali o finanziarie che coinvolgevano a vario titolo anche la comu- 
nità regolare"8. 

Riguardo alla seconda metà del Trecento, un numero consistente di atti non 
direttamente pertinenti al convento riguarda la famiglia di Guidotto del fu Car- 
duccio, personaggio che forse ebbe una qualche relazione con la societas religio- 
sa‘; mentre una quietanza chiama in causa Iacopo del fu Cortuccio, di cui sap- 
piamo che tra anni Sessanta e Settanta del Trecento era un cospicuo proprietario 
fondiario e di bestiame ceduto in soccida?°. Analogamente per la fine del secolo 
successivo abbiamo due carte che si riferiscono a Pasquale di Guidone del vicaria- 
to di Firenzuola e a suoi consorti”. 

Le relazioni tra i frati e i fedeli si andarono col tempo intensificando in virtù 
del fatto che, come ha sottolineato Paolo Morelli, quella dei Francescani era Pu- 
nica grande chiesa cittadina non parrocchiale, ossia la sola, oltre alla pieve, che 
potesse essere percepita dalla popolazione come aperta all'intera cittadinanza e 
non unicamente ad una parte di essa; un ruolo che l'eredità della tradizione li- 
turgica connessa al culto di Miniato senza dubbio accentuava??. Dimostra questo 
rilievo anche l’esistenza, almeno dal 1320, di una fraternita laicale legata al con- 
vento e dedicata alla Santa Croce; fraternita cui in seguito si affiancarono quelle 
dell'Assunta e di San Ludovico, e che si accompagnò alle associazioni promosse 
dai Domenicani, dagli agostiniani e dai padri umiliati”. 

Vanno inseriti in tale contesto di relazioni alcuni testamenti come quello del 
già ricordato notaio, mercante e prestatore Michele di Bindo della famiglia Por- 
tigiani, il quale nel 1338 lasciò vari beni agli istituti religiosi della cittadina, con 
particolare attenzione proprio per i francescani”; aggiungendo che se fosse rima- 
sto privo di eredi maschi, un suo pezzo di terra avrebbe dovuto essere destinato 
all’ edificazione di un chiostro situato entro il castello per le monache di santa 
Chiara, chiostro che fu in seguito effettivamente costruito da alcune discendenti 
dell’uomo e dedicato a San Paolo”. Il legame di Michele coi frati dal saio marro- 
ne doveva essere dovuto a contatti ben radicati e destinati a durare nel tempo tra 
i religiosi e la famiglia Portigiani, come evidenzia la presenza di alcuni membri 
della consorteria tra le file dei frati durante quegli stessi anni, primo fra tutto 
Marcovaldo Portigiani, ministro dei Minori toscani dal 1397 al 1402”. 





48. NV, 16606, 1372, marzo 12; 16613, 1405, novembre 3; 16614, 1408, novembre 11; 16617, 
1432, gennaio 29; 16620, 1450, febbraio 27; 16621, 1449, agosto 16; 16623, 1460, marzo 15; 16626, 
1482, ottobre 19. Cfr. anche i documenti editi da Cadonici 2011. 

4°. SFSM, 1350 o 51, maggio 6; 1350 o 51, maggio 20; 1350 o 51, agosto 14; 1350 o 51, agosto 
17; 1350 o 51, agosto 18. 

5 Ivi, 1373, dicembre 24; cfr. Mazzoni 2017, p. 63. 

5! SFSM, 1489, novembre 10; 1489, dicembre 28. 

9. Morelli 1995b, pp. 21-22. 

5 Cfr. nota 41 e ASFi, Notarile antecosimiano, 3818, cc. 2v-3v, 1320, ottobre 16; Repetti 
1843-1972, V, p. 94; Comune di San Miniato, Guida generale 1992, pp. 139-140; Benvenuti 2003, 
pp. 25-28; Cadonici 2011, doc. n. 14, pp. 202-205. 

5 ASFi, Notarile antecosimiano, 7640, cc. 5v-12r (1338, luglio 5, st. com.). Cfr. Mori 1992. 

5. Cfr. ASFi, DCS, 1536, ottobre 16; Ducci - Badalassi 1999, pp. 50-51; Gagliardi - Campigli 
2014, p. 102; Mazzoni 2017, pp. 87-88. Sugli stretti rapporti tra i Mendicanti e gli usurai cfr. Little 
1978, pp. 178-217. 

5 Cfr. Papini 1797, I, p. 43. 


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Per una storia religiosa e sociale della città di San Miniato dalle pergamene inedite 
dal convento di San Francesco (secoli XIII-XV) 





Queste ultime considerazioni ci portano ad affrontare il tema delle relazioni 
tra i Minori e l'élite socio-politica di San Miniato in età comunale. Le famiglie 
eminenti, che spesso estendevano il loro patronato alle chiese dei benedettini 
e ai capitoli delle collegiate, non manifestavano lo stesso tipo di interesse per i 
conventi mendicanti, i cui religiosi spesso si allontanavano dalle loro sedi e non 
erano necessariamente espressione del notabilato locale. Vi era poi la questione 
della povertà, intesa come rinuncia ad ogni forma giuridica di proprietà (almeno 
fino agli anni Trenta del Trecento), che modificava le modalità di cessione dei 
beni in donazione o lascito (fra i testamenti del secolo XIV conservati presso 
l’Archivio Storico Diocesano di Pisa solo due riguardano l’attribuzione di posses- 
si fondiari). 

Tuttavia, se anche era più difficile stabilire relazioni personali, molto meno 
lo era rapportarsi all’istituzione. I frati si muovevano, ma il convento restava, e 
la mobilità dei consacrati offriva ai potenti laici l'opportunità di allargare le reti 
di relazioni ben al di fuori della di compagine cittadina. Per questo motivo, 
come mostra la raccolta di ultime volontà edita da Luca Cadonici, fra 1341 e 
1400 i Francescani ricevettero emolumenti monetari, beni di consumo, arredi, 
indumenti e altri tessuti da rielaborare per la fabbricazione di paramenti sacri, 
nonché somme di denaro ricavate dalla vendita delle sostanze appartenute a vari 
beneficiari e finalizzate all'acquisto di ceri, al pagamento di messe in suffragio o 
alla costruzione di cappelle lino della chiesa?8. 

Tutte le più importanti famiglie della San Miniato due-trecentesca, come i 
Gucci (1342), i Roffia (1348), i Guidotti, e infine i Ciccioni e i Mangiadori, che 
a lungo si contesero il controllo politico del comune, ebbero contatti col conven- 
to dei Minori”. Ricordiamo, fra molti altri, Manno del fu Corsesco dei Tobertelli 
e Berto del fu Gugliemo dei Ciccioni, che nel 1314 elessero la chiesa a propria 
sepoltura®; oppure messer Iacopo Mangiadori, il quale nel 1316 venne interrato 
in tale tempio cum abitu dictorum fratrum®. Analoghe scelte compirono alcuni 
forestieri di spicco: nel 1306 Nerlo de’ Nerli, fiorentino morto in carica a San Mi- 
niato come podestà, fu tumulato presso i Minori. Otto anni dopo sappiamo che 
un altro fiorentino, Corso di Forese degli Adimari, uno dei Bianchi condannati 
ed esiliati da Carlo di Valois nel 1302, deceduto a San Miniato venne tumulato 


57. Cadonici 2011, docc. nn. 2 e 6, pp. 182-183, 188-189. 

8. Cfr. ivi. 

Sulle due schiatte sanminiatesi cfr. San Miniato (PI), Archivio della Curia Vescovile, 49, Carte 
varie di mons. Torello Pierazzi, Vescovo, Elenco degli uomini illustri di S. Miniato, sec. XIX, pp. 13-14, 
20-21, 36-37; Malvolti 1993, pp. 135-136; Dizionario Biografico dei Sanminiatesi 2001, pp. 85-87, 
175, 177-180; Salvestrini 2007a; Salvestrini 2007b; Salvestrini 2007c; Mazzoni 2010; Mazzoni 2011, 
pp. 223-253; Mazzoni 2017, pp. 166-172. Sulla loro situazione patrimoniale Salvestrini 1992, pp. 
126-127. Per i testamenti da essi lasciati in favore dei Minori cfr. Cadonici 2011, docc. nn. 2, 8, 20, pp. 
182-183, 192-193, 216-217. 

6 Giovanni di Lemmo 2008, pp. 38-39. 

6! Ivi, p. 66. Su di lui Mazzoni 2017, p. 123. Un atto riguardante beni acquisiti da Bindaccino 
del fu Forteguerra dei Mangiadori è conservato fra i munimina del convento (SFSM, 1326, ottobre 
17). Sulla diffusa abitudine di farsi seppellire con l’abito francescano cfr. Cadonici 2011. 

6. Giovanni di Lemmo 2008, p. 12. 


75 


Francesco Salvestrini 





in San Francesco. 

Solo i Domenicani, dal primo Trecento, costituirono per i fedeli una altrettan- 
to valida alternativa ai Minori. Lo mostra, ad esempio, il testamento di Barduccio 
di Lambertuccio Ciccioni, che lasciò alla chiesa dei Santi Jacopo e Lucia una 
somma di denaro da destinare alla realizzazione di un polittico per la cappella 
di famiglia costruita all’interno della medesima (1364); oppure la vicenda del 
mercante Bindo di Vanni, che negli anni Settanta del Trecento, in quanto credi- 
tore di questi frati, chiese e ottenne di essere accolto nel cimitero del convento 
(sua chiesa parrocchiale), nonostante la fama di usuraio; una scelta destinata ad 
accendere un lungo e ben documentato contenzioso tra i Predicatori di San Mi- 
niato e il presule lucchese. 


Le buone relazioni col ceto dirigente si traducevano in ottimi rapporti con le 
istituzioni comunali, sebbene non mancassero i momenti di tensione. Lo eviden- 
zia l'atto con cui all’inizio del Trecento Napoleone, cardinale diacono del titolo di 
Sant'Adriano e legato pontificio, liberava il municipio sanminiatese dall’interdet- 
to scagliato poco tempo prima a causa di alcuni statuti ledenti la libertà ecclesia- 
stica (quedam pernitiosa statuta fecerant contra clericos et ecclesiasticam libertatem); 
documento il cui destinatario, riconosciuto come mediatore fra la Santa Sede e il 
comune, era il padre guardiano dei Minori. 

Gli statuti municipali del 1337 stabilivano che il volume dei privilegi e diritti 
del comune (privilegia, iura et iurisditiones), il liber matricule iudicum et notario- 
rum, la borsa contenente i nomi dei notai eleggibili all'ufficio della curia delle 
cause civili, ed una delle tre copie del libro del badi dovessero essere conservati 
presso il convento dei Minori”. Il codice sanciva anche che il priore e il guardia- 
no dei Francescani avrebbero eletto, unitamente al capitano del Popolo, gli operai 
incaricati di realizzare i nuovi pozzi della città*8. 

Nella lista dei religiosi cui le autorità civili riservavano un contributo i Mino- 
ri figuravano al primo posto, ottenendo la più articolata e ricca forma di aiuto 
materiale. Si prevedeva, infatti, il versamento in loro favore ogni mese di agosto 
di 100 libre destinate alla confezione dei sai e all’assolvimento di altre necessità; 
nonché ogni dicembre di 30 libre per legno, olio ed altri approvvigionamenti; 
oltre ad ulteriori 20 libre in aprile per il grano, e unitamente a tutto il letame 
del palazzo pubblico destinato alla concimazione dell'orto (anche a sottolineare, 
da questo particolarissimo ma molto utile punto di vista, il legame tra i frati e le 





8 Ivi, p. 44. Per i lasciti in favore del convento da parte di alcuni membri della famiglia Peruzzi, 


altri maggiorenti fiorentini che scelsero di farsi seppellire a San Miniato, cfr. Cadonici 2011, doc. n. 12, 
pp. 199-200. 

“í ASFi, Diplomatico, San Miniato al Tedesco, S. Iacopo, 1363, luglio 4. Cfr. anche Tognetti 
1995, pp. 82-103. 

6 Frati e usurai 2001. 

6 SFSM, 1307, settembre 15. Su questo tipo di mediazione offerto dai Mendicanti cfr. Vauchez 
2005, p. 173. 

9 E in effetti l'estratto di un registro di cause civili compare in NV, 1661, 1341 o 42, novembre 
19. Cfr. anche ivi, 16605, 1369 o 70, settembre 16; settembre 27; novembre 26. 

6 Statuti del Comune 1994, I, VIII, p. 76; I, XXIII p. 100; II, VIII<IX>, p. 135; II, <XX>, 
pp. 244-245; IV, 75<78>, p. 366. 


76 


Per una storia religiosa e sociale della città di San Miniato dalle pergamene inedite 
dal convento di San Francesco (secoli XIII-XV) 





pubbliche istituzioni). Nessun'altra comunità religiosa riceveva altrettanto. 

Anche negli anni successivi alla conquista fiorentina di San Miniato i Fran- 
cescani ebbero il compito di conservare una parte della documentazione del 
governo secolare, come ad esempio alcune sentenze pronunciate dal vicario del 
Valdarno”. 

Sempre sulla scia degli ottimi rapporti tra il comune e il convento, vediamo 
che i frati avevano una carta del 1342 o 43 contenente copia di una deliberazione 
del consilium Populi et custodie in base alla quale le magistrature estendevano la 
loro protezione al convento e vietavano l'edificazione di nuovi edifici a confine 
con quelli dei Francescani, prevedendo forti limitazioni anche ai lavori che po- 
tevano eseguire le persone titolari di immobili posti a lato di essi”. Una più tar- 
da deliberazione risalente al 1382, e quindi posteriore alla conquista fiorentina, 
avanzata e approvata nella chiesa di San Francesco da tre cives honorabiles floren- 
tinos reformatores comunis terre Sancti Miniatis, imponeva il rispetto delle festività 
religiose dell’Immacolata e di san Miniato, confermando che la seconda dovesse 
essere celebrata presso la chiesa dei Francescani, alla quale artifices cunctarum 
artium avrebbero recato le loro offerte”. Tra le carte troviamo anche un atto del 
1365 contenente il decreto di Ludovico da Bologna, giudice, priore e capitano di 
San Miniato, riguardante una vertenza fra alcuni abitanti della cittadina”. 

Aggiungiamo che lo statuto del 1337, laddove vietava, durante un periodo di 
difficili relazioni fra San Miniato e Lucca, a chiunque abitasse a San Miniato o nel 
suo distretto e non fosse suppositus iurisdictioni dicti comunis di recarsi nella città 
del Volto Santo, faceva eccezione per tutti i regolari, sottolineando soprattutto 
l'esenzione dei frati minori”. 


Riguardo al numero e alle attività dei religiosi ospitati nel convento, le notizie 
offerte dalle fonti non sono numerose, ma appaiono interessanti. Le carte rife- 
riscono, infatti, che nel novembre 1400 Francesco, cardinale prete del titolo di 
Santa Susanna, protettore generale dell'Ordine dei frati minori e di santa Chiara, 
incaricava frate Marcovaldo, provinciale di Toscana, di riformare il monastero 
di clarisse di San Matteo in Arcetri, presso Firenze, e poi di visitare i frati del 
Terz Ordine utriusque sexus dell'intera circoscrizione; un atto che mostra come 
in tale operazione anche il convento sanminiatese fosse stato in qualche modo 
coinvolto”?. 

Non conosciamo il numero medio dei religiosi viventi in San Francesco. 
Sappiamo, però, che durante la seconda metà a Quattrocento il capitolo del 
convento, ufficialmente convocato per la cessione di un fondo in enfiteusi, era 
composto da 3 membri. Nel 1545 sottoscrivevano una concessione livellaria 8 


© Ivi, IV, 85<89>, p. 377. Solo i Domenicani ricevevano 150 libre, ma senza nessun altro beneficio. 


70 NY, 16615, 1409, luglio 22; 16618, 1435, marzo 14. 

7 SFSM, 1342 o 43, aprile 8. 

72 Ivi, 1382, agosto 23. 

73 Ivi, 1365 o 66, novembre 3. 

7 Et predicta non intelligantur de fratribus minorum vel aliis religiosis ordinis abbrobati 
(Statuti del Comune 1994, V, 15<16>, p. 422). 

7. SFSM, 1400, novembre 15; 1400, febbraio 16. 


77 


Francesco Salvestrini 





confratelli”. Il numero medio deve essersi attestato nel Quattrocento sulle 10 
unità, come per la comunità domenicana di San Jacopo”. 

Nulla traspare dai documenti in merito alle conseguenze che per l’insediamen- 
to minorita ebbe la conquista di San Miniato da parte dei fiorentini”. Sembra, 
però, di capire che i religiosi si siano rapportati immediatamente ed utilmente ai 
nuovi dominatori, soprattutto dopo i difficili anni della cosiddetta Guerra degli 
Otto Santi (1375-78) che oppose l’ultimo papa avignonese, Gregorio XI, al co- 
mune gigliato, e portò la città colpita da interdetto a confiscare i beni degli enti 
religiosi compresi nel proprio territorio, considerato il rilievo che ancora durante 
il primo e pieno Quattrocento il convento sanminiatese rivestiva nella realtà lo- 
cale e nei rapporti coi vicari fiorentini del Valdarno”. 


Quali conclusioni possiamo trarre da questo primo e cursorio esame delle 
carte pertinenti al convento di San Francesco in San Miniato? Appare evidente 
che la lunga storia di tale importante insediamento è rimasta affidata ad un nu- 
mero tutto sommato esiguo di pergamene, che si riferiscono principalmente alle 
relazioni intessute dai frati con la Sede Apostolica, il comune di San Miniato e 
gli abitanti della cittadina, a partire dalle fimiglie eminenti e dal ceto dirigente. 

I Francescani costituirono una presenza importante e ininterrotta fra il XIII 
secolo e l’età moderna, e intercettarono, a San Miniato come altrove, le istanze 
religiose della popolazione®®. A questo riguardo possiamo, però, osservare che se 
nel corso del Duecento e del primo Trecento i contatti coi fedeli furono molto 
intensi, complici il ruolo di deposito memoriale delle antiche origini cittadine 
rivestito dal convento e la natura di quest'ultimo quale chiesa non parrocchiale 
aperta all’intera cittadinanza, a partire grosso modo dalla metà del XIV secolo 
tale funzione sembra essere scemata per concentrarsi sulle relazioni con alcune 
schiatte più facoltose, destinate anche a collocare loro membri tra le fine dell’Or- 
dine minoritico. Colpisce, infatti, apparente estraneità dei Francescani al moto 
dei Bianchi che sul finire del Trecento raggiunse il territorio di San Miniato, 
si coagulò intorno alla devozione per la Madonna custodita dai frati umiliati 
nel locale santuario di Cigoli, ed espresse il culto per il crocifisso ligneo di tipo 
lucchese ancora oggi venerato nella cittadina valdarnese entro uno scenografico 
tempio barocco ja congiunge spazialmente l’arce federiciana all'antico palazzo 
del comune®!. 

In ogni caso i Minori, depositari per tradizione dell’antico luogo di culto 
dedicato al martire Miniato, custodirono forse più di ogni altro istituto religioso 
locale, ivi compresa la pieve erede soprattutto della battesimale di San Genesio, la 
memoria dell'identità sanminiatese. Del resto se la primaziale di Santa Maria, per 





76 ASFi, DCS, 1476, ottobre 21; NV, 16619, 1545, agosto 15. 

7 Sulla quale cfr. ASFi, Catasto, 198, c. 496r. 

78. Riguardo agli eventi del periodo cfr. Salvestrini 2000; Mazzoni - Salvestrini 1999; Salvestrini 
2008, pp. 262-264. 

79. Cfr. Peterson 2002. 

80 Un libro di conti relativo agli anni 1567-1574; quietanze di pagamenti e ricevute, soprattutto 
del XVIII secolo; e quaderni di entrata e uscita (1899-1925) concernenti il convento si conservano in 
AOSC, M7 (697); M8 (683); M9 (698); M10 (699). 

8! Cfr. Benvenuti 2018, p. 11. 


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Per una storia religiosa e sociale della città di San Miniato dalle pergamene inedite 
dal convento di San Francesco (secoli XILI-XV) 





la sua stessa collocazione spaziale (terziere di Castelvecchio), esprimeva soprattut- 
to i rapporti tra la fede locale e l’aristocrazia cittadina emersa dalle relazioni coi 
legati imperiali per lungo tempo presenti fra le mura del castello, San Francesco 
si configurò fin dagli inizi come il tempio di ‘tutti’ i sanminiatesi; testimone di un 
vetusto passato costituito dal ricordo del martire tardoantico, e della nuova epo- 
ca segnata dal poverello d'Assisi; nonché emblema pregnante dell'intera vicenda 


storica di San Miniato in quanto espressione del suo popolo e del ruolo svolto 
dalla sua Chiesa®. 


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8. Ad evidenziare l’importanza del convento per i sanminiatesi fino all’età contemporanea richia- 


mo la bella Relazione dell'epoca bellica in S. Miniato e delle sue tristi conseguenze in S. Francesco, 
stilata da frate Vincenzo Fredianelli, guardiano del convento, nel 1945 (SM7, ins. 3). 


79 


Francesco Salvestrini 





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83 


Ancora su ‘Chaterina’, madre di Leonardo da Vinci 





MARIO BRUSCHI 


a Carlo Pedretti 
Maestro indimenticabile 


“Una delle più affascinanti figure materne della storia dell'umanità”. Così scri- 
veva Elisabetta Ulivi, nel 2009, circa la “Chaterina mater”!. Giustamente. Tut- 
tavia, nonostante la indiscutibile rilevanza, per secoli essa è rimasta dimenticata, 
sconosciuta e misteriosa. 

Eppure la sua agognata conoscenza non rimane semplicemente una pura cu- 
riosità anagrafica ma interessa sopra ogni cosa poiché fu la madre di Leonardo, 
“non legiptimo et della Chaterina”. 

“In tempi recentissimi, la questione della ricerca dell’identità e delle origini 
della madre di Leonardo ha ripreso prepotentemente vigore dando luogo a nuovi 
studi. E non deve considerarsi accanita insistenza su minimi dettagli biografi- 
ci; al contrario, potersi almeno avvicinare alla realtà dei fatti riveste importanza 
somma, fondamentale e capitale per la personalità di Leonardo, che, come tutti 
i figli maschi, attinse gran parte delle sue caratteristiche più profonde ed intime 
soprattutto dalla madre ed è facile supporre che non sarebbe stato una “scintilla 
di Dio”, come amo definirlo, se non fosse stato figlio di quella precisa madre”. 





! Cfr. E. Urvi, Sull'identità della madre di Leonardo, in “Bullettino Storico Pistoiese”, 
CXI (2009), p. 25. 

? Cfr. M. BruscHI, La “Chaterina” di Leonardo, in B.S.P., CXII (2010), pp.185-186. 

Gli studiosi più seri ed accreditati hanno via via, nel tempo, ribadito questo concetto, insieme agli 
studi incentrati sulle origini di Leonardo, sul borgo di Vinci, sulla famiglia dei Da Vinci. Infatti, come 
ha scritto Carlo Pedretti: “Per capire Leonardo e la sua arte occorre conoscere il luogo ove nacque” (Cfr. 
Vinci di Leonardo. Storia e memorie, a cura di R. Nanni e E. Testaferrata, Pisa, Pacini ed. 2004, Presen- 
tazione di Carlo Pedretti, p. 8). 

Nel corso dell'Ottocento e nella prima metà del Novecento si ebbe una rinascita e un risveglio per 
le tematiche vinciane. 

Una segnalazione particolare appare doverosa per Gustavo Uzielli (Cfr. E. ULIvi, Per la genealogia 
di Leonardo, a cura di A. Sabato e A. Vezzosi, Firenze 2008, p. 7, nota 2 e Bibliografia (pp. 97-101); E. 
ULIvi, Sull'identità... cit. in nota 1). Pur tuttavia, la figura di Caterina rimane spesso nella penombra, 
come in un sottofondo vago ed incerto, dai contorni indefiniti. 

“Ma la madre di Leonardo — ha scritto ancora Pedretti — per la storia è una realtà documentata. 
Anche se nota col solo nome di Caterina e senza altre precisazioni sulle sue origini, ha sempre dato lim- 
pressione di una semplice contadina o domestica se non addirittura di una sorta di schiava, magari ebrea 
proveniente dalla Russia, come ce n’erano nel contado” (Cfr. M. Bruschi, Abitanti di Vinci in relazione 
con la famiglia di Leonardo nel Cinquecento inoltrato. Nuovi documenti, S. Miniato al Tedesco, Tip. Pa- 
lagini 2001, Presentazione di Carlo Pedretti, p. 12). E si aggiunse: “Secondo la teoria del “bon sangue” 
come indice di nobiltà, sarebbe stata invece una madre “paravento” per proteggere l’identità di quella 


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Mario Bruschi 


Ancora su ‘Chaterina’, madre di Leonardo da Vinci 








Nascita e battesimo di Leonardo 

Il ricordo della nascita e del battesimo di Leonardo, come è ormai noto, si 
deve alla scoperta dello studioso e sacerdote tedesco Emil Möller, avvenuta nel 
1931 e pubblicata nel 1939 in Germania. 

Scritta da Antonio da Vinci, padre di Ser Piero e nonno di Leonardo, si trova- 
va nell'ultima pagina di un registro di protocolli notarili di Ser Guido da Vinci. 
Nella precisa memoria manoscritta del 1452 non vi è cenno alcuno della madre 
del neonato, neppure del suo nome. 

Il Rev. Möller svolse poi approfondite ricerche su tutti i personaggi citati nel 
ricordo, specialmente sui testimoni al battesimo e sul presunto luogo di nascita 
di Leonardo’. 

Amico e confratello di Méller fu don Quirino Giani, parroco a S. Lucia a 
Paterno (nella cui giurisdizione rientrava Anchiano), negli anni Trenta del No- 
vecento. Don Giani fu, pertanto, testimone diretto e privilegiato della scoperta 
fatta nell'Archivio di Stato di Firenze. L'avvenimento fu per lui, ancora più af- 
fascinante poiché sia Leonardo che la famiglia dei Da Vinci erano stati antichi 
parrocchiani della cura religiosa a lui allora affidata. 

E anche don Quirino, con l’entusiasmo del momento e con l’occasione della 
grande mostra per le celebrazioni leonardiane tenuta a Milano nel 1939, scrisse 
alcuni appunti che però non vennero pubblicati. Furono donati alla Biblioteca 
Leonardiana di Vinci nel 1958 dai parenti del sacerdote. 

Hanno visto la luce nel 2006, da me resi notit. Nella Presentazione di que- 
sto studio Carlo Pedretti, sulla vicenda, sottolineò quanto segue: “Scopritore del 


vera, per la quale si è pensato perfino a una Piccolomini, nipote del celebre papa umanista Enea Silvio”.. 
“Se numerose sono le informazioni sui Da Vinci, in particolare quelle inerenti a Ser Piero, ai 
suoi quattro matrimoni ed alla sua discendenza, poche rimangono a tutt'oggi le notizie certe 
su Caterina” (Cfr. E. Ulivi, Sull'identità..., cit. in nota 1, p. 18). 

3 Peri riferimenti bibliografici, cfr. quanto indicato nelle precedenti note. 

4 Cfr. M. BruscHI, “Confini Leonardiani”. Ser Piero e le proprietà dei "Da Vinci’ nella 
parrocchia di S. Lucia a Paterno. Nuovi documenti “con estratti dal Lascito Don Quirino Giani 
della Biblioteca Leonardiana”, Pistoia, Nuova Fag litografica 2006, pp. 5-6, Presentazione di 
Carlo Pedretti. 

Circa Piero d'Andrea, il padre dell’Accattabriga (che sposò Caterina, la madre di Leonardo), 
ho trovato un documento inedito del 1438 che lo ricorda come confinante di un pezzo 
di terra a Vinci, insieme a Giovanni Puccini (BruscHI, Gente di Leonardo, pp. 69-71). 
Nel secolo seguente, nel 1568, compare un discendente di quest'ultimo: Michelagnolo di 
Giovanni Puccini (Ibidem, pp. 135-136). In seguito, nel 1587, gli eredi di Michelagnolo 
Puccini (Ibidem, pp. 101-102). Nel 1438 si specificò G. Puccini “de Pistorio” perché, in 
altra circostanza, Michelagnolo risulta “da Firenze” (p. 136). Un sacerdote pistoiese di questa 
famiglia, Giovan Battista di Francesco Puccini, fu rettore di S. Michele a Buriano, intorno 
al 1640 (Cfr. M. BruscHI, Biografie minime di artisti pistoiesi dal Quattrocento al Seicento, 
Pistoia, Settegiorni ed. 2011, p. 84). Strettissimi legami familiari e patrimoniali fra stirpi 
pistoiesi e fiorentine vengono continuamente confermate. 

Un esempio, a Buriano (nella zona del Montalbano pistoiese): Giulia figliola di Antonio 
Benci, detto il Pollaiolo (proprietario di case, poderi, boschi in questo preciso territorio), 
sposò il pistoiese Domenico Giuntini (Ibidem). 

Nel 1530, in un altro documento finora inedito relativo all eredità di Leonardo, troviamo 
attestato ancora ‘Johannes Puccini de Pistorio’, per i poderi “La Colombaia” e “in Borgo”, di 
proprietà dei ‘da Vinci’, come confinante (Cfr. La vera immagine, p. 250). 


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documento fu il Rev. Dr. Emil Möller (1869-1955), insigne leonardista tedesco 
legato da stretti vincoli di amicizia a Don Quirino Giani (1875-1947), parroco di 
Santa Lucia a Paterno, la chiesa della parrocchia di Anchiano, frazione di Vinci, 
che una tradizione popolare, accertabile almeno a cominciare da metà Ottocen- 
to, indicava come luogo natale di Leonardo. E così il campo si era aperto a due 
opinioni opposte, che le nuove ricerche del Bruschi sembrano ora riproporre: il 
Möller interpretava il documento da lui ritrovato come prova che Leonardo ac- 
colto nella casa di famiglia a Vinci (ove figura in età di cinque anni nella portata 
al catasto del nonno Antonio per l’anno 1457), vi era pure nato e che la madre 
Caterina, come domestica “di buon sangue” — nel senso di donna sana, come 
spiegato recentemente proprio dal Bruschi — era stata pure accolta nella famiglia, 
prima di andare sposa all’Accattabriga di Piero del Vaccha da Vinci, e prima che 
Ser Piero prendesse per moglie l’Albiera di Giovanni Amadori; la tesi della nasci- 
ta di Anchiano veniva invece sostenuta da Don Quirino come fervido assertore 
della validità di una tradizione popolare secondo la quale ragioni di decenza non 
avrebbero consentito che la Caterina si sgravasse nella casa dei Da Vinci in paese 
ma che fosse stata trasferita almeno per l'occasione a una delle case rurali fuori 
paese come poteva essere quella di Anchiano, ma Uzielli nel 1872 aveva già fatto 
notare che la casa di Anchiano non era ancora proprietà dei Da Vinci al tempo 
della nascita di Leonardo, mentre il Bruschi, portando avanti ricerche già intra- 
prese dal meticoloso Renzo Cianchi, conferma ora che possedimenti confinanti 
con quello della casa di Anchiano era già di loro proprietà, per cui resta almeno 
valida la possibilità del temporaneo trasferimento della giovane donna incinta a 
un luogo imprecisato nella parrocchia di Santa Lucia a Paterno”. 

Circa il luogo di nascita e la madre di Leonardo, don Quirino si dilungò nel 
suo scritto dal titolo La terra natia di Leonardo, suddiviso in tre paragrafi: Vinci, 
Anchiano, S. Lucia. 

Estrapoliamo alcuni passi salienti: 

“[...] Man mano che la figura di Leonardo, fatta oggetto di studi sempre più 
diffusi ed appassionati, si ingigantiva, Vinci vide affluire tra le sue mura studiosi 
nazionali e stranieri in devoto pellegrinaggio [...]. E certo, indiscusso, tutti lo 
sanno, che Leonardo nacque a Vinci, ma non tutti sanno che Egli non nacque 
propriamente entro il Paese di Vinci, ma sul Colle d’Anchiano. Ce ne assicura la 
tradizione locale, incontrastata e tramandata fino a noi di padre in figlio. 

Chi, modestamente scrive questi appunti, nacque a Vinci sessantaquattro 
anni fa da famiglia imparentata per parte di donne cogli ultimi superstiti della 
“Famiglia da Vinci”, che qui dimorarono. 

[...] E poiché allora non esistevano ritrovi pubblici, nelle lunghe serate inver- 
nali queste famiglie benestanti per lo più facevano veglia, non troppo protratta, 
intorno al focolare domestico frequentato pure da amici e dipendenti e ben prov- 
visto di ben stagionati ceppi di querce e di cerro. 

[...] Vi si parlava spesso e volentieri anche di Leonardo, delle sue bizzarie e 
di tanti altri avvenimenti locali recenti e lontani. Erano i vecchi che con compia- 
cenza ripetevano ai figli e ai nipoti ciò che essi avevano visto, o risaputo dai loro 
maggiori. 

In famiglie di questo stampo, nonché a mezzo dei propri antenati, anch'essi, 

er parecchie generazioni, nati, vissuti e morti a Vinci, lo scrivente apprese fin da 
cato che Leonardo era nato ad Anchiano, nella casa che allora si diceva del 


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Mario Bruschi 





Biscardi, perché abitata da un contadino di questo cognome, ossia nell’unica casa 
che, sia per caso, sia per rispetto al Grande che vi nacque, tuttora rimane. 

Quindi si scusi, se sindugia nel difendere una tradizione che, per non essere 
suffragata da documenti scritti, potrebbe essere accolta (da qualcuno) con qual- 
che diffidenza. Ma dei documenti scritti non ve ne sono neppure in contrario e 
perciò, fino a prova contraria, l’unico documento attendibile ci è dato dalla testi- 
monianza dei Vincesi e dei loro vicini, i quali sempre e concordemente additaro- 
no ai propri figli e al forestiero in cerca di notizie il Colle e la Casa d’Anchiano 
come o di nascita del loro grande concittadino. 

Del resto è anche naturale ce Leonardo, frutto, com'è risaputo, di una unio- 
ne illegittima, nascesse alla campagna, anziché nel paese di Vinci. E tanto meno 
è credibile che Egli potesse nascere appunto nella casa del padre. 

Infatti, ammesso che la Caterina, la madre di Leonardo, fosse una contadina, 
o una serva dei “da Vinci”, come ritengono quasi tutti i biografi di Leonardo, è 
lecito dedurre che se fu una contadina dovette abitare alla campagna. In Toscana, 
almeno, ogni contadino ebbe ed ha la sua casetta in mezzo al proprio podere e 
non in paese. 

Se fu una serva dei Vinci, essa, verosimilmente dovette essere allontanata da 
quella casa, e forse anche da Vinci, appena resultò che essa stava per divenire 
madre. In casi simili è uso, almeno qui da noi, e tanto più dovette essere in uso a 
quei tempi, che quando non si possa sanare una relazione colpevole, spinta fino 
al punto di avere prole, con un matrimoio affrettato, come generalmente accade, 
si ha cura almeno, per nascondere il più possibile lo scandalo, di allontanare la 
peccatrice, mandandola a sgravarsi in luogo più remoto, o comunque, meno in- 
discreto. Quindi non si può supporre, senza arrecare grave ingiuria a quei buoni 
cristiani che furono Antonio da Vinci e Lucia Zosi da Bacchereto, genitori di 
Ser Piero e nonni di Leonardo, ch'essi abbiano potuto commettere la indecenza 
di trattenere nella loro casa la Caterina fino a parto avvenuto, per allontanarla 
soltanto quando Ser Piero, pochi mesi dopo la nascita del “Bastardo” stava per 
condurvi in moglie un’altra donna, l’Albiera Amadori. 

Così, o presso a poco, si potrebbe ragionare anche nel caso che la Caterina 
fosse stata la donna “di buon sangue” voluta dall’ Anonimo Gaddiano. 

Per raggiungere da Vinci il Colle di Anchiano, si segue per circa un chilome- 
tro la via provinciale per Pistoia, e quando questa volge decisamente a sinistra, si 
lascia e si prosegue dritti per la via comunale, che salendo notevolmente fra due 
file di grandiose piante di olivo, conduce prima alla vetusta Villa del Ferrale e di 
lì ad Anchiano. Vi saremo giunti quando sulla destra della strada fattasi piana 
incontreremo un piccolo tabernacolo racchiudente una Madonnina e, alquanto 
più elevata e sempre a destra, vedremo una casa colonica alla quale si accede me- 
diante una breve rampa. 

È precisamente questa la casa che, nella primavera del 1452, udì il primo vagi- 
to ui neonato, cui Dio inspirò in faccia più potente il soffio della vita, il vagito, 
cioè, del figlio naturale di Ser Piero da Vinci e della Caterina, battezzato a Vinci 
poi con il nome di Leonardo. 

Ma altre case sorgevano ad Anchiano quando Leonardo vi nacque. Infatti 
nell’inventario dell’atto di divisione tra i figli di Ser Piero da Vinci sono enume- 
rati anche i seguenti possessi, comperati da lui in Anchiano posteriormente alla 
nascita del Figlio illegittimo. E cioè: 


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Ancora su ‘Chaterina’, madre di Leonardo da Vinci 





Un poderetto con casa da lavoratore quasi rovinata e con casa da oste prin- 
cipiata, con più pezzi di terra, nel popolo di S. Lucia a Paterno, in luogo detto 
Anchiano. 

Un altro poderetto con una casaccia da lavoratore, nello stesso popolo e co- 
mune di Vinci luogo detto Anchiano. 

Ora è certo che se la prima di questa era quasi rovinata e l’altra casa era vera- 
mente una casaccia, ambedue dovevano rimontare almeno all’epoca della nascita 
di Leonardo [...]”?. 

Si potrà obiettare che si tratta in gran parte di tradizione popolare traman- 
data in maniera orale. Ma la tradizione non si origina mai dal nulla; un nucleo 
di verità esiste sempre. Riteniamo quindi che quanto scritto da Don Quirino 
Giani sia da tenere nel dovuto rilievo anche per i motivi sopra evidenziati (come 
le conoscenze della famiglia Giani imparentata con i Da Vinci e che dimorò 
proprio ad Anchiano). Le risultanze documentarie e le ricerche d’archivio inedite 
svelate negli ultimissimi tempi sembrano confermare puntualmente particolari e 
dati perpetuati per generazioni e generazioni (come, ad esempio, per il luogo di 
nascita di Leonardo, per i testimoni del battesimo e per altri)°. 


‘Chaterina mater’ negli studi più recenti 

Fu Renzo Cianchi, circa mezzo secolo fa, che si prodigò con grande impegno 
ad indagare, soprattutto nel Catasto dell Archivio di Stato di Firenze, alla ricerca 
di una ‘Chaterina’ compatibile come madre naturale di Leonardo”. 





5 Cfr. BruscHI, “Confini Leonardiani”, pp. 48, 49, 50, 51, 52. Per rapporti di parentela 
fra esponenti della famiglia Giani con gli ultimi rampolli dei Da Vinci, cfr. M. BruscHI, 
Intrecci vinciani. Erudizione leonardiana dalle carte di Enrico Bindi e gli ultimi ‘da Vinci’, in 
B.S.P., CX, 2008, pp. 119-120, note 42, 45. Anche BruscHi, Confini Leonardiani, p. 29, 
nota 52. 

6 Oltre a M. BruscHI, Abitanti... (cit. in nota 2), M. BruscHI, Confini... (cit. in nota 4), 
M. BruscHI, Intrecci... (cit. in nota 5), cfr. M. BruscHI, La fede battesimale di Leonardo. 
Ricerche in corso e altri documenti: Vinci e Anchiano, in “Achademia Leonardi Vinci”, vol. X 
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A. Mavvorti, Alla ricerca di Piero di Malvolto. Note sui testimoni del battesimo di Leonardo da 
Vinci, in “Erba d'Arno”, n. 141-142 (2015), pp. 37-60. 

In BruscHI, La fede battesimale (1997), appena citata, è stata resa nota una lettera ‘mutilata 
del 1857, scritta da Ferdinando Visconti, parroco di Vinci. Scoperta dal sottoscritto, era una 
responsiva a Mons. Giovanni Breschi, vicario generale della diocesi pistoiese del tempo. Lo 
storico Carlo Milanesi, proprio in quell’anno si adoperò presso Cesare Guasti per ottenere la 
‘fede battesimale’ di Leonardo che si credeva ritrovata da Breschi. Alla metà dell’ Ottocento 
esistevano presso Vinci ancora gli ultimi discendenti della famiglia di Leonardo e possedevano 
documenti originali del grande genio, riportati in Italia dalla Francia. In essi vi era pure il 
testamento del Maestro. La lettera del parroco Visconti di Vinci, tagliata nella parte terminale 
delle due facciate, poteva contenere notizie, forse, di importanza straordinaria per la biografia 
di Leonardo, compresa la nascita, i genitori e altro, recuperate dalla famiglia dei ‘Da Vinci’ 
presente in quel territorio (cfr. BruscHI, La fede, pp. 26-27). 

7 Cfr. R. CrancHI, Ricerche e documenti sulla madre di Leonardo, Firenze, Giunti- 
Barbèra 1975. Altri studi di Cianchi in ULIvi, Per la genealogia, cit. in nota 2, p. 98. Per 


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Mario Bruschi 





Ne individuò in particolare una che rispondeva a vari requisiti ma poi, rin- 
venendo un documento con una ‘Chaterina schiava’, si concentrò del tutto su 
quella figura, ritenendola come una delle ipotesi più probabili. Rimasero quindi 
in campo, come maggiori indiziate, la giovane Caterina del contado di Vinci e 
l’altra omonima qualificata con quella precisa condizione (sclava). 

Dopo qualche decennio, Francesco Cianchi, figlio di Renzo, tornò brevemen- 
te sull'argomento avvalorando vieppiù l’ipotesi della schiava8. Nell’introduzione 
a un suo volumetto Carlo Pedretti scrisse che “l’identità di Caterina, la madre, è 
un problema essenziale nella biografia di Leonardo”?. 

Nell’ipotesi della schiava, Cianchi fu affiancato e sostenuto anche da Alessan- 
dro Vezzosi e Agnese Sabato". 

Poi, nel giro degli stessi anni (dal 2007 al 2010), sono stati resi noti lavori di 
ricerca nelle fonti na da parte di Mario Bruschi e di Elisabetta Ulivi!!, 
dei quali si parlerà in maniera dettagliata più avanti. 

Riguardo a Caterina, lo studioso e biografo Carlo Vecce ha scritto: “In fondo, 
nonostante tutti i documenti che l’erudizione dei biografi ha saputo raccogliere 
sulla famiglia di Campo Zeppi, continuiamo a non sapere nulla di Caterina. 
Qual era il suo vero cognome? Donde veniva? Se era realmente figlia di contadini, 
e se era una bella ragazza, perché a venticinque anni (quando partorì Leonardo) 
non era ancora sposata? Probabilmente non era di Vinci [...]”!?. 

Circa la celebre dichiarazione fiscale contenuta nella Portata al Catasto di Fi- 
renze rilasciata da Antonio da Vinci nel 1458 (...Lionardo, figluolo di detto Ser 
Piero, non legiptimo, nato di lui et della Chaterina, al presente donna d'Achatta- 
brigha di Piero del Vaccha da Vinci, d'anni 5°) Marco Cursi ha affermato: “Le 
ultime righe di questo testo sono di straordinaria importanza per la ricostruzione 
della biografia vinciana. Leonardo viene definito “non legiptimo”, specificando 
che era nato da una relazione che il padre Piero aveva avuto con una certa “Cha- 
terina”. 

Intorno alla identità di questa ragazza resta un fitto mistero: l’ipotesi più cre- 
dibile è che fosse una contadina di Vinci o di qualche paese vicino, anche se non 
è da sottovalutare la notizia fornita da uno dei più antichi biografi leonardeschi, 


ulteriori lavori di R. Cianchi, e in particolare sulla casa natale di Leonardo, cfr. G. MUGNAINI, 
Contributo a una bibliografia sui Comuni della Toscana. I Comuni della Provincia di Firenze. 
Il (Vinci), a cura di G. Lazzeri, Leo S. Olschki, Firenze 2007, pp. 697-698. 

s Cfr. F CrancHI, La madre di Leonardo era una schiava?, a cura di A. Sabato e A. Vez- 
zosi, Vinci 2008. 

° Ibidem p. 8. 

10 Cfr. Leonardo. Mito e verità, a cura di A. Vezzosi e A. Sabato, Vinci 2006, p. 15, 19, 
40. Di indubbio interesse A. Vezzosi-A. SABATO, I DIVA di Leonardo. Le origini, Firenze, 
Pontecorboli ed. 2018, dove si documentano i viaggi e i rapporti mercantili di Antonio da 
Vinci, nonno di Leonardo, con la Spagna e il Marocco. 

Cfr. Urvi, Per la genealogia, cit. in nota 2; ULIvi, Sull'identità della madre, cit. in nota 
1; Bruscui, / ‘Da Vinci’ e le loro terre. Papino di Buto e Ser Piero a Anchiano, in B.S.P., CIX, 
2007, pp- 141-150; BruscHi, Abitanti di Vinci, cit. in nota 2; BruscHI, La ‘Chaterina’, cit. 
in nota 2. 

Cfr. C.Vecce, Leonardo, Roma, Salerno ed. 2006, 22 ed., p. 30. Cenni su Caterina 
si trovano anche in Vinci di Leonardo. Storia e memorie, a cura di R. Nanni e E. Testaferrata, 
Pacini ed., 2004, ad indicem. 


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Ancora su ‘Chatering, madre di Leonardo da Vinci 





il cosiddetto Anonimo Gaddiano, secondo il quale artista per madre era nato di 
bon sangue...” ®?. 


* 


Possiamo a questo punto tornare, quindi, come detto sopra, al minuzioso, 
estesissimo e capillare lavoro di spoglio di dati archivistici effettuato da Ulivi 
nel 2009. La studiosa ha condotto l'indagine nelle filze del Catasto di Vinci e del 
Notarile Antecosimiano dell Archivio di Stato di Firenze!'. Un certo numero del 
Catasto di Vinci era già stato visto e utilizzato da Renzo Cianchi. 

Requisito fondamentale e indispensabile sarebbe stato poter conoscere l’età, 
o meglio la sicura affidabilità di questa lasciata scritta nei pochi ricordi docu- 
mentari di ‘Chaterina’, presunta madre di Leonardo, ma, soprattutto, particolare 
importantissimo, capitale e decisivo sarebbe stata l'attestazione del patronimico 
della donna. Tali conoscenze avrebbero permesso una identificazione, attraverso 
riscontri cronologici e familiari, no certa di questa non comune e miste- 
riosa figura femminile. 

Come è noto, la prima menzione scritta di “Chaterina’ risale al 1458, quali- 
ficata soltanto come moglie (“donna”) dell’Accattabriga, col solo nome proprio 
(senza età e senza patronimico) e come madre di Leonardo (all’epoca di 5 anni). 

Alcuni ricordi nelle Portate catastali dell’Accattabriga del 1459 e del 1487. In 
quest'ultima si attestò: “Monna Catterina donna d’Antonio d’ettà d’anni 60”. 

Prendendo alla lettera questo dato cronico si è, di conseguenza, calcolata la 
sua nascita intorno al 1427. Alla venuta al mondo di Leonardo, nel 1452, essa 
avrebbe avuto un'età intorno al 24-25 anni!°, gli stessi di Ser Piero. 

Ancora un ricordo di mano del figliolo Leonardo “in un appunto del Codice 
Atlantico, forse un abbozzo di lettera che Leonardo scrisse in una data imprecisata 
tra il 1473 ed il 1487-88 e comunque anteriore al luglio del 1493” (“... e ssap- 
pimi dire se la Chaterina vuole fare...”)!. Infine un altro del 1493 (“...Catelina 
venne a dì 16 di luglio 1493...°!5 e l’ultimo, famoso, con la nota di “spese per la 
socteratura di Caterina”, probabilmente verso il 1494-95”. 

Quasi tutti gli studiosi concordano nel ritenere la ‘Chaterina’ morta intorno 
al 1494 presso Leonardo a Milano come sua madre. Fra le altre, riportiamo le 
osservazioni di Ulivi: “Difficile pensare ad una semplice conoscente, ad un'ospite, 


3 Cfr. M. Cursi, Lo specchio di Leonardo, Bologna, Il Mulino 2020, pp. 41-42. 

14 Per l'esattezza, del Catasto, le filze 796, 795, 1052, 750, 871, 558, 132, 75, 76, 671, 
1130. Del Notarile le Filze 1159, 7399, 317, 318, 386, 687, 751, 4346, 6252, 6253, 7527, 
8342, 8776, 11540, 8839, 11845, 15129, 12716, 16824, 16830, 20440, 12174, 12176, 
12175, 4849, 3455, 6173, 6175, 16972, 3475, 6174, 6176, 3458. 

5 Cianchi, nel 1975, dette conto delle sue esplorazioni archivistiche (Ricerche sulla 
madre...) citando Le filze del Catasto n. 871, 651, 558, 1427, 1430, 1460, 1052, 1060, 907, 
795, 750, 1172, 132, 796, 909, 1130. Del Notarile citò il n. 2793 e il D-74. Come risulta 
dalla precedente nota 14, Ulivi ha di nuovo riutilizzato le filze 871, 558, 1052, 750, 132, 
796, 1130 del Catasto scorse da Cianchi. 

!6 Cfr. BruscHI, / ‘da Vinci’, cit. in nota 6, pp. 147-148. 

7 Cfr. Urvi, Sull'identità, p. 22. 

8. Ibidem. 

! Ibidem, pp. 23-24. 


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Mario Bruschi 





o ad una domestica che Leonardo avrebbe fatto venire da Firenze, una donna che 
morirà poco dopo e per la quale l’artista pagò il medico e le spese per la sepoltura, 
annotandole, si è detto freddamente, ma pur sempre minuziosamente, nei suoi 
scritti. 

Molto più ragionevole supporre invece che si trattasse proprio della madre di 
Leonardo, che, rimasta vedova, avrebbe raggiunto il figlio a Milano nel 1493, e 
che quindi ammalatasi di febbre terzana, sarebbe deceduta un anno dopo, nono- 
stante le cure mediche, e sepolta il 26 giugno 1494”?0, 

La scoperta della morte della ‘Chaterina’ milanese si deve a Edoardo Villata. 
In un registro del Fondo Popolazione dell Archivio di Stato di Milano, insieme alla 
memoria di altri defunti, si legge: “Catharina de Florenzia annorum 60, a febre 
terzana [...] decessit”. 

La discrepanza cronologica con la Portata del 1487, quando Caterina moglie 
dell’Accattabriga viene “denunciata” con anni ugualmente 60, balza subito evi- 
dente”. E stato ripetutamente ribadito che le età riportate nei Catasti sovente 
non sono da ritenere attendibili sic et simpliciter, come hanno potuto constatare 
gli studiosi che hanno utilizzati tali fonti”. 

I divari registrati, le approssimazioni e gli errori di varia natura appaiono tal- 
volta anche piuttosto vistosi. Nel caso della Caterina milanese: chi aveva fornito 
l'età? Non certo la defunta. Chi poteva conoscere questa donna, e la sua età, visto 
che viveva a Milano, oltretutto, solamente da circa un anno? Leonardo, in teoria, 
avrebbe dovuto sapere ma, viste le origini di Caterina, sembra assai verosimile 
che non possedesse dati precisi sul particolare anagrafico. L'attestazione milanese 
sarà stata riportata in maniera indicativa, come un'età “presunta”, poiché l'aspetto 
della donna presentava un corpo “sulla sessantina”. 

“Sembra assai plausibile che questa sessantenne Caterina di Firenze non sia 
altri che la madre di Leonardo, che sarebbe quindi nata verso il 1434 e avrebbe 
avuto il futuro artista più o meno a diciotto anni (età che sembra molto più reali- 
stica dei venticinque solitamente ipotizzati) e che presso di lui, a Milano, avrebbe 
quindi trascorso meno di un anno. Per gli anni Novanta del Quattrocento, a ogni 
modo non si incontrano altre Caterine fiorentine che siano venute a morte [...] 
la “Caterina de Florenzia” mancata il 26 giugno 1494 abitava presso la parrocchia 
dei Santi Nabore e Felice, nel quartiere di Porta Vercellina: se è davvero la madre 
di Leonardo, quello era anche il domicilio del maestro”?3. 





2 Cfr. Ulivi, Sull'identità, p. 24. Dello stesso avviso era stato a suo tempo, anche Renzo 
Cianchi. Più recentemente concorda pure Carlo Vecce. 

2 Cfr. Ulivi, Sull'identità, pp. 22 e segg. “Un certo Francesco Morelli” scrisse la Portata 
del 1487 (ULivi, Sull'identità, p. 31). Un buon numero di beni ricordano vari Morelli come 
confinanti, a S. Amato, a Vinci, a Orbignano, a Lamporecchio (cfr. Gente di Leonardo, p. 598, 
ad indicem). Nel 1523 troviamo un erede di Lorenzo Morelli proprio a San Pantaleo (Ibidem, 
p. 125). 

2 Cfr. Urvi, Sull'identità, passim. Caso a sé è il divario di un anno, giustificabile con la 
diversità del calendario usato. A Firenze si utilizzava lo stile florentino che faceva iniziare lan- 
no il 25 marzo (memoria dell Annunciazione di Maria) e detto Ab incarnatione. In altre città 
toscane, tra le quali Pistoia, era in vigore lo stile comune che datava l’anno dal 25 dicembre 
(memoria della Natività di Gesù) e detto A Nativitate. 

3 Cfr. Leonardo da Vinci. La vera immagine, a cura di V. Arrighi. A. Bellinazzi, E. Vil- 





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Ancora su ‘Chaterina’,, madre di Leonardo da Vinci 





Secondo il documento milanese, Villata afferma che “dobbiamo pensare che 
la Caterina che partorì Leonardo il 15 aprile 1542 dovesse essere molto giovane 
(solo dopo sposerà il Vacca, e non è pensabile che lo abbia fatto a quasi trent'anni 
di età), e se coincide con la Caterina di Firenze che il 26 luglio [ma: giugno] 1494 
muore all’età di circa sessant'anni, doveva essere nata verso il 1434, e avere quindi 
diciotto anni alla nascita del piccolo (questi dati sono apparentemente, ma non 
per forza, in contraddizione con quelli forniti da CrancHI 1975)”. 

Ma fra i due ricordi di Caterina (Portata al Catasto del 1487 e 1494, anno di 
morte), entrambi con la età di 60 anni, riteniamo quello del 1487 parzialmente 
più affidabile. 

AI riguardo, ha scritto Ulivi: “In entrambi [Catasto del 1451 e del 1487] le 
età riportate sono infatti da ritenere approssimative, soprattutto l’età catastale 
che talvolta poteva presentare anche grossi margini di errore, in qualche caso 
involontariamente per disattenzione i incuria, o volutamente per motivi fiscali, 
spesso perché la Portata non era scritta dall’intestatario, ma dalla mano di un suo 
familiare o conoscente, oppure di un addetto amanuense o da un notaio. Senza 
andare molto lontano, un esempio in proposito è il caso dello stesso Accattabriga 
che in base alle denunce degli anni 1427, 1459 e 1487 risulta nato rispettivamen- 
te nel 1426, 1429 e 1432, dunque con un divario di sei anni tra le date estreme. 
La sua Portata del 1459, quella senza l’età di Caterina, fu stilata da chi compilò 
la denuncia di un altro abitante di Vinci, Simone di Stefano di Cambio, ossia 
da uno degli interessati oppure da una terza persona; un certo Francesco Morelli 
scrisse ini la Portata consegnata dall’Accattabriga nel 1487, dove, 
non a caso, vicino all’età di Caterina, quella del marito presenta una correzione, 
da 66 a 64°”. 

A Vinci e zone limitrofe, intorno alla metà del sec. XV, un numero rilevante di 
donne portava il nome di Caterina. Ulivi ne ha rinvenute e selezionate circa una 
dozzina. Appartenevano a famiglie di stanza a Vinci da lungo tempo e sono note 
ai ricercatori di “cose vinciane”. 

Si possono segnalare i Luparelli (di Luparello), i Cambi (di Cambio), i Venzi 
(di Venzo), i Tocci (di Toccio), i Volpi (Nanni del Volpe), i Bianconi (di Bianco- 
ne), i Bartolini. Di particolare rilevanza alcuni, come Nanni di Venzo e Andrea di 
Piero Bartolini; costoro, invitati da Antonio da Vinci, nonno di Leonardo, parte- 
ciparono in veste di padrini al battesimo del neonato figliolo di Ser Piero. Piero di 
Andrea Bartolini (il cui figlio Andrea aveva sposato una Caterina) non è altri che 
Piero ‘di Malvolto”, e ben dimostrato, da poco tempo, Alberto Malvolti?°. 


lata, Firenze, Giunti 2005, p. 153, scheda a cura di E. Villata. 

% Ibidem, p. 154, scheda a cura di E. Villata. Anche ULIvi, Sull'identità, pp. 24-25. 

% Cfr. Ulivi, Sull'identità, pp. 30-31. Altro esempio di età altalenante, variabile e oscil- 
lante: Caterina, moglie di Domenico di Antonio di Biancone, nel 1451, è detta di anni 35 
(Catasto, 750, c. 679°); nel Catasto 558, c. 200" si trova con la stessa età; a c. 507" con l’età di 
32 anni (Cfr. ULivi, Sull'identità, p. 32, nota 42). Un esempio oltremodo significativo di at- 
testazione di età poco affidabile che si può ulteriormente portare riguarda lo stesso Leonardo. 
Descrivendo la visita del card. Luigi d'Aragona, nel 1517, ad Amboise (“nel palazzo del Clu”), 
il segretario del cardinale Antonio de Beatis definì “messer Lunardo Vinci vecchio de più de 
LXX anni”. In realtà, Leonardo era in età di anni 65. 

26 Cfr. nota 6, supra. Ho anch'io reperito abbondante documentazione su tutte queste 


93 


Mario Bruschi 





Ulivi, andando per esclusione (dovuta a vari motivi, soprattutto all’età), ha 
focalizzato l’attenzione su due Caterine: Caterina nipote di Monna Giovanna e 
Caterina di Antonio di Cambio. “In una eventuale identificazione con la madre 
di Leonardo, sia per Caterina di Antonio di Cambio, sia per Caterina nipote di 
Monna Giovanna, colpisce subito la giovanissima età catastale. Nel 1452, l’anno 
della nascita del genio, la prima avrebbe avuto attorno ai quattordici anni, la 
seconda sui sedici anni, età molto distanti dai venticinque che risultano per ‘Cha- 
terina mater’ dalla Portata dell’Accattabriga — dati sulla cui scarsa attendibilità 
abbiamo già discusso — ma ragionevolmente compatibili, sempre considerando le 
dovute approssimazioni, con i diciotto anni della “Caterina da Firenze”, presunta 
madre di Leonardo, presente nel necrologio milanese”? 

“Caterina di Antonio di Cambio era fol di una Monna Maria e di Antonio 
di Cambio di Andrea di Pietro [...] Abitavano nel popolo di San Pantaleo [...] 
Per la madre e per i fratelli di Caterina il confronto delle date di nascita sulla base 
delle età dichiarate nei Catasti del 1451 e del 1459 presenta uno sfasamento, da 
uno a tre anni; per Cambio nello stesso documento sono addirittura indicate due 
età diverse. Questo fa pensare che anche per Caterina l’età sia stata riportata con 
un analogo margine di errore”?8. 

“Uno stretto rapporto legò indiscutibilmente sempre i Buti [a cui appartene- 
va l’Accattabriga] alla famiglia di Caterina di Antonio, attestato non solo dalla 
comune appartenenza al popolo di San Pantaleo fino dai primi anni del Quat- 
trocento, ma soprattutto dalla consegna nel 1459 da parte di Simone di Stefano 
di Cambio, cugino di Caterina, della propria Portata assieme a quella dell’ Ac- 
cattabriga, dopo che le due denunce erano state stilate dalla stessa mano”??. “I 
Buti risiedettero nel Comune di Vinci fin dalla seconda metà del XIV secolo. 
AIl’Estimo del 1412 la famiglia aveva a capo Andrea di Giovanni Buti. Al Catasto 
del 1427 il numeroso nucleo familiare, rappresentato da Pasquino e Marco di 
Giovanni Buti e da Piero di Andrea di Giovanni Buti, era proprietario di terreni 
in località Quartaia, Mignattaia, via Franconese, Pratavecchia, tutti a Vinci nel 
popolo di San Pantaleo, dove in Campo Zeppi ebbero un’altra casa che fu la loro 
abitazione [...]. 

Nelle Portate catastali dell’Accattabriga compilate il 15 ottobre 1459 ed il 10 
ottobre 1487 ritroviamo Caterina, ormai “sua donna”, con i figli nati dal matri- 
monio, probabilmente celebrato attorno al 1453, come fu per quello del padre 
di Leonardo: erano Piera, Maria, Lisabetta, Francesco e Sandra. La famiglia abitò 
sempre in Campo Zeppi, dove i Buti si divisero, nel corso degli anni, iben ere- 
ditati dagli avi Andrea, Pasquino e Marco [...] Piera, nata verso il 1454, aveva 
sposato Biagio di Andrea di Piero del Bianco da Vinci, abitante a Santa Maria a 
Monte, il 21 gennaio 1475; Maria, che nacque nel 1457, il 16 agosto 1478 era 
divenuta agli: di Pasquino di Andrea di Piero di Meo Vannucci del popolo di 
Santa Maria a Faltognano: i due matrimoni furono celebrati nella casa dei geni- 





famiglie (Cfr. BruscHI, Gente di Leonardo, ad indicem). 
7 Cfr. ULivi, Sulla identità, p. 34. 
2 Ibidem, p. 39, 40, 42, 43. 
2. Ibidem, p. 47. 


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Ancora su ‘Chaterina’,, madre di Leonardo da Vinci 





tori in Campo Zeppi”°. Quest'ultima notizia riveste particolare rilievo alla luce 
di considerazioni che andremo a fare più avanti. 

Ulivi aggiunge che questi Vannucci “vissero tutti nella casa di famiglia al Re- 
nacchio di Faltognano”?!. 

Merita, a parer mio, soffermarsi a questo punto ancora sulla figura di Caterina 
nipote di Monna Giovanna. “Era nata, sembra, verso il 1436, da Bartolomeo o 
Meo, a sua volta figlio di Lippo di Nanni, o Giovanni, di Lippo Buonfiglioli di 
Vinci e dalla suddetta Giovanna di Bartolo Cambi da Collina di Capraia, una 
località non lontana da Vinci [...] Giovanna era proprietaria di una casa con 
terreno in località Mattoni nel popolo di Santa Croce”. 

Desta senza dubbio notevole curiosità il cognome, alquanto strano, di questa 
famiglia di Vinci (Buonfiglioli), non genitivo nominale derivante da un patroni- 
mico. Circa un secolo più tardi, sulla copertina, in pergamena, di un piccolo ma- 
noscritto che riporta in matrimoni di Vinci dal 1565 al 1575, ho trovato eviden- 
ziato alcuni nomi propri di persona. Si tratta di due piccoli elenchi: sulla sinistra 
“Mariotto, Caterina, Antonio, Lucretia”; sulla destra “Lionardo e Lorenzo”. Di 

uesti due ultimi è specificato un particolare: “buon figliolo”. Non crediamo si 
debba pensare ad esponenti della famiglia dei ‘Da Vinci’ (per quanto alcuni con 
tale nome — Caterina, Antonio, Lucrezia, Lionardo, Lorenzo — ne fecero parte) 
ma, come dimostrano altri documenti coevi, alla famiglia degli Scarpelli’. 


32 Ibidem, pp. 20-21. Da un certo “del Bianco”, poi “del Biancone”, si originò il co- 


gnome vero e proprio della famiglia Bianconi di Vinci. Molti Bianconi sono documentati in 
BruscHI, Gente di Leonardo, p. 586 (ad indicem). Per Pierus Mei Vannucij, a Faltognano, cfr. 
anche Gente di Leonardo, p. 339. È riferito all'anno 1452. Un suo omonimo risulta presente, 
nel 1406 a Lamporecchio, vicino a Vinci (Gente di Leonardo, p. 403, nota 563). pa Renzo 
Cianchi ha rinvenuto, nel 1478, Pasquino di Andrea di Meo di Piero Vannucci (cfr. Ricerche 
sulla madre..., p. 69), sempre a Faltognano (con il nome di alcuni avi invertito: Piero di Meo- 
Meo di Piero). 

8 Cfr. Urvi, Sull'identità, p. 21. Il toponimo Renacchio non ho mai reperito con questa 
grafia. Si trova documentato il luogo detto Renzio, tra Faltognano e Vitolini. Dovrebbe essere 
il toponimo originario (Renaio-Renacchio) (Cfr. Gente di Leonardo, p. 601, ad indicem). In 
una carta corografica redatta al tempo del vescovo pistoiese Ippoliti (1776-1780) si trova 
segnato come Renecchio. Il podere del Renaio confinava con quello del Botro (Broto), molto 
significativamente. In l.d. ‘al Botro’ avevano pezzi di terra, come è noto, i ‘da Vinci’. Nel 
1448 si era specificato “Meus Pieri de Botro” (Cfr. BruscHI, Gente di Leonardo, p. 495 e p. 
471 e Indici, p. 586). Per il podere il ‘Botro’, con ricordo di Ser Pier Lorenzo Pitti, cfr. anche 
notizie inedite, per il 1520 interessanti l'eredità di Leonardo, in La vera immagine, p. 249. 
Inoltre (per Botro e Colombaia): BruscHI, Intrecci vinciani, p. 120, nota 44; BRuscHI, Con- 
fini Leonardiani, pp. 33-35. Per Piero di Meo (o Meo di Piero) Vannucci di Faltognano (“al 
Renacchio”) cfr. ULivi, Sull'identità, p. 21). “Agli inizi dell'Ottocento, è possibile individuare 
su una mappa storica un complesso architettonico denominato Villa e Casa di Rinecchio in 
prossimità dell’intersezione tra la Via che da Vincio va a Fartognano e la Via di Faltognano 
proveniente dalla direzione di Vitolini” (Cfr. Vinci di Leonardo, p. 258). 

8 Cfr. Urvi, Sull'identità, pp. 34-35. 

8 Cfr. Bruschi, Abitanti di Vinci..., cit. in nota 2, p. 22. Lorenzo “di Buonfigliolo” morì 
il 28 ottobre 1591 e si seppellì in S. Croce di Vinci (cfr. BruscHI, Gente di persa p. 307). 

% Cfr. BruscHi, Abitanti di Vinci, pp. 26-29. “Una delle stirpi di Vinci coinvolta diret- 
tamente con la famiglia di Leonardo fu quella degli Scarpelli,che alla metà del Cinquecento 
acquistarono le due case dei notai Da Vinci all’interno del borgo [...]. Nella seconda metà 


95 


Mario Bruschi 





Ma, cosa si intendeva sottolineare con l'appellativo “buon figliolo?”. La que- 
stione, partendo dal registro anagrafico sopra ricordato, è stata affrontata un ven- 
tennio È proponendo una soluzione plausibile, avallata, pienamente, fra gli altri, 
pure da Carlo Pedretti. Sintetizzando: “Buon figliolo” per indicare fliglo di 
“buona donna”, vale a dire figlio di madre sconosciuta, quindi illegittimo perché 
nato fuori dal matrimonio. Vi sono espressioni e detti popolani toscani, e soprat- 
tutto pistoiesi, che definiscono ancor oggi tale precisa condizione di nascita”. 


del Cinquecento, una figura spesso nominata e centrale della famiglia risulta essere Donato 
Scarpelli. Il motivo era preciso: Guglielmo, uno dei figli di Ser Piero e fratellastro di Leonar- 
do, aveva venduto circa il 1551 le case dei Da Vinci nel borgo esattamente ai figli di Donato 
Scarpelli (Ibidem). 

35 Ibidem, pp. 21-26. Ugualmente dicasi per i cognomi “Degli Innocenti” e “Degli 
Esposti”, che dovevano certamente designare i nati illegittimi, cioè i bastardi. Anche il cognome 
“Bonfanti”, nel senso di “bon infanti”, cioè “buoni infanti”, poiché neonati figlioli di “buona” 
donna. Ve ne sono esempi anche sul Montalbano: poco sopra Vinci, nel 1627, rettore di S. 
Giorgio a Porciano era prete Domenico di Matteo Bonfanti (Cfr. Gente di Leonardo, p. 450). 
Nell inventario dei beni di Porciano, del 1627, prete Buonfanti ricordò fra i confinanti anche 
gli eredi di Ser Taddeo Buonfanti (nei l.d. “Muricci” di Lamporecchio e “alla forra al Pruno” 
di Orbignano) (Ibidem, pp. 451-454). Resta memoria pure nella toponomastica cittadina: 
Via Buonfanti è una strada tuttora sia nella città di Pistoia che in quella di Firenze. 

Ha scritto Pedretti: “Il Bruschi prova che “bon sangue” non significa affatto sangue nobile, 
ma si riferisce invece alla condizione di bastardo nel senso più positivo della parola, cioè 
figlio del libero amore. La frase dell’antico biografo va dunque intesa come una precisazione: 
Leonardo è figlio legittimo di ser Piero perché il padre lo riconosce come tale dandogli il 
nome, ma è pur sempre illegittimo, cioè bastardo, perché nato di “bon sangue”, cioè da 
donna non sposata a suo padre [...] Figlio di buona donna, non in senso derogatorio ma 
nell'accezione ancora diffusa nella campagna pistoiese per indicare la madre sconosciuta, o 
per lo meno non legalmente coniugata [...]. Benché riconosciuto dal padre, Leonardo era 
nato bastardo, cioè era di “bon sangue” per essere figlio di una “buona donna” (Cfr. BruscHI, 
Abitanti di Vinci, cit. in nota 2, pp. 12-13, Presentazione di Carlo Pedretti). 

Ancora sui ‘Bonfiglioli’. In altre fonti archivistiche pistoiesi ho potuto reperire ancora 
personaggi con tale cognome. Nel 1454, P. Iacopo Bonfiglioli, rettore della chiesa di S. 
Michele a Pulica, nel contado di Pistoia nella terra di Bigiano, poco fuori la città, e anche 
di un benefizio di S. Marta nella Cattedrale pistoiese, rinunziò a tutti i suoi diritti sulle due 
istituzioni (Cfr. M. BruscHI, S. Alessio in Bigiano e S. Michele a Pulica nella campagna pistoiese, 
Pistoia, Tip. Pacinotti 1980, p. 13). Il rettore “prete Jacopo di Buonfiglio” era già titolare a 
Pulica un decennio prima, nel 1444 (Ibidem, p. 35). Nel 1454 il canonico Benedetto di 
Filippo è ricordato come procuratore ‘presbiteri Jacobi Buonfiglioli de Pistorio rector ecclesie 
Sancti Michaelis de Purica diocesis pistoriensis et beneficii Sancte Marte instituti in maiori 
Cathedrali ecclesia pistoriensi” (Ibidem, p. 71, doc. XLI). 

La rinuncia avvenne per contratto rogato da Ser Ludovico del fu Luca di Simone. 
Questo notaio si ritrova, nello stesso 1454, come firmatario di un altro atto (Ser Lodovico 
di Luca Simoni) (Ibidem, p. 36) e di un “numero dieci de’ contratti” del medesimo anno, 
riconfermati nel 1492 (Ser Lodovico olim Luce Simonis de Pistorio) (Ibidem, pp. 37-38, nota 
70). Ser Ludovico di Luca era il notaio della Curia episcopale pistoiese intorno alla metà 
del Quattrocento (Gente di Leonardo, p. 596, ad indicem). Il nonno del notaio Ludovico era 
dunque Simone; non è pertanto da confondere con altro notaio, con eventuale parentela, che 
risponde al nome di “Ser Lucas olim Antonij de Vincio”, della famiglia dei Ticci (Ibidem, p. 
149). 

Ser Piero d’Antonio da Vinci, padre di Leonardo, scrisse una lettera, nel 1468, al 
notaio pistoiese Ser Simone di Luca (Ibidem, p. 189). Costui, invece, doveva essere, quasi 


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Ancora su ‘Chaterina’,, madre di Leonardo da Vinci 





In senso più lato, il cognome di questa stirpe indicava che nella stessa si erano 
verificate nascite illegittime. Questa dunque era la famiglia di Caterina nipote di 
Monna Giovanna?°, 

“Bartolomeo (Meo) possedeva un podere in comune con lo zio paterno Giu- 
sto di Nanni di Lippo, situato alla Punta di Campo Zeppi, anche lui un terreno 
a Pratavecchia, un pezzo di bosco al Piastrino di San Pantaleo, e parte di una 
“casaccia trista” situata nel Castello di Vinci, a ridosso delle mura di cinta e con- 
finante con Pasquino di Giovanni Buti. I beni di Giovanna e di Bartolomeo 
confinavano anche, in parte, con quelli di Giusto di Nanni”. 

“I Catasti e quattro documenti notarili rogati da Ser Luca di Antonio dei 
Ticci, notaio anche dei Da Vinci e dei Buti, ci informano che Caterina ebbe due 
fratelli maggiori, Lippo e Piera, ed un fratello minore di nome Papo. Il 1° settem- 
bre 1450, È diciottenne Piera, probabilmente già sotto la tutela del prozio Giusto 
di Nanni assieme ai fratelli Caterina e Papo, dopo la scomparsa dei genitori, della 
nonna Giovanna e del fratello Lippo, rinunciò a favore di Giusto, ai suoi diritti 
sui beni ereditati dal padre e dalla nonna, nominando due procuratori tra cui il 
triscugino Orso di Giusto. Le proprietà lasciate da Bartolomeo e Giovanna, di cui 
ci è sconosciuta l'effettiva consistenza, ad esclusione di quella in Mattoni, dovet- 
tero essere così assorbite nei beni di Giusto di Nanni [...] Al Catasto del 1451, la 
famiglia di Bartolomeo era infatti ormai ridotta ai soli Caterina e Papo, ed unico 
loro avere era la casa in Mattoni”58, 

“Numerosi erano nel 1451 i possedimenti di Giusto di Nanni, nei popoli di 
Santa Croce e San Pantaleo, e così al precedente Catasto del 1427 e al succes- 


sicuramente, fratello di Ser Ludovico di Luca di Simone. 

36 La spiegazione di “buon figliolo”, di figliolo di “buona donna”, ha permesso di 
applicare la stessa anche a Leonardo, nato, secondo l Anonimo Gaddiano, “per madre di bon 
sangue”. Proprio “Lorenzo di Buonfigliol Buonfiglioli” ho scoperto e potuto documentare, 
nel 1577, come uno degli ascritti alla Compagnia del Corpus Domini di Vinci (Cfr. BruscHI, 
Gente di Leonardo, pp. 209-211). Nel 1628, nella Cappella dell’Invenzione della Croce in S. 
Croce a Vinci, eretta “sopra l’altare degli Scarpelli”, fra i beni compare il confinante Giovanni 
Bonfiglioli (Ibidem, p. 142). Per la famiglia Bonfiglioli cfr. ibidem, p. 587, ad indicem. 

sa Cfr. Urvi, Sull'identità, p. 35. Meo di Nanni del Volpe [Lippi], fratello di Giusto 
di Nanni Lippi, con la moglie Caterina compare nelle Portate al Catasto del 1451 e del 1459 
(Ibidem, pp. 32-33). Meo di Nanni e Giusto di Nanni, detti “del Volpe”, avevano anche un 
fratello di nome Simone (Cfr. BruscHI, / “da Vinci”..., cit. in nota 6, p. 145, nota 16). 

» Cfr. ULIvi, Sull'identità, pp. 35-36. “Con Ser Luca di Antonio dei Ticci, sia Monna 
Giovanna che Bartolomeo di Lippo stipularono altri rogiti tra il 1427 ed il 1446 [...] Luca 
di Antonio dal 1427 abitò sempre a Firenze, esercitando la propria attività sia in città che nel 
contado, ed ebbe diversi possedimenti a Vinci, nei popoli di Santa Croce e di San Pantaleo, 
come i Buti: quelli in Quartaia di San Pantaleo is con il solito Giusto di Nanni, un 
terreno in Mattoni gli era stato venduto proprio da Bartolomeo di Lippo” (Ibidem, pp. 35-36, 
nota 66). Ho anch'io reperito dati su Luca di Antonio: nel 1447 quando compilò Patto per 
la nuova elezione del rettore della cappella di S. Maria in S. Croce di Vinci. Si dichiarava “de 
Vincio” ma firmava ufficialmente l'atto notarile come “civis et notarius publicus florentinus”. 
Fra i parrocchiani dell’elenco: Pippus Nardi bonfigluoli e Justus Nannis lippi (Cfr. Gente di 
Leonardo, pp. 34-37). Ancora un ricordo del notaio Ser Luca di Antonio nel 1450, quando 
rogò l’atto per l'elezione del nuovo rettore di S. Lucia a Paterno. Il sacerdote prescelto fu Ser 
Leonardo di Stefano di Arezzo. Il 25 dicembre del 1451 si procedette alla nomina ufficiale 
(Ibidem, pp. 292-294). Per il toponimo Mattoni, cfr. ibidem, p. 597, ad indicem. 


97 


Mario Bruschi 





sivo del 1459, intestato a suo figlio Orso, essendo Giusto scomparso nel 1457. 
Furono complessivamente una casa in Mattoni, dove abitavano, confinante con 
quella di Caterina e Papo, parte di una casa nel Castello di Vinci a confine con 
quella dei Buti, terreni [...] a Metrialla, alla Mignattaia e in Pratavecchia anche 
questi ultimi confinanti con i Buti [...]. Tra il 1480 ed il 1487 anche Papo morì 
e di conseguenza la vecchia casa in Mattoni che fu di Monna Giovanna passò alle 
sorelle Monna Piera e Monna Caterina; queste la cedettero a Giovanni di Orso 
che la denunciò infatti tra i suoi averi nella Portata del 1487, elencandola invece 
tra i beni alienati alla Decima Repubblicana del 1504”5?, 

Pertanto, “diversi elementi porterebbero a collocare Caterina di Bartolomeo 
tra le candidate al ruolo di “Caterina mater” [...]. Anche Renzo Cianchi fu a suo 
tempo affascinato dalla figura di Caterina di Bartolomeo e svolse diverse ricerche, 
con risultati mai resi noti, sulla ragazza di Mattoni, scartandola poi, sembra, sulla 
sola base del dato catastale relativo all’età della madre di Leonardo, per rivol- 
gere la propria attenzione alla schiava del Vanni. Solo il complessivo confronto 
dei precedenti documenti con le Portate di un’altra famiglia di Vinci, i Telli, 
permette purtroppo di dedurre che la figlia di Bartolomeo di Lippo non era la 
moglie T ma la ventiquattrenne Caterina che al Catasto del 1459 
compare come moglie di Taddeo di Domenico di Simone Telli. I Telli abitarono, 
fin dal 1427, in Mattoni, sempre in case confinanti con quella che fu prima di 
Monna Giovanna, poi di Papo di Meo, e al Catasto del 1487 di Giovanni di 
Orso. Nella Portata del 1504 [anno della morte di Ser Piero da Vinci], Domenico 
di Taddeo di Domenico Telli elencherà tra i suoi beni un pezzo di terra in l.d. a 
Mattoni (con il terzo confinante lerede di Orso di Giusto e come quarto Simone 
di Taddeo “la quale li rimase di Meo d’Orsso di Giusto padre di Monna Chate- 
rina”) che una postilla laterale rimanda “dal ’90 da chonto di Giovanni d’Orso”. 

Il Meo che nel documento è detto stranamente di Orso di Giusto dovrebbe 
essere in realtà Meo o Bartolomeo di Lippo, il padre della Caterina nipote di 
Monna Giovanna che compare al Catasto del 1451, e dunque doveva essere lei la 
madre di Domenico di Taddeo Telli”40, 

Dovrebbe dunque trattarsi di errore nella trascrizione del bene della Portata, 
con scambio di personaggio. 

A questo proposito si impongono alcune considerazioni. La popolazione di 
Vinci e dei luoghi attorno era piuttosto ridotta di numero. Negli atti pubblici 
di vario genere compaiono sempre le stesse famiglie, per di più concatenate, im- 
parentate e intersecate tra di loro. Anche i nomi propri di persona ricorrono in 
maniera stabile, quelli usuali in quel territorio. 

Si riscontrano anche casi di “seconde mogli”, con tutte le conseguenze per la 
ricostruzione delle discendenze, che possono facilmente portare a ricerche fuor- 
vianti. 





3 Cfr. Urvi, Sull'idendità, p. 37. Circa la casa ‘in Mattoni’ (“Una casetta con aia e 
con un pezzo di terra lavoratia, con alquante viti e in parte boschata”) nel 1451, un anno 
prima della nascita di Leonardo, quando viene descritta, si nota un particolare assai raro: il 
quarto confinante è formato da due esponenti di famiglie diverse citate insieme (“Menicho di 
Simone di Giovanni Telli e Giusto di Nanni Lippi”) (Ibidem, p. 36). I Telli e i ‘del Volpe si 
consideravano o erano ormai (quasi) un’unica famiglia? 


4 Ibidem, pp. 38-39. 
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Ancora su ‘Chaterina’,, madre di Leonardo da Vinci 





Sono poi da aggiungere i casi frequentissimi di soprannomi in uso nella cam- 

agna pistoiese e toscana, e l'inversione (possibile) di nomi di avi. Della attendi- 

piia. non sempre sicura e affidabile, dell'età dei personaggi riportata in alcuni 
documenti, è già stato fatto cenno. 

Tuttavia certi errori, a volte corretti e a volte no, trovano quasi una loro giu- 
stificazione. Un esempio eloquente: nel 1564, indicando un pezzo di scopeto in 
luogo detto Forra Baruccia, si cita come secondo confinante gli eredi di Ser Piero 
di Papino di Buto. ‘Di Papino di Buto fu subito cancellato e aggiunto ‘da Vinci. 
Il terzo confinante erano gli eredi di Ser Piero da Vinci, il padre di Leonardo“. In 
altre parole: le famiglie dei ‘Da Vinci’ e dei Buti erano proprietarie e confinanti 
in un numero cospicuo di beni fondiari e si potevano pertanto ingenerare con- 
fondimenti tra di Da con facilità, anche se involontari. 


* 


Vorrei a questo punto dedicare un'attenzione specifica a un personaggio ricor- 
dato più volte in precedenza, con la sua famiglia: Orso di Giusto. La motivazione 
dell'interesse sarà richiamata più avanti. 

Scrivevo alcuni mesi fa: “Egli è uomo di cui i documenti serbano traccia e me- 
moria. Cianchi, nel 1478, trovò menzionato in un atto come testimone il figlio 
Antonio: “Antonio orsi olim Justi nannis lippi”. Nel 1478 Giusto risulta morto 
(olim=già). Anche costui era del “populo Sanctae Crucis de Vincio”. 

Oltre Antonio, Orso aveva altro figliolo, di nome Giovanni. Ma Antonio e 
Giovanni non erano gli unici discendenti di Orso: “Giovanni d’Orso e frategli”. 

Una carta relativa a un trentennio prima, al 1447, firmata dal notaio fiorenti- 
no Luca di Antonio da Vinci, che documenta la nuova elezione del rettore della 
cappella di S. Maria in S. Croce, ricorda il padre di Orso: “Justus Nannis lippi”. 

Per il 1452, l’anno in cui nacque Leonardo, ho scoperto un documento che ri- 
guarda la chiesa di S. Maria a Faltognano. Scritto su pergamena, in lingua latina, 
riporta, fra i popolani presenti e testimoni anche “Giustus Nannis del Volpe”. Vi 
sono anche esponenti delle famiglie Venzi, Cambiuzzi, Salvi, Vannucci. 

Tre anni dopo, nel 1455, un atto pubblico sulla falsariga di quello del 1452 
ricorda ancora molti popolani di Faltognano. Fra questi, i Barelli “Sander Simo- 
nis” et “Antonius Simonis”, ma, stavolta, invece di riportare il nome del nonno 
di costoro (“Antonij”), come nel 1452, si identificano col soprannome di fami- 
glia: del Volpe. Parimenti, i fratelli “Meus Nannis” e “Justus Nannis”, anch'essi 
qualificati come “del Volpe”. “Justus Nannis del Volpe” figurava anche nel 1452 
(“Giustus”). Questo soprannome dette origine a una famiglia che per lunghi se- 
coli rimase stanziata nel territorio di Paterno, Faltognano, Vinci. In epoca tardo- 
ottocentesca i Volpi abitavano la casa di Anchiano. L'atto fu rogato dal notaio 
Ser Baldassarre di Piero Zosi da Bacchereto, fratello di Lucia, nonna paterna di 
Leonardo. 


"Cfr. BruscHI, Gente di Leonardo, pp. 299-304 e fig. 59. Anche BruscHI, / ‘Da Vinci’ 
e le loro terre..., cit. in nota 6. Per un caso di soprannomi, da poco scoperto, si può citare 
Piero di Malvolto, uno dei testimoni al battesimo di Leonardo. Piero era figliolo di Andrea 
di Piero Bartolini detto Malvolto, da cui: Piero di Malvolto (Cfr. A. Marvoti, Alla ricerca di 
Piero di Malvolto..., cit. in nota 6; anche ULIVI, Sull'identità, p. 32). 


99 


Mario Bruschi 





Ancora un documento, rimasto finora inedito e reso noto da pochissimo tem- 
po, stilato a Vinci il 3 maggio del 1478, conserva memoria di “Orsus Iusti Nannis 
Lippi”, insieme a “Sander Simonis Antonij” e a famiglie Vannucci, Parentini, 
Cecchi Salvetti, Cambuzzi. Risulta di estremo interesse poiché si trova coinvolto 
in prima persona Leonardo stesso. Il famoso figliolo di Ser Piero fu definito varie 
volte “figlio spurio” (Leonardi spurii filii dicti ser Petri). Si tratta di una clausola 
contrattuale riguardante Francesco d'Antonio da Vinci, zio di Leonardo”. 

Aggiungo quanto segue: fra i popolani ricordati nell'atto di Faltognano del 
1452 merita sottolineare i seguenti: Sander Simonis Antonij, Giustus Nannis 
del Volpe, Antonius Simonis Antonii, Pasquinus Papi Cinelli, Pippus Johannis 
Cambuzzi, Stefanus Pier Mei, Pierus Mei Vannucii; nell’atto del 1455; Sander 
Simonis del Volpe, Antonius Simonis del Volpe, Meus Nannis del Volpe, Pierus 
Mey Vannuccii, Stefanus Pier Mey, Andreas Pieri Mey, Justus Nannis del Volpe. 
L'atto del 1455 fu rogato dal notaio Ser Baldassarre di Piero Zosi da Bacchereto, 
fratello di Lucia, nonna paterna di Leonardo. Si firmò: “Ego Baldassar Ser Petri 
Zosi de Bachereto”®. 

Sempre a Faltognano, e sempre nel 1455, in un altro atto pubblico si menzio- 
nano fra i presenti il pievano Francesco Andrea di Bacchereto, Giuliano di Piero 
di Bartolomeo di S. Lorenzo “de Arniano” e ospedale di Bacchereto intitolato a 
S. Caterina". 

Nel 1478, come ricordato poco sopra, venne affittato un mulino di Vinci a 
Ser Piero e al fratello Francesco dal Comune del borgo. Conosciamo il lungo 
elenco dei consiglieri comunali”. 

Si nota, fra questi nominativi, un particolare davvero curioso e interessante. 
Alcuni, negli elenchi del 1452 e del 1455, furono registrati: “Stefanus Pier Mei, 
Pierus Mei Vannucci”; nel 1478 diventano: “Pierus Mei Nanni Vulpi®”. Sembra 
quasi che esponenti della famiglia “del Volpe” (di cui faceva parte anche ‘Orsus 
lusti Nannis Lippi’ del Volpe) di Faltognano si “confondano” con la famiglia 
Vannucci, quasi fosse la stessa. Analogo intreccio di personaggi e di luoghi si ri- 
scontra ancora nel 1478: Maria, secondogenita di Caterina ie madre naturale di 
Leonardo) e dell’Accattabriga il 16 agosto di quell’anno aveva sposato Pasquino 
di Andrea di Piero di Meo Vannucci di Faltognano. Il matrimonio fu celebrato 





4. Cfr. M. BruscuI, Ser Piero e “Monna Chaterina”: un documento pistoiese, in “Bolletti- 
no dell’Accademia degli Euteleti della città di San Miniato al Tedesco”, a. XCVIII, 2020, pp. 
223-224, con relativi riferimenti archivistico-bibliografici. 

8 Cfr. BruscHI, Gente di Leonardo, pp. 339-343 e figg. 65-66. Nel 1478 un Antonius 
Simonis è qualificato come della famiglia “Cechi Salvetti” (Cfr. La vera immagine, p. 129). 
Piero di Meo Vannucci e Meo di Nanni del Volpe sono citati anche in Catasto di Vinci, 750, 
cc. 833, 835. 

4 Cfr. BruscHI, Gente di Leonardo, p. 342. Da notare il nome di Piero di Bartolomeo, 
omonimo e contemporaneo (del tutto casuale) di Ser Piero di Bartolomeo, rettore di Vinci, 
che battezzò Leonardo. 

#6 Cfr. V. ARRIGHI, La vera immagine, pp. 129-130. Tra questi ‘Orsus Iusti Nannis Lip- 
pi. Ulivi riporta i nominativi dei consiglieri per esteso (ULIVI, Sull'identità, p. 44, nota 92). 
Vengono menzionati, fra gli altri “Sander Simonis Antonii, Orsus Iusti Nannis Lippi, Anto- 
nius Simonis Cechi Salvetti, Angelus Pippi Iohannis Cambiuzi, Pierus Mei Nanni Vulpis”. 
Un certo numero erano presenti pure nel documento del 1452 riguardante Faltognano (Cfr. 


Gente di Leonardo, p. 339). 


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Ancora su ‘Chaterina’, madre di Leonardo da Vinci 





nella casa dell’Accattabriga in Campo Zeppi. Uno dei testimoni al matrimonio di 
Maria fu Antonio di Orso di Giusto, con i beni in località Mattoni”°. 

Pochi anni dopo, nel 1483, fra i beni dello spedale di S. Biagio di Vinci, si ri- 
cordano terre a Mattoni e “Giovanni d’Orso e frategli” nella valle di S. Pantaleo”. 

Nel 1487, al tempo del vescovo pistoiese Niccolò Pandolfini, nei conti ve- 
scovili si trova registrata un'uscita a dior di Lazzaro di Meo del Volpe (Volpi). 
“Dagli inizi del Settecento e per tutto il secolo una famiglia Volpi abitava anche 
in l.d. “il Palagio”, in parrocchia di Faltognano””. 

Nel 1587, al tempo dell’unione della chiesa di S. Lucia a Paterno con quella 
di S. Lorenzo Arniani, si ricorda ancora il l.d. “al Palagio nel popolo di Santa 
Maria a Faltognana”?, Un l.d. Palagio ho potuto reperire anche nel territorio di 
Lamporecchio, insieme alla Forra di Palagio e al Du di Palagio.”! 

Nel 1577 addirittura compare “Orso di Vannuccio”, con il figlio “Rafael”: 
quasi una reale compenetrazione delle famiglie del Volpe-Vannucci, e quindi, 
indirettamente, delle località di Mattoni e di Faltognano insieme”. Il nominativo 
si trova in un elenco della Compagnia del Corpus Domini (o del SS. Sacramento) 





4 Cfr. Urvi, Sull'identità, p. 21 e 37. Nel 1470 Andrea olim Pieri Vannucci anche 
in Notarile Antecosimiano, 3455. Un ventennio prima, nel 1448, altamente significativo per 
tutto il contesto che andiamo ricostruendo e argomentando mi sembra un particolare: “Meus 
Pieri [Vannucci]” in un elenco di popolani di Vitolini, fu identificato come “Meus Pieri de 
Botro” (Cfr. BruscHi, Gente di Leonardo, p. 471). Dunque, la famiglia Vannucci di Faltogna- 
no risiedeva in uno dei luoghi dove la stirpe dei ‘Da Vinci’ possedeva beni e averi (“in Bro- 
to”-Botro). Alla morte di Francesco da Vinci (1504), fratello di ser Piero e zio di Leonardo, il 
podere detto “al Botro” e quello detto “la Colombaia” passarono in godimento vitalizio a Le- 
onardo per volontà testamentaria dello zio. Il podere “al Botro” consisteva in case da lavora- 
tore e da signore, terre arative e boschive e con viti e alberi da frutto. Il podere “la Colombaia” 
era formato solamente da terre arative, con viti, alberi da frutto e la sola casa per il contadino 
sormontata da una colombaia. Per i confinanti e i mezzadri che lavoravano i due poderi, cfr. 
La vera immagine, pp. 199-200, schede di V. Arrighi. Leonardo, in un promemoria stilato a 
Firenze proprio nello stesso anno 1504, fra gli appunti con persone da cercare, indicò anche 
“la valuta del botro”, evidente allusione all’eredità ricevuta (Londra, British Library, Codice 
Arundel, f. 191"). L'elenco completo è riportato, fra gli altri, in La biblioteca di Leonardo, a 
cura di Carlo Vecce, Firenze, Giunti ed. 2021, pp. 31-33. 

4 Cfr. BruscHI, Gente di Leonardo, p. 196. 

# Ibidem, pp. 296-297 (nota 446). Anche BruscHi, / ‘da Vinci’ e le loro terre, p. 145, 
nota 16. 

‘Cfr. BruscHI, Gente di Leonardo, nota 447. Come ripetutamente precisato, la fa- 
miglia Volpi per vari secoli abitò “nelle case” di Anchiano. Nel 1742, fra i beni della chiesa 
di S. Lucia a Paterno, rientrava “Un pezzo di terra nel popolo di Faltogniano luogo detto i/ 
Palagio, lavorativa, e ulivata, con il viottolo in mezzo, il quale conduce alla Casuccia [...] a 
primo via, che va a Faltogniano, a 2° e 3° Cappella di S. Giuseppe posta in chiesa di Vinci; 
a 4° gl’Innocenti” (Cfr. BruscHi, Confini Leonardiani, p. 37, bene n° 18). Anche Vinci di 
Leonardo, p. 291. 

5 Cfr. BruscHI, Gente di Leonardo, p. 312. In questo elenco, tra i beni di Paterno, 
vengono citati anche i luoghi detti: “Nel fondo di Anchiano, Campuccio di Anchiano, dalle 
case di Anchiano”. Fra i confinanti: gli eredi di Piero di Guglielmo [dei Da Vinci]. 

53 Cfr. M. BruscHI, // Paesaggio di Leonardo datato 1473, il disegno RL 12395 e alcune 
“artifiziose invenzioni”, Pistoia 2019, pp. 40, 43, 47, 99, 106, 107, 108, 110. 

5. Cfr. BruscHI, Gente di Leonardo, p. 211. 


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Mario Bruschi 





in S. Croce di Vinci. Colpisce anche, fra gli ascritti della Compagnia, la presenza 
di “Lorenzo di Buonfigliol Buonfiglioli”, appellativo “particolare” col quale si 
indicava la famiglia di Mattoni (del Volpe). Meo di Lippo di Nanni possedeva un 
podere in comune con lo zio paterno Giusto di Nanni di Lippo (padre di Orso) 
a Campo Zeppi”. 

Un esponente della famiglia dei Telli (Giuliano di Francesco Telli) residenti 
in Mattoni, è stato rinvenuto più tardi, nel 1630, come confinante di un bene 
(“Una presa di terra di quattro campi”) appartenente alla Cappella dei Bianchi 
(o dell'Annunziata) di Vitolini. Il bene fondiario era posto null Valle di Vinci”. 

Pochi anni dopo, nel 1638, sempre a Vitolini, in conformità con tutte le 
parrocchie della diocesi pistoiese, venne redatto l’inventario degli Arredi Sacri. 
Per un “uffitio di 4 messe”, si ricorda un “Giusto di Meo” e un mulino “in ld. a 
Renaio””. 

Un Bartolomeo Lippi (Meo di Lippo) si trova citato, nel 1734, come confi- 
nante di un bene appartenente alla di di S. Biagio alla Castellina di Limite 
sull Arno (“Tre campetti due vignati et alberati di là dal Fiume Arno”). 


* 


Attorno alla metà del Quattrocento sono riferibili due carte d’archivio, da me 
ritrovate che contengono ordini e raccomandazioni alle “Chiese di Vincio”, in 
particolare ai loro rettori”. 

Molto brevemente, sono condensate le cose urgenti da farsi in ogni parroc- 
chia, forse a seguito di una visita pastorale. 

Si citano le chiese di S. Amato, S. Lucia a Paterno, Faltognano, Vitolini, Pieve 
di Greti, S. Donato in Greti, S. Ippolito in valle, Aglianella. Il primo rettore ram- 
mentato è “prete Piero Pagnecha” di Vinci, colui che battezzò Leonardo nel 1452. 

Fra gli altri, colpisce quanto fu raccomandato alla chiesa di Faltognano. Si 
evidenziarono tre cose: che gli operai [dell'Opera di S. Maria] “faccino uno taber- 
nacolo per il corpo di Cristo, racconcino il tetto della chiesa” e, messa per prima, 
che il rettore “non tengha la concubina” (Fig. 1). 

A questo proposito, è del tutto evidente che quella della “concubina” non era 
una figura rientrante nella norma o una persona che svolgeva una professione 
come P altre. Il buon senso comune porta a ritenere che si trattasse della serva o 
domestica del prete che viveva in canonica more uxorio. Naturalmente, per garan- 
tire lassoluto anonimato e per mantenere la riservatezza non vennero fatti nomi. 
La cosa, tuttavia, doveva essere di dominio pubblico se si faceva una raccoman- 
dazione ufficiale scritta perché cessasse questa situazione scandalosa e riprovevole 
da parte di un ecclesiastico. Tale prassi fu una grave piaga della Chiesa per lunghi 
secoli, alla cui soluzione si provvide tassativamente si Concilio di Trento, isti- 
tuendo l’obbligo del celibato per i religiosi. 





53. Cfr. Urvi, Sull'identità, pp. 34-35. 

5 Cfr. BruscHI, Gente di Leonardo, p. 497. 

5 Ibidem, pp. 499-500. “L’Uffizio” consisteva in una serie di messe, celebrate da vari 
sacerdoti nello stesso giorno, richieste dai parenti di un defunto, per il suffragio dell’anima. 

5 Ibidem, pp. 541-542. 

5 Ibidem, pp. 38-40 e fig. 16. 


102 


Ancora su ‘Chaterina’, madre di Leonardo da Vinci 





Episodi del tutto inqualificabili si registrarono nei dintorni di Vinci anche in 
epoca successiva. Ad esempio nel 1708 “vi fu un processo per stupro contro P. 
Francesco Buonfanti di Lamporecchio e un altro, sempre per stupro, ad opera di 
P. Stefano Calzolari di Orbignano”?8. 

Tornando al rettore di Faltognano “che teneva la concubina” la carta antica 
fornisce il nome: era prete Lionardo. 

È stato ormai documentato ad abundantiam che la quasi totalità delle serve, 
o schiave, portava il nome di Caterina, sia in territorio pistoiese’? che in quello 
fiorentino”. 

A Pistoia, e nel contado, sono stati reperiti numerosi esempi nel Tre-Quat- 
trocento. Nella città di Pistoia esisteva lo Spedale di S. Gregorio, dove venivano 
portati i figli nati illegittimi, i cosiddetti “gittatelli”. Alle neonate veniva general- 
mente dato il nome di Caterina. Queste fanciulle poi, nella loro giovinezza, si 
trovavano adibite ad espletare servizi domestici nelle famiglie più abbienti. Come 
detto, non mancavano esempi di ‘Caterina’ schiave, definite “tartare e armene” e 
“circasse e georgiane” (zona del Caucaso)”. 

Le “serve” Caterine, non schiave, prestavano la loro opera in famiglie pistoiesi, 
alcune delle quali ancor oggi esistenti. 

Fra le varie ipotesi di identificazione di una Caterina schiava come madre di 
Leonardo (E. Ulivi, F Cianchi, A. Vezzosi) è da dire che una tale figura compa- 
re, infatti, “nella casa di Vanni di Niccolò di Ser Vanni dal 1446 in poi. Costui 
abitava in via Ghibellina, in Firenze, in una casa che proprio Ser Piero andò ad 
abitare dal 1479, lasciatagli dal medesimo Vanni. E lo stesso Ser Piero era stato 
nominato esecutore testamentario delle ultime volontà di Vanni di Niccolò nel 
1449. Quest'ultimo è menzionato nella portata al Catasto fiorentino del 1480 da 
parte di Ser Piero da Vinci”°, 

Ma, da Firenze, la ‘schiava di Vanni’ sarebbe andata a titolo definitivo in cam- 
pagna, a Vinci, per sempre? E per di più moglie di un uomo poco raccomanda- 
bile di nome Accattabriga (Attaccabriga-Attaccabrighe) cioè persona litigiosa e 
in continuo contrasto con tutti? “L’accomodamento” e la sistemazione ia 
avere luogo, è pensabile con ragionevolezza, con una Caterina già residente nella 


5 Ibidem, p. 38. Non dovettero seguire decisioni di allontanamento poiché, nel 1725, 


quando il prete Calzolari morì, era ancora rettore di Orbignano (Ibidem, p. 424). Circa il 
prete Buonfanti di Lamporecchio, si può ripetere che apparteneva, come i Buonfiglioli, ad 
una famiglia di “buoni infanti” (figlioli di buona donna) (Cfr. note 35-38, supra). Come si 
vede: buon sangue non mente. Lo status di preti concubinari, prima del Concilio di Trento, 
era prassi pressoché consuetudinaria, in specie nelle zone rurali e montane. Non lontano dal 
Montalbano, sull’appennino tosco-emiliano (Pistoia e Bologna), durante i secoli XV-XVI, 
le memorie d’archivio documentano numerose situazioni scandalose (Cfr. R. ZAGNONI, La 
famiglia del prete: preti concubinari nella montagna bolognese, in “La famiglia nella montagna 
fra Bologna, Modena e Pistoia”, Porretta Terme 2021. pp. 73-79). Più di una di queste donne 
si chiamava proprio Caterina (Ibidem, p. 77, 79). 

5 Cfîr.i lavori citati nelle note 2, 5, 6 (M. Bruschi). 

6 Cfr. ilavori citati nelle note 1, 4, 8, 10 (E. Ulivi, E Cianchi, A. Vezzosi, A. Sabato). 

8 Cfr. BruscHI, / ‘da Vinci’, p. 149, nota 21. Per Caterine “serve” cfr. BruscHI, La 
“Chaterina”, pp. 189-196 (note 13, 14, 21, 28-36, 39-40). ULIvI, Sull'identità, pp. 29-30 
(nota 27). 

® Cfr. BruscHi, La “Chaterina” di Leonardo, p.186. 


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Mario Bruschi 





campagna intorno a Vinci. 

C'è poi un particolare documentario a mio avviso altamente significativo: 
nella portata al Catasto del 1487, quando Caterina madre di Leonardo (moglie 
dell’Accattabriga) viene detta ‘d’anni 60°, è definita con l'appellativo di “Monna 
Caterina”. Certamente tale “titolo” non fa pensare a una schiava (o ex-schiava). 

Per gli schiavi esisteva un mercato vero e proprio dove queste persone, maschi- 
li e femminili, si potevano comperare con un contratto ufficiale stilato da notaio. 
Lo stesso Ser Piero da Vinci, padre di Leonardo, nella sua attività notarile rogò un 
certo numero di atti di compravendita di schiavi e di liberatio sclavae. 

Su tutta la vexata quaestio torna all’attenzione il problema della età di Cate- 
rina, madre di Leonardo, nel 1452. Ulivi ha osservato: “A proposito di età, è da 
rilevare che se la “serva” citata nel Catasto del 1447, la sha del testamento 
del Vanni e la “Caterina da Firenze” scomparsa sessantenne nel 1494 fossero la 
stessa persona, ossia la madre di Leonardo, ne deriverebbe che “Caterina schiava”, 
nata nel 1434, era al servizio del banchiere già all’età di appena 13 anni, mentre 
sappiamo che le schiave vendute a Firenze nell’ultimo trentennio del Trecento 
avevano per lo più fra i 15 e i 25 anni, e che la loro età media aumentò nel XV 


secolo”98, 


Riprendendo il discorso sul “prete Lionardo che non tengha la concubina”, 
rettore di Faltognano, in precedenza si è sottolineato il fatto che certe situazio- 
ni, per quanto scandalose, non erano affatto infrequenti. Rimanendo addirit- 
tura proprio nel borgo di Vinci, troviamo un personaggio noto, documentato 
e studiato, di quel tempo: Nanni di Venzo‘*. Oltretutto fu uno dei testimoni al 
battesimo di Leonardo. Si intende qui alludere, nello specifico, a Venzo (padre di 
Nanni) e a una sua certa “qualifica” come risulta dai dati d’archivio. Nel Catasto 
di Vinci dell’ASFi, dell’anno 1427, Marco di Venzo, fratello di Nanni, viene atte- 
stato come “Marco di Venzo di Prete”. Sempre a Vinci, nel popolo di S. Croce, 
un confinante è: “eredi di Franco del Prete”. 

Appare superfluo sottolineare che ‘Prete’ non è un nome proprio di persona 
rientrante nella norma; sembra stare piuttosto indicare una situazione anagrafica 
alquanto anomala e scabrosa. In alcuni casi si ometteva, in altri si dichiarava 
apertamente anche per iscritto, segno evidente che era notizia risaputa da tutti. 

Nella parlata popolare pistoiese, l'epiteto di “figliol del prete” (in uso fino ai 
nostri giorni) equivaleva a “figliol di buona donna”, vale a dire indicante nascita 
illegittima e bastarda. 

Le suddette considerazioni rientrano in quanto sviluppato in precedenza circa 
le famiglie dette “Buonfiglioli, Degľ Innocenti, Degli Esposti, Buonfanti”. 

Lorenzo (1480-1531), figliolo di Ser Piero da Vinci e terzo fratellastro di Le- 
onardo, ha lasciata scritta un’opera intitolata Confessionale (“Confessionario”). 





6 Cfr. ULivi, Sull'identità, p. 30, nota 28. 

$ Nanni di Venzo aveva sposato Fiore, figlia di Barna di Nanni di Meo. Svolgeva Patti- 
vità artigianale di fabbro (“fabro a Vinci”). 

6. Cfr. Archivio di Stato di Firenze, Catasto di Vinci, 132, c. 138. 


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Ancora su ‘Chaterina’,, madre di Leonardo da Vinci 





In essa si trova un'osservazione che sembra davvero alludere a qualche episodio 
vissuto in famiglia, nella fattispecie alla vicenda del padre, della Caterina e di 
Leonardo: “e sono alcuni che useranno un tenpo con una femmina, unde e’ 
segue che n'è figlioli [...] que’ tali che ànno figliuoli o d'una concubina o d'una 
serva, come achade dì per dì”. “Useranno un tempo”: un rapporto e una rela- 
zione breve; “con una femmina”: non con la moglie ma con una donna qualsiasi; 
“come achade dì per dì”: come succede spesse volte. Le conseguenze sono nascite 
di figlioli generate da “concubine o serve”. 

Per amore di completezza di dati, siamo a conoscenza di un’altra informazio- 
ne; quando nacque Leonardo, anche il rettore di S. Lucia a Paterno si chiamava 
Leonardo. Costui, anche notaio come al solito, era Ser Leonardo di Stefano di 
Arezzo. Era stato eletto nel 1450. La nomina ufficiale avvenne il 25 dicembre del 


14519. 


* 


Nella famiglia dei ‘Da Vinci’, prima che al sommo genio, mai era stato impo- 
sto ad un neonato il nome di Leonardo (in seguito vi furono vari “Leonardo” ma, 
ovviamente, in omaggio al parente famoso). 

“Lo status di illegittimità — che determinò anche la scelta di un nome che non 
rientrava in alcun modo nella tradizione di famiglia — costituisce naturalmente 
un elemento di giudizio di cui bisogna tener conto nel momento in cui si tenta 
di compiere una ricostruzione della formazione culturale e grafica leonardesca”®8. 

Faltognano era località conosciutissima, consueta e la a Ser Piero. Assai 
prossima ad Anchiano e non troppo lontana da Vinci. Dovette senza dubbio 
essere una delle mete delle sue continue scorribande giovanili in quel territorio, 
magari andando e tornando da Bacchereto, dov'era la fornace di Lucia, sua ma- 





6 Cfr. BruscHI, La ‘Chaterina’, pp. 196-197. Ancora ai giorni nostri, non è affatto 
sicuro il numero dei figlioli che si possono assegnare a Ser Piero da Vinci, padre di Leonardo. 
Oltre i dodici risultanti fin dall'albero genealogico di Uzielli, dobbiamo aggiungere alcuni 
altri nati e morti poco dopo. Qualcuno parla di sedici-diciotto in totale. Tuttavia non è affatto 
escluso che Ser Piero possa essere stato padre anche di altri figli illegittimi, poco documentati 
e in maniera confusa, oltre a Leonardo, da subito riconosciuto ma con la precisa identità 
(“illegittimo”). Si arriverebbe così, addirittura, ad un numero di 21-23 ame del genio 
(Cfr. ULIvi, Per la genealogia, pp. 34-36). Fra questi, un Domenico Matteo (Ibidem, p. 35). 
In epoca più tarda, ho reperito tra i ‘da Vinci’ esponenti con tal nome: Domenico (1684- 
1752), RET di Matteo Vinci e anche Domenica (morta nel 1694) (Gente di Leonardo, pp. 
569-572). 

Nel suo Confessionario Lorenzo, inoltre, ha lasciata una precisa espressione linguistica: 
“serva et stiava” (c. 155). Non si tratta, evidentemente, della medesima condizione 
femminile. 

Furono usati due sostantivi distinti, non a caso. Il termine stiava (schiava) venne 
utilizzato in seconda battuta e indica senza dubbio un rafforzativo del primo (serva). 
Vale a dire: non solamente a servizio e a disposizione ma completamente sottomessa 
e quasi proprietà privata di altri (Per il Confessionario, cfr. Gente di Leonardo, p. 76 
(nota 142) e p. 380 (nota 714). Anche S. Caterina da Siena, secoli prima, si era 
spesso qualificata e sottoscritta nelle sue lettere, come “Io Caterina serva e schiava”. 

7 Cfr. BruscHI, Gente di Leonardo, pp. 292-294 e fig. 57. 

8 Cfr. M. Cursi, Lo specchio di Leonardo, Bologna, il Mulino 2020, p. 43. 


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Ancora su ‘Chaterina’, madre di Leonardo da Vinci 








dre, e dove poi trascorse sicuramente la più parte del tempo nei primi anni di vita 
lo stesso Leonardo. 

Una delle ipotesi relative alla identificazione di “Chaterina mater’, come 

riportato sopra, è quella che la vorrebbe schiava (forse di Vanni di Niccolò di 
Ser Vanni). 

A tal riguardo, fra i beni delle chiese di S. Lucia a Paterno e di S. Lorenzo Ar- 
niani (unite nel 1587), redatto nel 1627, compare un micro-toponimo piuttosto 
inusuale e di non facile spiegazione: i! Turco. Oltretutto era dislocato, guarda 
caso, a Faltognano. Fu così descritto: “Un pezzo di bosco querciato e scopato [...] 
in luogo detto ż¿/ Turco popolo di S. Maria a Faltognano Comune di Vinci a 1° il 
muro del Barco nuovo del Granduca, a 2° il viottolo, che va al Pruno [Orbigna- 
no], a 3° Giusto della sudicia a 4° Antonio di Papino da Vitolini [...]”®9. 

Ancora nella prima metà del sec. XVII, un elenco di beni appartenenti alla 
Cappella di S. Giuseppe in S. Croce di Vinci riveste indubbio interesse. Tali 
beni (un podere, un boschetto, pezzi di terra, una selva) erano situati nel piccolo 
territorio di Paterno, Anchiano e Faltognano. Testimoniano fra l’altro i rapporti 
strettissimi (di personaggi e di patrimoni) tra i ‘Da Vinci’ e la famiglia Volpi (del 
Volpe)”. 

Innanzitutto un podere in luogo detto la Noce consistente in due case (una 
da padrone e una da lavoratore), con frantoio e “Cella rovinata”, colombaia, aia 
e due orti. In questa località avevano terreni i ‘Da Vinci’ fin dalla metà del Quat- 
trocento. 

Un luogo detto /e Noci (terra boscata) ho trovato anche nel 1587, tra i beni 
della chiesa di S. Amato di Vinci. I confinanti erano: i beni della Nunziata de 
Bellucci, Andrea Vezzosi e “la strada che divide il monte”7!. Era vicino al l.d. “il 
Baratto verso Rigoli”. 

Nel podere /æ Noce un confinante su due lati era Ottavio “del Pannocchia”. 
Gli esponenti della stirpe detta “del Pannocchia” erano in realtà della famiglia 
Parentini. Costoro, nel 1505, li troviamo implicati come lavoratori mezzadri in 
località “la Croce” (a S. Maria al Pruno-Orbignano), nell’eredità delle proprietà 
lasciate da Francesco da Vinci, fratello di Ser Piero e zio di Leonardo”. 

Poi un “boschetto a uso di ragnaia” in |.d. ir SR (forma dialettale per 
(Pao o di volpi). La ragnaia era un dispositivo di reti tese per la cattura dei 
volatili. In altro pezzo di terra un confinante: Domenico Volpi. 





© Cfr. BruscHI, Gente di Leonardo, p. 327. Curiosamente, Leonardo stesso fece la co- 
noscenza di un fanciullo “scognominato” ‘del Turco”. Alla fine del 1497 “compare il ricordo 
dell’esecuzione musicale di un fanciullo prodigio, Taddeo di Niccolò del Turco, di appena 
nove anni” (Cfr. Vecce, Leonardo, p. 167). 
Tracce di questo micro-toponimo sono riscontrabili anche sulla montagna pistoiese, 
ad es. nel territorio dell’ Alto Reno-Orsigna: Pian del Turco. “L'origine si A risalire, 
per tradizione, al proprietario che sarebbe stato di origine turca, o, secondo un’altra 
versione, ad un eremita, detto “il Turco”, schivo ed amante della solitudine” (Cfr. 
Dora Ti dell’Alto Reno e dell’Orsigna, a cura di P. Balletti, Pistoia 
2016, p. 101). 

20 Pf BruscHI, Gente di Leonardo, pp. 169-170. 

7" Ibidem, p. 513. Per la “casa della Noce”, anche Vinci di Leonardo, p. 291. 

7 Ibidem, p. 168. Inoltre La vera immagine, p. 200. 


106 


Nel l.d. la Chiusura un confinante sono i “beni livellari de Larini” e un altro 
“via che va a Capannile”. Quest'ultimo è l’unico confine di una terra lavorativa in 
l.d. la Fettuccia. La famiglia Larini fu coinvolta con i ‘Da Vinci’: nel 1686 Piero 
di Giovanni Larini ebbe una causa con Piero di Lorenzo di Piero di Lorenzo di 
Domenico di Ser Piero da Vinci”. A Capannile di Faltognano abitarono discen- 
denti ‘Da Vinci” ancora per secoli; ma vi era pure il l.d. Capannile a Orbignano, 
anch'esso abitato da rami familiari ‘Da Vinci’. 

“Un pezzo di selva da pali di castagnio “in l.d. alla Fonte Scalina aveva, fra 
altri, confinanti: “il Brotaccio, beni di Domenico Volpi, Rio di Paterno, beni 
della chiesa di Faltugniano”. Al “Brotaccio” (Botro-Broto-Brotaccio) i ‘Da Vinci” 
avevano terreni da antica data, come già documentò Uzielli. Fu luogo “ricordato 
varie volte da Leonardo stesso, nel territorio di Vinci, fra Paterno e Orbignano. 
Agli inizi del Cinquecento, i “del Pannocchia” sono ricordati con il podere del 
“Botro”7. 

Infine, fra i beni della Cappella di S. Giuseppe, quello che qui interessa più di 
tutti: un pezzo di terra in l.d. la Lama di Turcho (conf.: via che va a Capannile, 
beni livellari de Larini). 

Dunque, a Faltognano, oltre il toponimo il Turco, anche la Lama di Turcho. 
Per lama si intende un luogo acquitrinoso con acque stagnanti perenni. Tutto il 
Montalbano ne era (e ne è) ricco e inoltre: la querceta del Turco. 

Nel 1564, le carte antiche hanno rivelato dati circa un luogo con una lama 
a Paterno: la Lama Anchianese”. Molto importanti i confinanti: gli eredi di Ser 
Piero d’Antonio di Ser Piero da Vinci (padre di Leonardo) e gli eredi di Papino di 
Buto, due proprietari che avevano avuto molti beni terrieri = di loro “attaccati”, 
da antica data. 

In un elenco di beni della chiesa di Paterno del 1742, ma che riprendeva da 
uno precedente del 1568, si ricordano ancora, con tanti altri, questi toponimi e 
famiglie confinanti. 

Fra “pezzi di terra, pezzi di selva, terre boscate” ancora Lama Anchianese”. 

A Faltognano, nel 1627, in l.d. il Turco, è stato in precedenza menzionato il 
confinante “Giusto della sudicia”; nel 1742 (ma: 1568) compare, sempre a Fal- 
tognano, “un pezzo di scopeto, castagni e querce” con un confinante: “eredi di 
Giustarello” e “Lama di Giusto”. 

Erano discendenti dei ‘del Volpe’ (Giusto di Nanni Lippi, padre di Orso)? 

Tornando alla piccola località di Faltognano chiamata “il Turco”, dove era 
anche “la Lama di Turcho”, non è affatto improbabile che in passato vi si fosse 
stanziato un uomo proveniente dall Europa orientale e in tal modo genericamen- 
te apostrofato, non conoscendo magari il vero nome o essendo di troppo diff- 
cile pronuncia. Città come Firenze e il suo contado, come pure Pistoia e il suo 


73 Ibidem, p. 168. Renzo Cianchi reperì un esponente di questa famiglia nel 1478, 
forse il capostipite (cfr. CIANcHI, Ricerche, p. 69). Citò: “...Pasquinum Andree olim Mei 
Pieri Vannucci alias de Larino populi Sanctae Marie de Faltognano” (Cfr. BruscHI, Gente di 
Leonardo, p. 100, nota 185). 

7% Gente di Leonardo, p. 169. 

7% Cfr. BruscHI, Gente di Leonardo, p. 595, ad indicem; BruscHi, Confini leonardiani, 
p. 65, ad indicem. 

7% Cfr. BruscHI, Confini, pp. 23-28 


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Ancora su ‘Chaterina’,, madre di Leonardo da Vinci 








contado, pullulavano, come detto, nel Tre-Quattrocento, di serve (o più spesso 
schiave) non italiane. E con la specificazione di “turco” non si indicava genti della 
Turchia; con questo termine si comprendeva ogni popolo originario dell’ Europa 
dell’est, in particolare non cristiano. E altrettanto superfluo ripetere che la mag- 
gioranza delle giovani serve/schiave portava il nome di Caterina. 


* 


Alla luce di quanto sopra, potrebbe presentarsi una ricostruzione ipotetica 
(ma, a parer mio, piuttosto SAR delle vicende, degli spostamenti, delle 
varie collocazioni della Caterina madre di Leonardo e, pertanto, di una sua pos- 
sibile identificazione. 

Crediamo sia da pensare proprio alla Caterina qualificata come “la ragazza di 
Mattoni”, figliola di Meo di Lippo di Nanni (“Buonfiglioli”), altrimenti detto 
Meo Lippi di Vinci. 

Fu ipotesi già concepita da Renzo Cianchi e poi scartata sulla base dell’età. 
Abbiamo dimostrato la non sicura attendibilità dei riferimenti anagrafici in que- 
sto senso che, di conseguenza, fecero abbandonare, in maniera sbagliata secondo 
me, le ricerche su questa figura femminile. Aveva seguito “una falsa pista”, secon- 
do Ulivi, ma, a mio avviso, egli aveva invece imboccato, con buona probabilità, 
la strada giusta. 

Dobbiamo considerare la compenetrazione con la famiglia Telli, sempre in 
“Mattoni” e quasi uniti di casa con Giusto di Nanni Lippi (del Volpe), padre di 
Orso. 

I ‘del Volpe’ intrattennero rapporti strettissimi con Faltognano (ripetiamo 
soltanto il matrimonio di Maria, figlia di Caterina e dell’Accattabriga, con un 
Vannucci di Faltognano). Ritornavano poi sempre a Campo Zeppi. 

Può essere accaduto che fosse Caterina “a tutto servizio” dal “prete Lionardo” di 
Faltognano che proprio nel 1451, guarda caso, i documenti d’archivio attestano 
che “teneva la concubina?”. 

Sarà stata certamente conosciuta (e frequentata come possibile ipotesi) per i 
motivi più sopra addotti, seppur saltuariamente e nascostamente, da Ser Piero. 

Per non aumentare lo scandalo del prete, il neonato sarà stato “assegnato” a 
Ser Piero che, da parte sua, sic stantibus rebus non poteva negare. Così fu colta 
anche l'occasione per porre fine alla condotta riprovevole, e da tutti conosciuta, 
del prete di Faltognano”. 

Nonostante tutto, il bambino fu accettato con grande contentezza di tutti, 
soprattutto dai nonni Antonio e Lucia, ormai anziani e privi di nipoti. Dagli altri 
figlioli Violante e Francesco (escludendo Giuliano praticamente nato e morto) 
non nacquero eredi. Fu un atto di riparazione pro bono pacis delle parti in causa, 
facendo buon visto al fatto ormai accaduto. 

Quindi dal l.d. Mattoni a Faltognano per poi passare da Anchiano (dove av- 


7 Forse non sarà un caso che, di lì a pochi anni, nel 1455, si provvide alla nomina del 


nuovo rettore della chiesa di S. Maria a Faltognano. Essendo di elezione popolare, come al so- 
lito parteciparono i capofamiglia della parrocchia, in questo caso in numero di 16. Fra di essi, 
rappresentanti delle famiglie Del Volpe, Vannucci, Cambiuzzi (ASFi, Notarile Antecosimiano, 
1159, c. 20°). 


108 


venne il parto del bambino illegittimo) e poi rientrare a Campo Zeppi in S. Pan- 
taleo, come moglie dell’Accattabriga, con matrimonio, come detto, di comodo e 
concordato fra tutti. Per una supposta ascendenza orientale (ma non per forza da 
schiava) di Caterina potrebbe risultare evocativo il toponimo “il Turco” di Falto- 
gnano presente nei tempi passati proprio nel territorio di Faltognano. 


* 


La ricostruzione dell'intera vicenda, per me da ritenersi convincente, sembra 
indirettamente e inaspettatamente trovare una sorta di conferma in un documen- 
to da me scoperto e appena pubblicato. 

Si tratta del’ INVENTARIO di oggetti esistenti in una casa di Vinci (acqui- 
stata da Ser Piero dai Cecchi di Vinci nel 1479) redatto “alla morte di Ser Piero” 
(1504). 

Si trattava di “cose di casa” appartenute a Ser Piero e a “Monna Chaterina”. 
Quest'ultima non era affatto la madre di Leonardo ma ‘Caterina d'Altino’, vale a 
dire la moglie di Altino di Ser Mainardo della famiglia Cecchi di Vinci. 

Ma, curiosamente, nell’inventario è ricordata, fra le altre cose, “una tovagliola 
bella di verghe di bambagia”?8. 

Di più. Si precisò che “era di Orso di Giusto”, appartenuta, o meglio di pro- 
prietà, di costui. 

La presenza nella casa di tale oggetto di ricamo, anche prezioso (“bella”), da 
usare nella cucina domestica per le occasioni di festa, il cui proprietario era stato 
Orso di Giusto, appare a qualsiasi effetto del tutto inspiegabile e ingiustificabile. 

Di contro, se si inserisce la notizia nel contesto dl complesso panorama evi- 
denziato in precedenza, “la tovagliola bella” e il suo proprietario troverebbero 
spiegazione adeguata. 

Ad ogni buon conto, se non si valuta in maniera positiva e accettabile tale 
ipotesi, rimarebbe da spiegare, come problema insoluto e di cui non si capisce e 
non si giustifica la presenza, il mistero della “tovagliola bella” di Orso di Giusto 
nella precisa casa di Vinci. 

Al termine di queste note per la ricerca dell'identità di “Chaterina mater 
si riporta quanto Marco Cursi, da pochissimo tempo, sintetizzando, ha scritto: 
“Diverse ipotesi sulla sua identità [di Caterina] sono state presentate negli ultimi 
anni: una schiava del banchiere fiorentino Vanni di Niccolò di ser Vanni [F Cian- 
chi 2008]; Caterina di Antonio di Cambio [Ulivi 2009]; Caterina di Meo Lippi 


#8. Cfr. BruscHI, Ser Piero e "Monna Chaterina”, cit. in nota 42, p. 220. Al termine 
dell’inventario si ricorda un “Pascuino di Pagolo”, in maniera stringata, “da raccomandare”. 
Pensiamo sia da riconoscere in costui, con buona probabilità, un esponente della famiglia 
Baldacci. Un buon numero di essi sono documentati. In Gente di Leonardo è memoria di 
Paolo [Pagolo-Pavolo] Baldacci: nel 1516 a Paterno (p. 298); nel 1546 a Orbignano (pp. 
406-407); nel 1564 a Faltognano (p. 94). Pasquino Baldacci: nel 1523 fra i beni dell'Opera 
di Vinci, nella valle di S. Pantaleo (in Quartaia) (p. 116): nel 1546, fra i beni di S. Amato 
(in Quartaia) (p. 81); nel 1564, fra i beni di Paterno (Campuccio di Anchiano) (p. 300); nel 
1627, fra i beni di Paterno (Anchiano) (p. 324); nel 1628, fra i beni della chiesa di Vinci, 
nella valle di S. Pantaleo (p. 108); nel 1687, a Paterno (economo spirituale di S. Lucia: prete 
Pasquino Baldacci) (p. 331). 


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da Vinci [Kemp e Pallanti 2017]”??. 
Ma, aggiunge: “Nessuna di esse viene ritenuta soddisfacente da Vanna Arrighi 
[2019], quando le passa in rassegna”. 


* 


Bisogna infine sottolineare il fatto che le “Caterine” emerse finora, dopo ri- 
cerche accurate di vari studiosi, dalle antiche carte, e analizzate e confrontate fra 
di loro, non sono certamente tutte quelle che vissero a Vinci e dintorni (o anche 
a Firenze) nel Quattrocento. Altre possono rimanere tuttora celate in documenti 
non ancora conosciuti; altre ancora, non ricordate nelle carte scritte del passato, 
non verranno mai alla luce e non aiuteranno la nostra conoscenza. 

Di alcune “nuove” Caterine si può dare notizia, a mò di esempio: nel 1446 
si celebrò un matrimonio fra Stefano Cei, ospitalario dell’ospedale di Vinci, con 
Caterina “filia olim Bruschini de Castro Florentino”89; nello stesso 1446 Caterina 
di Antonio di Giunta di Tugio sposò un certo Andrea di Lazero. Nel secondo 
sposalizio l'unione avvenne fra famiglie di orciolai in fornaci di Bacchereto®!. 

Nel tempo, la tradizione del nome Caterina si perpetuò nei medesimi luoghi. 
Nel 1564, ho trovato ricordo del battesimo di una Caterina a Campo Zeppi*; 
negli stessi anni (1564-1568), fra i beni di proprietà della chiesa di S. Maria a 
Faltognano, compare “Monna Chaterina di Sano”. Fra i confinanti: erede di Ser 
Domenico di Ser Piero da Vinci, Piero di Guglielmo, eredi di Ser Piero d’Anto- 
nio di Ser Piero (tutti della famiglia ‘Da Vinci’ e parenti stretti di Leonardo); fra 
i toponimi: Anchiano, Lama Anchianese®. Nel 1577, nella chiesa di S. Croce a 
Vinci, si sposò una figliola di Donato Scarpelli di nome Caterina**. 

Nel 1567, si fa memoria di una “Catherina di Salvestro”, sempre a Vinci. 
Nello stesso documento, curiosamente, viene menzionato ‘prete Lionardo” di 
Giovanni”®, che sposò tale Caterina con “Piero di Matteo mamantino”. Nel 
1566, a Vinci, si battezzò un bambino di nome Lionardo; la comare fu “Monna 
Catherina”5°. Un'altra Caterina fu battezzata a Vinci nel 15748 e ancora una 
‘Chaterina’, in veste di comare, è ricordata nell’anno 157288. 

Ma nella stessa stirpe dei ‘Da Vinci”, tra Sei e Settecento, ho potuto docu- 
mentare una serie inedita di fanciulle col nome di ‘Caterina’. E altrettanto è 





2 Cfr. Cursi, Lo specchio di Leonardo, p. 42, nota 40. Per le opere degli autori citati da 
Cursi, ivi Riferimenti bibliografici, pp. 195-221. 

80 Cfr. ASFi, Not. Ant. 14488, c. 99v. 

8! Cfr. A. Vezzosi, Leonardo e Bacchereto. “Terra da far boccali”, Firenze, Polistampa 
2020, p.235. 

8. Cfr. BruscHI, La fede battesimale, p. 17, 28 (fig. 7). 

8. Cfr. BruscHI, Gente di Leonardo, pp. 87-96. Un “Sano” compare nella stessa famiglia 
‘Da Vinci’ (Sano di Piero di Lorenzo di Ser Domenico). Morì nel 1607 (Gente di Leonardo, 
pp. 564-566). 

# Cfr. BruscHI, Abitanti di Vinci, pp. 27-28. 

# Ibidem, p. 34 (nota 43). 

86 Cfr. BruscHI, La fede battesimale, p. 17. 

8 Ibidem. 

8 Ibidem. 

9 Bruschi, Gente di Leonardo, pp. 573-576. 


110 


Ancora su ‘Chaterina’,, madre di Leonardo da Vinci 





possibile dare conto nelle famiglie di alcuni testimoni al battesimo di Leonardo, 
come Papino di Nanni Banti, Nanni di Venzo, Piero di Malvolto?9. 


Appendice documentaria 


Si riportano qui di seguito notizie d’archivio estrapolate dai Catasti di Vinci 
dell’Archivio di Stato di Firenze e, segnatamente dalle filze 132, 750, 871, 1130. 
È da dire che esse sono frutto delle ricerche svolte da Alberto Malvolti. Tali filze 
sono state indagate e utilizzate da Elisabetta Ulivi (nel 2008-2009) e ancor prima 
da Renzo Cianchi (nel 1975). In questa sede vengono resi noti un buon numero 
di dati aggiuntivi. 

Cianchi aveva compulsato molte altre filze dei Catasti; qualcuna in più di 
queste anche Ulivi (Per la ricognizione precisa delle filze da parte dei due studiosi, 
cfr. le note 14 e 15 del presente studio). 

Del Notarile Antecosimiano Malvolti aveva ricercato nelle filze 12174, 14448, 
1159, 3455, 6173, 3457, ugualmente citate (ad esclusione della 14488) da Ulivi. 

L'indagine di Malvolti nell’ASFi è stata alla base del suo studio su Piero di 
Malvolto, uno dei testimoni al battesimo di Leonardo (Cfr. A. Marvorti, Alla 
ricerca di Piero di Malvolto. Note sui testimoni del battesimo di Leonardo da Vinci, 
in “Erba d'Arno”, n° 141-142, 2015, pp. 37-60). I dati d'archivio citati in questo 
studio sono da considerare solo una minima parte di quelli da lui scandagliati 
(excerpta). 


* 


Ringrazio vivamente e doverosamente l’amico Alberto Malvolti che, con squi- 
sita gentilezza e con grande liberalità, ha consentito la divulgazione delle risultan- 
ze del Catasto e del Notarile Antecosimiano fiorentini da lui reperite. 


ASFI, Catasto di Vinci, 132 [1427] 

c. 521: Antonio del Volpe 

c. 235: Bartolomeo di Giovanni Marchiani 

c. 266: Barna di Nanni di Meo 

c. 412: Bartolomeo di Luparello [Ha 75 anni. Suo figlio Antonio, di 35 anni, 
ha una figlia Caterina di anni 11] 

c. 117: Giovanni di Tacchino 

c. 311: Giuliano di Menicho di Meo 

c. 416: Giovanni di Francesco Marchesi 

c. 488: Luparello di Meo 

c. 138: Marco di Venzo di Prete [fratello di Nanni di Venzo] 

c. 5: Nanni di Lapo Banti [padre di Papino] 

c. 119: Nanni di Luparello [parente di Nanna Luperelli. Ha casa nella piazza 
di Vinci e alcuni terreni uno dei quali confina con Antonio di Lionardo da Firen- 
ze. Ha 76 anni “non può fare nulla ed è gottoso”. Sua moglie Agnola ha 68 anni. 
Si trova anche nel Comune di Vitolini (c. 528). 





%® Cfr. Appendice documentaria. 


111 


Mario Bruschi 





c. 427: Antonio di Piero Martini [Detto “da Vinci”. Allibrato nel popolo di S. 
Lucia a Paterno. Ha casa sul mercatale di Vinci nella quale abita, conf. con Maso 
di Piero Martini. Possiede vari terreni che rendono “cholla mia faticha”: grano, 
miglio, lupini, vino barili 40, olio un mezzo orcio] 


Bocche 

Antonio a. 50 
Filippa (moglie) 42 
Meo (figlio) 17 
Matteo (figlio) 3 


[La Portata fu scritta da Domenico di Bertone da Vinci] 

c. 429: Piero d'Andrea di Bartolino da Vinci [Piero di Malvolto, testimone al 
battesimo di Leonardo]. Allibrato nel popolo di S. Lucia a Paterno. Ha podere 
con casa e terra lavorativa, vignata e prodata, con bosco, nel Comune di Vinci 
in l.d. a Rio Morticino. Fra i confinanti del podere: Monna Bartolomea “donna 
fu di Ser Piero di Ser Guido”; Antonio di Cecco Nardi (Cfr. BruscHI, Gente 
di Leonardo, p. 357); Domenico di Biagio (con la qualifica di Ser) (Gente di L., 
pp. 70-72); Nardo di Vita (Gente di L., p. 34): Un pezzo di terra nelle piagge di 
Merizana (Faltognano): conf. Meo Vannucci (Gente di L., p. 100, nota 185). Sul 
podere anche un paio di buoi e un asino. Rende grano, miglio, spelda, vino barili 
25, saggina. Altri pezzi di terra in Val di Streda. Un oliveto a Anchiano: conf. 
Meo È io eredi di Francesco Marchesi. Una casa con terra lavoratia, ulivata, 
vignata e boscata in l.d. Anchiano. 

Un pezzo di terra sotto il Castello di Vinci, conf. Monna Margherita donna 
di Bartolomeo Dragonetti (Cfr. ULIvi, Sull’identità, p. 35). Lavora questi pezzi 
“Cieo di Stefano”, un pezzo di bosco in l.d. Botro Aleano (Aliano — Bacchereto?), 
conf. eredi di Venzo di Prete. Una casa posta sulla piazza di Vinci nella quale abita 
con la famiglia, conf. Iacopo di Giuliano di Piero Bonaccorsi (Ulivi, p. 33). Un 
poco d’orto che si “seminerebbe con due scodelle di grano”. 

a c. 430: una lista di aggiunte (una muletta piccina, una cavalla vecchia, venti 
pecore di pregio, una vacca con vitello). A c. 431 è interposta la portata di Anto- 
nio di Francesco Alberti di S. Lucia a Paterno (Gente di L., p. 296). 

- c. 434: Il soprascritto Piero di Andrea Bartolini è d’età di anni 16. 

Monna Fiore sua madre a. 50 

Monna sua sirocchia [sorella] a. 14 

Deve dare annualmente staia 24 di grano a Monna Bertina sua avola “cioè 
madre fu di suo padre”. 

[La portata fu scritta a preghiera e a richiesta di detto Piero e di Antonio di 
Bartolino suo zio carnale e governatore di Piero e di sua famiglia]. 

- Barna di Nanni di Meo da Vinci 

Una casa con terra a Zigliano, conf. Piero di Bartolomeo di Lapo. Terra a 
Capalle. Una casetta nel Castello di Vinci. Terra boscata alla Mignattaia. Lavora 
i beni egli stesso. 


Bocche 
Barna di Nanni a.46 
Monna Ghita sua madre a.86 


112 


Ancora su ‘Chaterina’,, madre di Leonardo da Vinci 





Monna Niccolosa sua donna a.40 

Fiore sua figliola a.16 

Domenica sua figliola a.14 

[La portata è scritta da Domenico di Bertone da Vinci]. 


- c. 138: Marco di Venzo di Prete e fratelli da Vinci [Nanni, Pippo, Meo] 
Bocche 

Marco di Venzo a.43 

Meo di Venzo a.38 

Pippo di Venzo a.34 

Monna Francesca loro madre a.62 

Monna Rosa moglie di Marco a.38 

Maria e Fiorina fali di Marco 

Antonia donna di Meo a.25 

Maddalena figliola di Meo a.2 

Venzo figliolo di Meo mesi 4 

Pippa donna di Pippo a.24 

Benedetto figliolo ti Pippo a.6 

Pagolo di Pippo a.2 

Nanni loro fratello d’età d’anni 20 “sta per fante con altrui”. 
[La portata fu scritta da Domenico di Bertone]. 


- c. 5: Nanni di Lapo Banti [padre di Papino] 

Una casa in l.d. in borgo, conf. Biagio di Nanni (Gente di L., indice, p. 586). 
Nella casa: pentole, orcioli, masserizie da pizzicagnolo. Possiede un’asina 

Bocche 

Nanni a.62 

Caterina sua moglie a.45 

Papino suo figlio a.28 [nel 1452 testimone al battesimo di Leonardo] 

[La portata fu scritta da Biagio di Nanni da Vinci]. 

- c. 6: Simone di Venzo da Vinci, sarto abitante in Firenze. 


ASFI, Catasto, 750 

Segnato sul dorso: 1451 

- c. 677: Ser Luca d’Antonio di Francesco da Vinci notaio fiorentino [della 
famiglia Ticci] 

- c. 679: Ser Domenico di Antonio Bianconi possidente in Campo Zeppi. 
Monna Caterina sua donna ha 35 anni (Gente di L., p. 45; Ulivi, p. 32) 

- c. 721: Piero di Andrea di Giovanni Buti [padre dell’Accattabriga]. Ha casa e 
terra a Campo Zeppi. 

Andrea “di cui non si ha novelle”. 

- c. 739: Piero di Domenico di Giovanni (Cambini?) 

Nel borgo di Vinci confina con casa con Antonio di Ser Piero di Ser Guido. 
Tra le sti una Caterina sposata (?) col figlio di Antonio, di anni 29 [Notizia 
alquanto confusa. Gente di L., pp. 30-31]. 

- c. 741: Matteo di Marco di Giovanni Buti: terra in Campo Zeppi. 

- c. 745: Antonio di Cambio ha una figlia Caterina di anni 13 [Ulivi, pp. 40-41]. 

- c. 747: Pippo di Nardo: beni confinanti con Marco di Venzo e con Piero di 


113 


Mario Bruschi 





Andrea Bartolini 

- c. 763: Marchione di Michele di Francesco Alberti di Vinci [Gente di L., p. 
293]. Tra i confinanti: Andrea del Cipollino 

- c. 790: Stefano di Andrea Vezzosi a S. Amato ha un figlio di nome Vezzoso. 

- c. 814: Piero di Monte di Pasquino. Ha mezza casa in Campo Zeppi, conf. 
Piero di Andrea di Giovanni Buti. 

- c. 833: Piero di Meo Vannucci 

- c. 835: Meo di Nanni del Volpe [Gente di L., p. 339; BruscHI, Ser Piero e 
Monna Chaterina, pp. 223-224]. 

- c. 857: Nardo + Da tiene 30 capre da Papino di Nanni di Francesco 
Marchesi da Vinci. 

- c. 858: Piero di Andrea Bartolini 

Ha casa “per suo abitare” sulla piazza di Vinci. Pezzi di terra nella valle di Vin- 
ci; in l.d. Altano; un “poderettino” in l.d. Valdicicca (con un bue). 


Bocche 

Piero a.45 

Madonna Menicha (Monna Domenica) sua donna a.36 

Andrea suo figliolo a.20 

Lisa sua figlia a.19 

Monna Caterina donna di detto Andrea a.16 

Bartolomeo suo figliolo a.10 [Ulivi, p. 32]. 

- c. 860: Matteo di Bartolomeo Dini da Vinci 

Una parte di casa di abitazione con terra in l.d. al Poggiarello (Poggerello), 
conf. Piero di Andrea Bartolini, Vannuccio di Bartolomeo Dini [Ulivi, p. 35]. 

- c. 871: Papino di Nanni [Banti]. 

Ha casa nel borgo di Vinci, possiede diversi terreni e varie bestie. Ha 50 anni 


Bocche 

Nicolosa moglie a.40 

Guglielmo figliolo a.10 

Nanna sua sirocchia a.8 

Giovanni suo fratello a.5 

- c. 878: Marco di Venzo da Vinci 

Possiede terreni, pezzi di bosco e una casetta nel borgo di Vinci, conf. Antonio 
di Ser Piero da Vinci, Domenico di Piero Cambini. Ha venduto terra in l.d. Vi- 
gnale e Morteto a Piero di Biagio di Nanni Luparelli da Vinci [Gente di L., p. 369]. 


Bocche 

Un fratello di anni 70 [Pippo] 

Pippa sua moglie 

Betto [Benedetto] figliolo di Pippo 

Pavolo di Pippo 

Betta di Pippo 

Nanni fratello di Marco a.50 

Fiore sua donna a.36 

[Il fratello Venzo nel 1448 risulta morto, Gente di L., p. 149 — Marchus olim 
Venzi] 


114 


Ancora su ‘Chaterina’, madre di Leonardo da Vinci 





Maria figliola di Nanni a.16 (maritata) 

Caterina figliola di Nanni a.14 [Ulivi, p. 32. Nella portata al Catasto del 
1459: 18 pt 

- c. 918: Michele e Salvi di Antonio di Salvi [Gente di L., pp.148-149] 

Possiede metà di una casa “per suo habitare” con Michele suo fratello nel 
Castello di Vinci. 

- c. 932: Erede di Domenico di Bertone e Monna Lisa fu sua donna [testimo- 
ni al battesimo di Leonardo]. 

Monna Lisa a.60 

Terra nella valle di S. Pantaleo 

- c. 934: Barna di Nanni di Meo [marito di Monna Niccolosa, di Orbignano 
— Malvolti, Alla ricerca, p- 45]. 

Casa per suo abitare in l.d. Tigliano. Terreni a Tigliano, Capalle. 

“Il detto Barna è morto più mesi fa [1451]. Lasciò i beni a Fiore sua figlia (e 
oggi donna di Nanni di Venzo fabbro a Vinci) e a Menica (Domenica) sua figlia” 
(e oggi donna di Piero di Malvolto da Vinci)”. 

- c. 948: Meo di Antonio Martini da Vinci. 

- Ha casa nel borgo di Vinci e terre in Val di Streda e a Merizano, conf. Nanni 
di Luparello, Biagio di Nanni di Luparello, Papino di Nanni di Lapo Banti 

- c. 949: “Beni acquistati come erede di Monna Pippa donna che fu di Anto- 
nio di Piero Martini mia madre”. 


ASFI, Catasto, 871 [1460] 

- c. 17: Piero di Andrea 

Antonio di Piero di Andrea di Giovanni (Buti) 
[Accattabriga] 

Antonio a.30 

Monna Caterina sua donna 

Piera e Maria sue figlie 

[Monna Caterina: MADRE DI LEONARDO]. 
- c. 136: Iacopo di Piero di Giovanni Buti [fratello dell’Accattabriga?]. 
- c. 155: Meo di Piero di Bartolomeo a.40 
Caterina sua donna a.40 

Filippo figliolo [Ulivi, p. 33]. 


Catasto, 871, aggiunte [s.a.-1460?] 

- c. 176: Marco di Venzo a.80 [1464?] 

Bartolomea a.62 

Pippo suo fratello a.66 

Pippa sua donna a.52 

Betto suo figliolo a.38 

Pavolo suo fiole a.38 (?) 

Nanni di Venzo a.53 

- c. 180: Menico di Simone [A Bacchereto (metà ’400): Martinus Simonis, 
Johannes Simonis Monis. Gente di L., p. 353, 354, 357]. 

Detto Menico vuole uscire dal Comune di Vinci e tornare a Bacchereto dove 
abita e dove ha tutti i beni. In quello di Vinci non ha più nulla. 

- c. 211: Nanni di Venzo di Prete a.60 [s.a.] 


115 


Mario Bruschi 





Fiore sua donna a.45 

Caterina figliola a.18 [Nel 1451 a.14; nel 1459 a.18!]. 

Baldassarre figliolo a.20 

Simone ATA a.7 

Monna figliola a.5 

- c. 251: Papino di Nanni di Lapo [Banti] 

Ha casa nel borgo di Vinci con bottega di orcioli a vendere [non menzionato 
in A. Vezzosi, Leonardo e Bacchereto] 

Bocche 

Papino a.51 

Guglielmo a.20 

Giovanni a.14 

Giuliano a.6 

Francesco a.3 

Nanna a.17 

Maria a.10 

Caterina a.6 

Lena a.4 

Margherita a.3 

Niccolosa sua donna a.40 


- Piero di Andrea Bartolini [Piero di Malvolto]. Ha casa nella piazza di Vinci, 
alcuni terreni e buoi, terra in l.d. Merizano. 

Bocche 

Piero a.57 (a lato: morto) [s.a.] 

Monna Domenica sua donna a.43 

Andrea figliolo a.27 

Caterina donna di Andrea a.23 [UZivi, p. 32: nel 1451 a.16, nel 1459 a.23] 

Bartolomeo figliolo di Piero a.17 

Cecca figliola di Andrea a.4 

Giovanni di Andrea a.2 


ASFi, Catasto, 1130 [1487] 

Bartolomeo di Piero di Andrea Bartolini [figliolo di Piero di Malvolto] 

Bocche di maschi 

Bartolomeo a.52 

Domenico figliolo di Bartolomeo a.23 

Piero figliolo di Bartolomeo a.20 

Guglielmo di Bartolomeo a.19 

Antonio figliolo di Bartolomeo a.6 

Francesco di Bartolomeo a.6 (?) 

Luca di Bartolomeo a.2 

Bocche NE 

Violetta donna di Bartolomeo a.40 

Domenica madre di Bartolomeo a.70 
* 


ASFi, Notarile Antecosimiano, 12174 [1425] 
- Ser Luca di Francesco dei Ticci [Ser Luca di Antonio di Francesco dei Ticci] 


116 


Ancora su ‘Chatering, madre di Leonardo da Vinci 





Testamento di “Franciscus olim Marchesis” del popolo di S. Lucia a Paterno. 
Viene menzionata una casa con cella in Anchiano. 

- Notarile Antecosimiano, 14488 [1422-1454] 

- c. 94: Testamento di “Antonius Dominici Niccholai vocatus Toncello” di Ca- 
lappiano (Cerreto Guidi). 

La moglie del testatore è “Caterina filia olim Nannis [...] de Vincio” [1446] 

- c. 96: Donna Bartolomea vedova “filia olim Martini Cionelli de Vitolino 
et uxor olim Dominici Nannis Bertini de Vitolino “delega Piero Lupi Cristofori 
come mundualdo. Dona a “Iacobo aliter Papo Antonii Francisci de Cerreto Gui- 
di abitante a Vitolinio” le sue doti [Gente di L., p. 471, 475]. 

- c. 97: [1446] Piero Lupi di Vitolini e Giustino di Antonio di Vinci fanno 
compromesso “in Arrigum Johannis de Alamania” [Arrigo di Giovanni tedesco, 
testimone al battesimo di Leonardo]. 

- c. 98": Compromesso fra Arrigo di Giovanni tedesco [“de Alamania”] e Piero 
di Andrea del Vacca [padre dell’Accattabriga] 

- c. 98": Vendita rogata a Vinci di una casa a Faltognano [1446]. 

- c. 99: [1446] Atto pubblico “in castro Vinci”. Presenti i testimoni Cambiuz- 
zo Gherardi di S. Maria a Faltognano e Marco Venzi e Barna di Nanni di Meo di 
S. Croce di Vinci [Gente di L., p. 339]. 

- Notarile Antecosimiano, 1159 

Rogiti di Baldassarre Ser Pieri Zosi de Bacchereto 

- c. 20: [1455] Riunione dei popolani di S. Maria di Faltognano (Comune di 
Vinci, Diocesi di Pistoia, Contado di Firenze) per nominare il rettore della chie- 
sa. Sono 16 nomi tra cui: Del Volpe, Vannucci, Cambiuzzi (Gente di L., p. 339). 

- c. 22: Matteo olim Bartolomei dona a Vannuccio Bartolomei Dini una presa 
di terra in l.d. al Poggiarello e nella Valle, conf. Ant. Ser Pieri Ser Guidi [nonno 
di Leonardo], Pieri Andreee Bartolini [Gente di L., indice]. 

- c. 26: Blaxius Nannis Luparelli de Vincio vende a Andrea Pippi Simonis di 
Vinci terra vitata in l.d. al Molino [ Gente, indice]. 

- c. 28: Acquisto di Iacopo di Nicola Cinelli di Faltognano di terra ulivata al 
Capannile. 

- c. 23: [1455] Riunione del popolo di Faltognano per eleggere il nuovo ret- 
tore. Sono 22 nominativi (nella precedente riunione erano 16, c. 20). Tra questi: 
Del Volpe, Cambiuzzi, Nardus Nannis Luparelli, Pippus Dominici Cinelli [Gen- 
te, p. 35, 339]. 

- c. 36: [1456] In Vinci, Biagio di Nanni Luparelli [Per Piero di Biagio: Gente, 
p. 138] compra terra in l.d. Bosco Zampi. Ancora testimone per vendita di terra 
con Gaspare Giannini Tacchini e Antonio Pieri Andree [Accattabriga] tutti di 
Vinci [Gente, p. 27; Ulivi, p. 21]. 

- c. 53: [1457] Pierus Andree Johannis Buti [padre dell’Accattabriga] del po- 
polo di S. Pantaleone vende all'Opera di S. Maria al Pruno [Orbignano]. 

- c. 55: Andrea Iacobi Niccolai Cinelli di Faltognano vende la metà di un 
podere con viti e olivi in l.d. al Capannile (Faltognano). 

- c. 70: Biagio Michaelis Brettonis fa testamento. Ricorda la moglie Maria e i 
figli Giovanni e Ludovico. Tra i testimoni: Andrea Pippi Venzi di Vinci. 

- c. 72: [1457] Testamento di presbiter Piero Guiducci [Gente, p. 43]. 

- c. 86: Riunione dei popolani di S. Pietro “de Viturino” (Vitolini) per Pele- 
zione del rettore della chiesa [ Gente, pp. 473-476]. 


117 


Mario Bruschi 





- c. 87: Acquisto degli Adimari. 

- c. 97: Transazioni e compromessi di Biagio di Michele Bretonis (o Bertonis). 

- c. 101: [1458] Biagio di Nanni Luparelli compra terra in l.d. al Borgo (Vinci). 

- c. 103: Nel Castello di Vinci “ad banchum iuris” con Bianconi, Buti. Tra i 
testimoni: “Donna Caterina f.[ilia] olim Nannis Lippi” [Ulivi, p. 35-36]. 

- c. 106: In casa di Biagio di Nanni Luparelli di Vinci. Costui concede a Mar- 
co e Pippo Venzi un pezzo di terra vitato e olivato in l.d. al Vignale e Morteto. 

- c. 108: [1458] A Vinci, in casa Pieri Andree Bartolini [Piero di Malvolto]. 
Testimoni: Piero Andree Bartolini e Giovanni Francisci Gherardi di Vinci [Gente, 

. 339]. 

i “Donna Lorenza vidua f.[ilia] olim Chelini Ciuoli de Vincio et uxor olim 
Dominici Blaxi de Vincio et donna Lucia filia olim dicti Ser Chelini Ciuoli et 
uxor Mei Antoni Francisci de Vincio” esposero al notaio scrivente di essere prive 
di mundualdo e chiesero che fosse loro assegnato come tale Meo di Antonio di 
Francesco da Vinci [Lorenza e Lucia, figlie di Chellino Civoli (Ser), erano sorelle. 
Lucia era moglie di Meus Antonii Francisci “da Vinci” (ma originario di S. Lucia 
a Paterno), testimone al battesimo di Leonardo]. 

- c. 112: [1458] A Vinci, in casa di Donna Niccolosa moglie del fù Barna. 
Presenti i testimoni: Piero di Andrea di Giovanni Buti [padre dell’Accattabriga] 
e Meo di Antonio di Piero Martini [da E. Méller considerato testimone al batte- 
simo di Leonardo]. 

Monna Niccolosa moglie del fù Barna di Nanni di Meo di S. Maria al Pruno 
[Orbignano] fece suo procuratore Piero di Andrea Bartolini e Nanni di Venzo. 

In casa di Piero Bartolini, presenti Papino Pieri Iacobi [Gente, p. 383] e Sal- 
vatore Vannucci [Gente, p. 403], Matteo Nicholai Braccini [Gente, p. 34] di S. 
Lorenzo in Arniano vende a Piero Bartolini un pezzo di terra in l.d. Merizana ne 
Botri, conf. Benedetto Cei “de Viturino” [Gente, p. 487]. 

- c. 154: [1460] A Vinci, atto in casa di Ser Piero Bartolomei “aliter Pagneca”, 
sulla piazza del Comune. 

- c. 161: A Vinci, atto in casa della testatrice. Presenti: Ser Andrea di Giuliano 
di Piero, rettore di S. Bartolomeo a Streda, Ser Donato di Nanni di S. Miniato, 
rettore della chiesa di S. Pantaleone, Antonio Pippi calzolaio, Guglielmo Papini 
Nannis, Cerbone Mattei Johanne Pieri aliter Pestello di Vinci. 

Donna Nicolosa moglie già di Barna di Nanni di Vinci, inferma sul corpo ma 
lucida di mente (“sana mente et intellectu licet corpore languens”) fa testamento. 

Raccomanda l’anima alla Vergine. Beneficia l'Opera di Santa Reparata di Fi- 
renze. Lascia a Nanna figliola di Nanni di Venzo e sua nipote una vacca. Lascia 
a Baldassarre figlio di Nanni di Venzo suo nipote un coltrone (“cultricem”) che 
ora ha nel suo letto. Lascia a Bartolomeo di Piero di Andrea Bartolini [figliolo di 
Piero di Malvolto] suo nipote un piumaccio da letto. 


ASFI, Notarile Antecosimiano, 3455 

n° 11: [1465] Riunione degli iscritti alla Società di S. Maria Maddalena nella 
chiesa di S. Maria al Pruno [Orbignano]. Sono 27 nomi e qualche cognome già 
formato: Cecchi, Lapi, Ciattini, Parentini, Mazzei, Bartolini. 

Atto in Vinci in cui “Marchus et Pippus fratres carnales et filii olim Venzi” 
vendono a Antonio Blaxii Nannis Luparelli terra a Leano 

n° 13: Ricordato conf. Antonio Tomaxi Minerbetti di Firenze [ Gente, indice]. 


118 


Ancora su ‘Chaterina’, madre di Leonardo da Vinci 





n° 14: [1466] A Vinci: Papinus olim Nannis Lapi Bantis 

n° 16: Testimone Andrea Antoni Bartolini “de Vincio” 

n° 17: “In ecclesia Sancti Donati de Greti” testimone: Baldassarre Nannis 
Venzi 

-“ Donna Dominica filia olim Mei Antoni Pieri Martini de Vincio e Nicolaus 
Vieri Antoni Nicoli Cambi “di S. Silvestro a Talbiano (?) di Prato si accordano 
per una questione di dote 

- Menzionato Andrea Cambi di Vinci abitante a Montecatini e Antonio Blaxi 
Nanni Luparelli. 

n° 20: In un matrimonio ricordato Marco olim Antoni Bartolini Luparelli di 
Vinci. 

n° 24: Assemblea del popolo di S. Pietro a S. Amato (Vinci) per l'Opera della 
chiesa. Elenco con 25 nomi, tra cui Vezzosi, Martini, Paolo di Andrea Bartolini, 
Bianconi. 

n° 28: [1466] In castro Vinci. Domenico di Antonio Bianconi e fratello Gio- 
vanni vendono a Piero di Michele di Vitolini [Gente, p. 471] un pezzo di terra in 
1.d. Merizano, conf. Piero di Andrea Bartolini, Cambiuzzi. 

n° 29: Ricordo di Papino Nannis Lapi Bantis, in lite. 

n° 32: Luparelli. 

n° 33: Venzi. 

n° 34: Testamento “del Volpe?”. 

n° 40: Testamento di “presbiter Pierus quondam Bartolini Guidonis (Guiduc- 
ci)” di Vinci. 

Quaderno n. 4 [1469] Atti in Cerreto Guidi 

- Papino di Nanni di Lapo Banti vende a uno di Vitolini, conf. lo Streda. 

Quaderno n° 5 [1470] Atti in Cerreto Guidi 

- Menzionato ‘Andrea olim Pieri Vannucci” di Vinci [nel 1452 a Faltognano: 
Gente, p. 339]. 

- Carta sciolta al n° 20 [1470] A Vinci, testimone Simone di Nanni Venzi da 
Vinci 

- Francesco Dominici Lotti ‘de Vincio’ vende a “Papino Nannis Lapi Bantis de 
Vincio” [ancora vivente] terra alle Ginestre [Ginestreto] 

- Adimari e Vespucci a Cerreto 


ASFI, Notarile Antecosimiano, 6173 

Angelo di Iacopo di S. Gimignano 

Sulla coperta: 1470-1482 

- c. 22: Elezione del rettore della chiesa di S. Lorenzo di Arniano 

- c. 27: [1471] Matrimonio di “Donna Lena filia Papini Nannis Bantis”. 

- c. 28: [1471] Testamento di ‘Meus Nannis Vulpis [fratello di Giusto (Gente, 
p- 339); Baldassarre Iusti Nannis (clerico) (Ibidem, p. 53)]. 

- c. 32: Atto a S. Maria al Pruno (Orbignano) in l.d. alle Grabbie (alle Grot- 
te?). Tra i presenti Antonius Johannis Simonis “aliter dictus Cipollino” (BRUSCHI, 
La fede battesimale, pp. 17-18, Gente, indice). 

- c. 37: Riunione del popolo di S. Amato (fam. Martini, Bianconi e altre). 

- c. 38: [1472] Testamento di ‘Tulianus olim Pieri Bartholomei’ del popolo di 
S. Maria di Faltognano [Nel 1455 è detto “di S. Lorenzo de Arniano” (Gente, p. 
342)]. Sua moglie è Pippa e i figli sono Bartolomeo e Baldassarre. 


119 


Mario Bruschi 





- c. 40: [1472] Testamento di ‘Andreas olim Antonii Johannis Simonis alias 
dictus Cipollinodi S. Maria al Pruno. Lascia alla moglie Antonia la dote. Lascia al 
figlio Sismondo e altri nati da Donna Margherita “già sua moglie” (prima moglie) 
e a Bernardo, Desiderio, Antonio e Alessandro nati da Antonia tutti gli altri beni. 

- c. 45: [1472] Vendita di “Andrea olim Antonii Johannis Simonis alias Ci- 
pollino” di Orbignano. Diversi atti dei Banti, Bianconi, Venzi, 7e/li, Martini, 
Luparelli. 

i c. 64: [1473] Matrimonio fra Ginevra figlia del fu Papino Giannini Tacchini 
che sposa Vincio del fu Giovanni Vinci Felli del popolo di S. Croce. I Telli com- 
paiono spesso tra le carte di questo notaio. 

- c. 75: [1473] “Papinus olim Nannis Lapi Bantis e Andreas olim Pieri Andree 
Bartolini”. 

- c. 86: Fam. Minerbetti in chiesa di S. Lorenzo di Arniano (Gente, p. 335). 


ASFi, Notarile Antecosimiano, 3457 

Benedetto Bonaccorsi da Fucecchio [1506-1512] 

- c. 69: Ricordo [1521] dei figli di Ser Piero da Vinci: 

Antonio e Domenico, fratellastri di Leonardo. 

- c. 60: Antonio di Ser Piero da Vinci, primogenito legittimo del notaio Ser 
Piero e primo fratellastro di Leonardo. 

La fam. ‘di Bertone’ (Brettone) è ormai qualificata come ‘Bertoni’. 

- c. 56: Malvolti: “Johannes olim Andree Pieri Malvolti de Vincio” [1508] in 
l.d. a Ramaiano podesteria di S. Miniato. 

- c. 60: [1508] Nel Castello di Vinci, in casa dell erede di Ser Piero da Vinci. 
Donna Nanna [Luperelli] figliola di Giovanni di Biagio e moglie di Antonio di 
Ser Piero. 

“Dominicus olim Michaelis de Bertonis de Vincio” [ Gente, p.153]. 

- c. 61: [1509] “Andrea olim Mei Tonini et Johannes et Thomas fratres et 
filii Antoni Mei Tonini de Vincio”, figli e nipoti di Meo di Tonino, testimone al 
battesimo di Leonardo 

- c. 62: [1509] Lorenzo di Ser Piero di Antonio da Vinci [fratellastro di Le- 
onardo] dà a livello un podere in I.d. Capannile [Gente, p. 406 ss.]. Si notano a 
margine vari appunti tardi (1722 e 1844), segno che il documento è stato visto e 
annotato nei secoli passati. 

- c. 64: [1509] Atto stipulato nel castello di Empoli sotto i portici della piazza 
[In castro Emporii sub porticis platee]. “Mariottus et Franciscus fratres et filii 
olim Simonis Andree de Cipollinis de Vincio” ricevono una somma a titolo di 
dote. 


120 


Ancora su ‘Chaterina’,, madre di Leonardo da Vinci 





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Fig. 1 — Chiese di Vincio (S. Amato, S. Lucia a Paterno, Faltognano, Vitolini, Pieve di Greti, S. Donato in 
Greti, S. Ippolito in valle, Aglianella), metà del Quattrocento. All’inizio, ricordo di prete Piero Pagnecha. 
Alla chiesa di Faltognano: “a Prete Lionardo che non tengha la concubina” (AVP, Date (1441-1506), 20 
rosso, 2 ce. s. n.) dA M. BruscHI, Gente di Leonardo, p. 39). 


121 


“Il qual ciborio gostò scudi 600 [...]”". 
Giorgio Vasari e il ciborio di San Zeno a Pistoia: 
la riscoperta di un'architettura 





COSTANTINO CECCANTI 


Negli anni Sessanta e Settanta del Cinquecento con la conclusione del con- 
cilio di Trento e l'emanazione delle Istruzioni di San Carlo Borromeo), anche in 
Toscana si pose il problema, di non facile soluzione, di adeguamento liturgico 
degli edifici chiesastici. I vecchi altari, così come i numerosi simulacri posizionati 
all’interno delle chiese, avrebbero dovuto lasciare il posto a moderne cappelle di 
aspetto classico o classicheggiante e ciascun edificio avrebbe dovuto contenere 
al suo interno un tempietto-ciborio destinato alla conservazione dell'Eucarestia, 
simbolo tangibile della presenza divina in terra. La città di Pistoia fu una delle 
prime all’interno dello Stato Fiorentino a recepire le direttive tridentine. Già nel 
1565, il vescovo Giovanni Battista Ricasoli (1560-1572)?, appartenente a una 
nobile famiglia fiorentina e che in passato era stato un importante esponente del- 
la curia romana), incaricò Giorgio Vasari (1511-1574) di approntare un progetto 
di adeguamento per la Cattedrale di San Zeno. L'architetto aretino, per questa 
che fu la prima delle sue realizzazioni pistoiesi, ben lontana dalla complessità e 
dall’importanza del completamento della chiesa della Madonna dell’Umiltà, con 
la costruzione della grandiosa cupola, non compì nessun sopralluogo in città‘. 
Comunque, resta una parte del carteggio epistolare intrattenuto con Giovanni 
Battista Ricasoli e avente come protagonista proprio l'adeguamento postconci- 
liare della Cattedrale. Il vescovo desiderava espressamente la realizzazione di un 
ciborio che andasse a replicare in maniera piuttosto puntuale quello realizzato da 
Lorenzo di Pietro detto il Vecchietta (1410-1480)? per la chiesa di Santa Maria 
della Scala tra il 1467 e il 1472 e poi trasferito nella Cattedrale di di Santa Maria 
Assunta a Siena, nel 1506. 

Le risorse economiche dovevano essere limitate, tant'è che invece del bronzo 
impiegato a Siena si utilizzò il più economico legno. Accanto a Vasari, prestaro- 


* Arferuoli 1619: “[...] Alli dieci di maggio si trovò da vendere il ciborio e gl’angeli che erano già 
su l’altar maggiore del Duomo, ma i canonici non volseno perché speravano, che morto il vescovo, si 
mutasse l’altare, e si rimettesse il ciborio e gl’angeli come stavano prima. Il qual ciborio gostò scudi 600, 
e gl’angeli scudi 140, e quelle pitture che vi sono sì belle, son di Giorgino d'Arezzo. [...]” 

! Borromeo 1577. Per quanto pensate per essere applicate nell’Arcidiocesi di Milano, le Instruc- 
tionum Fabricae furono applicate anche altrove, data la loro semplice natura esplicativa. 

? Per un inquadramento complessivo della figura di Giovanni Battista Ricasoli, cfr. Calonaci 2016. 

3. Ibidem. 

i Nei documenti relativi all’ intervento, non compare mai alcun accenno a sopralluoghi compiuti 
da Giorgio Vasari nel cantiere del riallestimento della Cattedrale di San Zeno. 

5 Sul ciborio, si veda il sempre attuale Pfeiffer 1975. 


123 


Costantino Ceccanti 





no la loro opera i legnaioli Dionigi Nigetti' e Ceseri di Vinci Pieri” che, oltre al 
tempietto vero e proprio, dovevano realizzare due maestosi angeli reggicero che 
lo affiancassero. Il programma di allestimento concepito dal Vasari comprendeva 
anche il nuovo pergamo, di cui parleremo più avanti, ed era, probabilmente, 
connesso alla dea del coro ligneo dovuto a Ventura Vitoni (1442-1522)? 
e realizzato, presumibilmente, negli anni Settanta del secolo XV?, al centro del 
quale venne inserito l’enigmatico dipinto del pistoiese Jacopo Centi (1504-post 
1567)” raffigurante l’Elemosina di San Zeno, nel quale una scena sacra è imma- 
ginata svolgersi in una città rinascimentale dominata da un maestoso tempio 
a pianta centrale su tre livelli, completo di sculture, finestre serliane, volute e 
cupola con lanterna. 

Il ciborio vero e proprio, messo in opera nell'arco di pochi mesi", ebbe una 
storia tanto breve quanto complessa: nell’arco di pochi anni, a causa, probabil- 
mente, della scarsa qualità del materiale con cui era stato costruito, già minac- 
ciava rovina e dopo la ricostruzione della tribuna del Duomo da parte di Jacopo 
Lafri (1544-1620)", avvenuta nei primissimi anni del Seicento, venne dapprima 
rimosso, forse portato in Sacrestia!, poi, parzialmente smontato e smembrato‘, 
ceduto ai frati di San Lorenzo” e, successivamente, disperso!°. Di questo appara- 
to, pressoché avvolto nel mistero, restavano soltanto i piccoli dipinti di Giovanni 
Battista Naldini (1535-1591)", tre collocati del tempietto vero e proprio, un 
Crocifisso fra i dolenti, che fungeva da sportellino, e due Angeli, oltre a altri dipin- 
ti, probabilmente collocati in una sorta di predella. Le i del Naldini si tro- 
vano, dall’inizio del Novecento, all’interno del Museo Civico di Pistoia!8, mentre 
gli angeli reggicero, a dire il vero di non grande accuratezza esecutiva e di scarsa 
espressività, erano rimasti di pertinenza della Cattedrale e sono stati ricollocati da 
non molti anni nel presbiterio della stessa; inoltre, si ignorava totalmente quale 





€ Il suo nome completo era Dionigi di Matteo della Neghittosa, padre del noto architetto Mat- 


teo Nigetti (1570-1649). Cfr. Ceccanti 2011, p. 248. 

7. Ibidem. 

8 Su Ventura Vitoni si veda il recente Ceccanti 2020. 

?  Morolli 1977, p. 62. 

10 Sul dipinto è presente un accenno in Acidini Luchinat 2003, p. 125. Su Jacopo Centi cfr. 
Strocchi 1979 e il recente Nesi 2021. 

!! Ceccanti 2011, p. 247. 

12 Ceccanti 2013a, pp. 134 e 135. 

13. Arferuoli 1619, vol. II, p. 255. 

14 Archivio di Stato di Pistoia, Fioravanti, Vacchettone, 20 aprile 1619: “fu proposto come il/ 
Pievano di S. Andrea che fa rassettare la sua chiesa, haverebbe comperato/ il ciborio del Duomo [...].” 

15 Archivio della Cattedrale di Pistoia, L- 19, c. c. 35d.: “A di 16 d’aprile 1668. A entrata di 
denari generali, lire dugento tre da Convento e Frati di S. Lorenzo di questa città, che tanti sono per 
retratto e valuta del ciborio grande di nostra cattedrale, quale non serviva più per la nostra cattedrale, 
e per essere andato quasi a male affatto, se n'è cavato solo la detta somma, così preziato e vendutoli da 
sig.ri can.ci commissionarij del Rev.mo Capitolo [...].” 

16. Probabilmente, quanto rimaneva del ciborio venne distrutto a seguito della soppressione del 
Convento di San Lorenzo, nel 1808. Non se ne trova traccia nella documentazione d’archivio conser- 
vata presso l'Archivio di Stato di Firenze, Corporazioni religiose soppresse dal governo francese, 196. 

7 Fontana 2012. 

18 Cfr. Acidini Luchinat 1982, pp. 87-88. 


124 


“Il qual ciborio gostò scudi 600 [...]”. 
Giorgio Vasari e il ciborio di San Zeno a Pistoia: la riscoperta di un'architettura 





potesse essere l'assetto del tempietto vero e proprio. In occasione delle mostre va- 
sariane del 2011, venne proposto un parallelo tra il ciborio pistoiese e quello, for- 
tunatamente ancora esistente, di Santa Croce”, arrivando a ipotizzare una simile 
scansione planimetrica e compositiva. Il tempietto fiorentino è un'architettura 
lignea a pianta ottagonale, con possenti colonne libere agli angoli e una copertura 
che ricorda quella della bd di Santa Maria del Fiore. 

Tuttavia, nello stesso 2011, è stato individuato il progetto vasariano per il 
ciborio pistoiese”: conservato a Firenze presso il Museo Horne e acquistato dallo 
stesso Herbert Percy Horne (1864-1916) dall’antiquario londinese Parsons il 15 
aprile 1904°', da provenienza ignota; l’accurato elaborato, realizzato a riga e squa- 
dra, permette di allontanare in maniera piuttosto decisa il ciborio pistoiese da 
quello di Santa Croce e di avvicinarlo a quello della Cattedrale di Siena, di cui lo 
stesso Giovanni Battista Ricasoli aveva chiesto una sorta di replica. Si trattava di 
un tempietto a base ottagonale, sostenuto da uno stelo e connotato dalla presenza 
di colonne libere agli angoli, volute di sapore michelangiolesco e da una coper- 
tura a pagoda che era un esplicito omaggio a quella della lanterna della Sagrestia 
Nuova. Un apparato scultoreo, oggi completamente disperso, constava di i 
figure a tutto tondo collocate intorno allo stelo, con un aspetto che richiamava 
quello dei prigioni di Michelangelo e attorno al tempietto. Ci sono numerosi 
particolari che permettono inoltre di puntualizzare come il progetto Horne sia 
riferibile proprio al ciborio di San Zeno: in posizione ul è raffigurato uno 
sportello dove è schizzato un crocefisso che quindi richiama in maniera diretta lo 
sportellino dipinto da Giovan Battista Naldini, oggi conservato presso il Museo 
Civico di Pistoia. Un'altra connessione con la città sta nella presenza, nella por- 
zione alta dello stelo, di una conchiglia evidente omaggio al culto jacobeo, così 
importante per la città e per la sua chiesa. 

Il manufatto, di sicuro interesse, presentava numerosi dettagli di schietta de- 
viazione vasariana: possiamo, infatti, notare che il portale posto nella porzio- 
ne inferiore è caratterizzato da un fastigio superiore connotato da due volute a 
schiena di delfino il cui aspetto è pressoché identico a quello delle volute poste 
al di sopra delle finestre del loggiato degli Uffizi, mentre le volute che serrano 
la porzione centrale del tempietto sono un omaggio alla lanterna della Sagrestia 
Nuova e saranno riprese numerose volte nelle architetture pistoiesi della Con- 
troriforma, a partire dagli altari che Jacopo Lafri, avversario dichiarato di Va- 
sari”, che, diversi decenni dopo la morte dell’Aretino, riprese il loro modello 
negli altari gentilizi che si approntarono nelle chiese di San Francesco”, di San 
Domenico” e di San Lorenzo”. Tornando al ciborio di San Zeno, certamente 





19. Vossilla 2011, pp. 398 e 399. 
20 Ceccanti 2011. 
Tali informazioni sono scritte a matita sul verso del foglio. 
Jacopo Lafri stese, nel 1620, una polemica relazione tecnica sui dissesti statici della cupola 
della Madonna dell’Umiltà, accusandolo di imperizia. Si veda in proposito Ceccanti 2013b, p. 85 e la 
trascrizione integrale della relazione alle pp. 91-93. 

2 Ivi, pp. 135 e 136. 

24 Ivi, pp. 136 e 137. 

25. Ivi, p. 137. Anche la chiesa di San Pier Maggiore fu interessata da un primo adeguamento in 
senso controriformistico, assai prima della ricostruzione dell’interno, attuata da Tommaso Ramignani. Di 


22 


125 


Costantino Ceccanti 





la cattiva qualità del manufatto dovete essere chiara fin dai primi anni, tuttavia 
questo come anche, come vedremo tra poco, il pulpito dovette esercitare una 
certa influenza sull’architettura pistoiese dei decenni a cavallo tra Cinquecento e 
Seicento. Abbiamo appena visto la ripresa di alcuni suoi elementi negli altari ma 
è legittimo pensare che i numerosi cibori lignei approntati in quel periodo delle 
chiese pistoiesi, quasi tutti poi sostituiti, tra Seicento e Settecento, da più preziosi 
e anche più stabili manufatti in pietra o in metallo, dovevano certamente essere 
debitori nei suoi confronti da un punto di vista architettonico. Tra questi spicca- 
va il ciborio, anch'esso scomparso, che il legnaiolo Jacopo di Giovanni Desideri, 
cugino dello stesso Jacopo Lafri, approntò per la chiesa di San Francesco?‘ su 
commissione del nobiluomo Antonio Pagani. Desideri dovette passare i mesi di 
luglio e agosto del 1579 all’interno del convento di San Francesco per realizzare la 
piccola fabbrica architettonica: infatti, il contratto per la sua realizzazione vedeva 
addirittura la presenza di testimoni che dovevano in un qualche modo asseverare 
la buona riuscita dell'incarico. Tra questi era presente lo stesso Jacopo Lafri che 
non solo fu il protagonista dell'adeguamento post-conciliare di San Francesco ma 
era anche l’architetto di fiducia di Antonio Pagani, dal momento che nei primi 
anni del XVII secolo gli costruì una sontuosa intà il palazzo oggi noto come 
Cancellieri Nuovo”, che costituisce uno dei più interessanti esempi di edificio 
patrizio della Toscana della sua epoca. Anche in questo manufatto, sono presenti 
numerosi rimandi all’architettura vasariana: in questo caso spiccano le mensole 
angolari dell’ultimo livello, che sono un esplicito richiamo a quelle poste sulla 
facciata degli Uffizi. 

Pur essendo stata un’architettura così importante per la città di Pistoia, il cibo- 
rio vasariano, sia per la precarietà delle sue condizioni, sia perché all’interno della 
nuova tribuna rn costituiva un ormai datato richiamo a un’epoca preceden- 
te, venne, come prima ricordato, smontato e disperso nel Seicento e di esso quasi 
si perse memoria, tant'è che, fino a pochi anni, fa l’unico collegamento che si 
stabiliva tra Giorgio Vasari e Pistoia era quello in relazione alla costruzione della 
cupola della Madonna dell’Umiltà. 

Se, quindi, del ciborio a oggi resta il progetto e sopravvive gran parte dell’ap- 
parato decorativo, tra cui gli eleganti dipinti del Naldini e i meno eleganti angeli 
dei legnaioli Nigetti e Pieri, il pulpito vasariano della Cattedrale si conserva nella 
sua interezza. La tradizione lo indica, senza dubbio, come opera dell’architetto 
aretino”? tuttavia, a differenza che per il ciborio, non si conosceva alcun tipo di 
documentazione diretta che vedesse Giorgio Vasari coinvolto nella sua progetta- 
zione e, inoltre, è opportuno aggiungere che, a dispetto del suo assetto generale, 
certamente aggiornato rispetto alle tendenze architettoniche fiorentine degli anni 
Sessanta del Cinquecento, alcuni dettagli compositivi ed esecutivi appaiono fran- 
camente attardati e persino goff, tant'è che era possibile metterne in dubbio la 
paternità”. Tuttavia, la documentazione d’archivio, venuta alla luce ancora una 


questa fase, restano l'interessante altare di Santa Eulalia, sotto giuspatronato Visconti, realizzato nel 1638. 
26. Ivi, p. 143, nota 45. 
27 Ivi, pp. 127-129. 
2 Acidini 2003, pp. 80 e 81. 
29 Ceccanti 2010, pp. 21 e 22, dove si ipotizzava un possibile coinvolgimento di Jacopo Lafri nel 


126 


“Il qual ciborio gostò scudi 600 [...]”. 
Giorgio Vasari e il ciborio di San Zeno a Pistoia: la riscoperta di un'architettura 





volta nel 201159, ha confermato che, senza ombra di dubbio, il progetto del per- 
gamo si deve a Vasari e che quindi gli elementi arcaicizzanti, come i fioroni posti 
nel collarino delle colonne e quelli nell’intradosso del solaio, possono essere forse 
dovuti alla libera interpretazione di maestranze locali, così come all’ impiego di 
scalpellini non troppo qualificati è ascrivibile la scarsa qualità di alcuni partico- 
lari esecutivi. Detto questo, il pergamo, connotato dall’interessante impiego di 
marmo bianco apuano, alternato al marmo rosso di Monsummano, costituisce 
un'interessantissima presenza all’interno della Cattedrale di San Zeno e può esse- 
re, senza riserve, considerato come l’ultimo discendente della lunga serie di im- 
portanti pulpiti cittadini in pietra che parte da quello di San Michele in Groppoli 
e passa per il pulpito di Giovanni Pisano (1248 circa-1315 circa) in Sant'Andrea. 

Se T ciborio vasariano costituì il capostipite di una vasta serie di tempietti 
lignei costruiti in città, il pulpito restò invece un esempio isolato: i pergami re- 
alizzati successivamente vennero costruiti in legno — quasi come si trattasse di 
grandi elementi mobili di arredo liturgico — come nel caso di quello della Ma- 
donna dell Umiltà’! di Jacopo Lafri o quelli, ancora più tardi, di Sant'Ignazio e di 
San Prospero, e senza alcun tipo di legame di tipo progettuale o compositivo con 
quello della Cattedrale di San Zeno. 

Fu, invece, nel contado, che il modello del pulpito vasariano su replicato, 
seppur con qualche variazione. Un esempio da citare è quello del pulpito della 
chiesa di San Pietro a Candeglia, un paese collocato Salle prime falde collinari 
a nord-est di Pistoia. In questo caso il manufatto, addossato a parete e a sbalzo, 
è costruito in legno e fu realizzato nel 1654 su commissione del priore e rettore 
della parrocchia Andrea di Antonio Cecchi e del poco noto maestro Cristofano di 
Antonio Leoni”. Ci sono nei suoi elementi decorativi diversi rimandi al pulpito 
di San Zeno, a dimostrazione di come in questa parrocchia suburbana ci fosse la 
volontà di richiamare l’illustre esempio della Cattedrale. 

Comunque, fu soprattutto nel vasto territorio della Montagna Pistoiese che 
il pulpito vasariano di San Zeno costituì un modello da imitare. Nella chiesa di 
San Bartolomeo a Cutigliano”, importante centro della zona, paese sede del Ca- 
pitanato della Montagna? e ricco di opere d’arte già dal Primo Rinascimento, il 
possidente Giuliano di Antonio Giannini” incaricò uno sconosciuto scalpellino 
di realizzare una vera e propria copia dell'esempio pistoiese. Le differenze sono 


completamento del manufatto. 

30. Palesati 2013, pp. 79-98. 

31 Ceccanti 2013a, p.139. 

3. Un'epigrafe dedicatoria posta alla base del pulpito così recita: “P. ANDREA DI ANTONIO 
CECCHI RET E PRIORE E M° CRISTOFANO DI ANTONIO LEONI FECERO P. LORO DE- 
VOTIONE?”. Nella porzione centrale del manufatto si legge: “AD MDCLIIT”. 

3... Nonostante l’importanza dell’edificio e delle opere che vi sono conservate, non esiste una 
monografia specifica sulla chiesa di San Bartolomeo a Cutigliano. 

38 Provisione del cardinale gran duca di Toscana per il nuovo Capitanato di Montagna, pubblicatasi 
in Balia il di 10 di giugno del 1588 1588. 

8. Nulla si conosce su questo personaggio, che volle essere ricordato sull’epigrafe posta sul pul- 
pito: “D.O.M. MAG.° BEN.° AD MA™ TEPI ORNATV IVLIANVS GIANINIVS CVTILIS PO- 
SVIT ANNO HV"5 SA MDCXXX?” così come nel fregio posto nella copertura lignea del pulpito: 
“IVLIANVS ANTONI GIANNINIVS II”. 


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Costantino Ceccanti 





nel materiale impiegato, la pietra serena in luogo del marmo bianco apuano e 
di quello rosso di Monsummano, e in una minore accuratezza esecutiva, ma la 
forma e le dimensioni sono pressoché identiche. Il pulpito di San Bartolomeo è 
una testimonianza del legame fortissimo che intercorreva tra la città di Pistoia 
e Cutigliano, da sempre avamposto pistoiese nell’alta Val di Lima. Ancor più 
sorprendente è il caso del pulpito collocato nella pieve vecchia della Santissima 
Annunziata (già di Santa Maria) di Piteglio, realizzato nella prima metà del XVII 
secolo. A dia di Cutigliano, Piteglio era un paese della Montagna Pisto- 
iese piuttosto povero, lontano dalle grandi vie di comunicazione e privo delle 
rilevanti committenze artistiche presenti nella località vicina. All’interno della 
pieve della Santissima Annunziata, venne approntato, a destra, circa a metà della 
navata unica, un pulpito a parete in pietra serena, di realizzazione e di esecuzione 
in verità alquanto scadenti, che riprende, nella forma, il pulpito pistoiese, a di- 
mostrazione di come questi territori sentissero in maniera molto Die non tanto 
il legame con lo Stato Toscano e quindi con Firenze quanto con l’antica capitale 
dello stato comunale, di cui erano stati avamposti. 

Certamente, la vicenda degli interventi vasariani all’interno della Cattedrale 
di San Zeno, nonostante la sua complessità, costituisce un episodio minore nella 
vastissima serie di realizzazioni dell’architetto aretino, tuttavia è alquanto signi- 
ficativa, perché costituisce una testimonianza assai precoce della penetrazione 
dell’architettura cosimiana nelle grandi città della Toscana ducale e perché è stato 
precursore sia del grande intervento presso la Madonna dell’Umiltà, sia degli 
adeguamenti in senso controriformistico delle chiese pistoiesi. E, inoltre, in caso 
interessante poiché testimonia di come un'architettura come il ciborio, che della 
sistemazione vasariana era certamente il fulcro, pur scomparsa da secoli e quasi 
dimenticata, possa in un certo senso rinascere grazie alla ricerca d’archivio, che 
ha permesso di gettare luce su uno dei capitoli meno indagati e più oscuri della 
folgorante carriera architettonica di Giorgio Vasari. 


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“Il qual ciborio gostò scudi 600 [...]”. 
Giorgio Vasari e il ciborio di San Zeno a Pistoia: la riscoperta di un'architettura 





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tra capitale medicea e città del dominio, atti del convegno, (Pistoia, 2011), 
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pubblicatasi in Balia il di 10 di giugno del 1588 (1588), Firenze. 

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“Il qual ciborio gostò scudi 600 [...]”. 


Costantino Ceccanti Giorgio Vasari e il ciborio di San Zeno a Pistoia: la riscoperta di un'architettura 











Fig. 1: Lorenzo di Pietro detto il Vecchietta, Ciborio della Cattedrale di Siena, 1467-1472 (immagine ; f , 
del Primo Novecento). Fig. 2: Jacopo Centi, L’Elemosina di San Zeno, 1566, Pistoia, Cattedrale di San Zeno. 


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Fig. 3: L'Elemosina di San Zeno all’interno degli stalli del coro ligneo rimontato dopo la costruzione della Fig. 4: Giorgio Vasari, Ciborio, Firenze, Museo Home 5556, matita, acquerello su carta, mm 290x135. 
sini lafriana della Cattedrale di San Zeno a Pistoia. (Autorizzazione alla pubblicazione Museo Horne 23/09/2021) 


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Costantino Ceccanti Giorgio Vasari e il ciborio di San Zeno a Pistoia: la riscoperta di un'architettura 











Fig. 5: Ricostruzione ipotetica dell’assetto del Ciborio vasariano dopo la costruzione della tribuna lafria- ale ni 
na della Cattedrale di San Zeno a Pistoia. Fig. 6: Giovanni Battista Naldini, // Crocifisso, 1566, Pistoia, Museo Civico. 


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Costantino Ceccanti Giorgio Vasari e il ciborio di San Zeno a Pistoia: la riscoperta di un'architettura 











Fig. 8: La lanterna della Sagrestia Nuova di San Lorenzo a Firenze, progettata da Michelangelo Buonarroti, 
Fig. 7: Giorgio Vasari, Ciborio, Firenze, Museo Home 5556, particolare. 1520 circa. 


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Costantino Ceccanti Giorgio Vasari e il ciborio di San Zeno a Pistoia: la riscoperta di un'architettura 











Fig. 10: L'altare di Sanr Eulalia, posto sotto il giuspatronato della famiglia Visconti, realizzato nel 1638 
secondo il modello degli altari lafriani della controfacciata di San Francesco, in San Pier Maggiore a 
Fig. 9: La chiesa di San Francesco a Pistoia intorno al 1950. Pistoia. 


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Costantino Ceccanti Giorgio Vasari e il ciborio di San Zeno a Pistoia: la riscoperta di un'architettura 











Fig. 12: Giorgio Vasari, Pulpito della Cattedrale di San Zeno a Pistoia, particolare. 





Fig. 13: Particolare della tribuna della Cattedrale di San Zeno a Pistoia, progettata da Jacopo Lafri, 
Fig. 11: Giorgio Vasari, Pulpito della Cattedrale di San Zeno a Pistoia, 1559 e seguenti. 1600 e seguenti. 


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Costantino Ceccanti Giorgio Vasari e il ciborio di San Zeno a Pistoia: la riscoperta di un'architettura 











Fig. 14: Il pulpito ligneo della chiesa di San Pietro a Candeglia, XVII secolo. Fig. 15: Vista della navata della chiesa di San Bartolomeo a Cutigliano. 


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Costantino Ceccanti Giorgio Vasari e il ciborio di San Zeno a Pistoia: la riscoperta di un'architettura 








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Fig. 17: Pieve vecchia della Santissima Annunziata (già di Santa Maria) di Piteglio, vista della navata 
Fig. 16: Pulpito della chiesa di San Bartolomeo a Cutigliano, 1630. verso la controfacciata. 


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Costantino Ceccanti 








Fig. 18: Pulpito della pieve vecchia della Santissima Annunziata (già di Santa Maria) di Piteglio, prima 
metà del XVII secolo. 


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Zriba el-Alia: storia e architettura berbera in Tunisia 





LAMIA HADDA 


Le esperienze costruttive tradizionali dei villaggi arroccati sui rilievi delle 
pendici montuose e collinari rappresentano ancora oggi una cultura architetto- 
nica tipica dell’Africa settentrionale. La grande parte dei borghi berberi abban- 
donati del centro-nord della Tunisia costituiscono degli insiemi abitativi ricchi 
di beni materiali e immateriali. Le tradizioni locali legate alla vita quotidiana 
degli abitanti e dei loro costumi sono purtroppo dimenticate e poco considera- 
ti. La lettura del sito attraverso l'architettura e il savoir-faire della popolazione 
riflette la ricchezza di un'eredità ancora parzialmente intatta. I villaggi sono stati 

uasi tutti svuotati dai loro abitanti nali anni Sessanta, in seguito I sviluppo 
di nuove città nella pianura. Tuttavia, la diserzione di questi insediamenti B 
permesso la conservazione delle loro caratteristiche originali. Sulla base dello 
studio morfologico e della documentazione storica e grafica del sito di Zriba 
el-Alia, il presente lavoro mette in evidenza un patrimonio architettonico medi- 
terraneo ia sconosciuto, nella speranza di coltivare la memoria di questi 
lontani messaggi della pietra e dell'uso ingegnoso dei materiali diventando così 
testimoni emblematici della vita dei monumenti a cui appartengono. 

Il villaggio berbero di Zriba el-Alia fa parte del governatorato di Zaghuan ed 
è posto a 68 km dalla capitale al nord-est della Tunisia. Situato nello spartiacque 
di Qued Hammam, questa regione è caratterizzata da un rilievo So ae del 
terreno posto nel cuore di una vasta pianura, dove si trovano anche altri due 
piccoli centri abitati, Zriba Hammam e Zriba nuova. Beneficia di una situa- 
zione piuttosto privilegiata poiché è una destinazione del turismo locale per la 
presenza di un rinomato centro termale, che raftorzerebbe il suo ruolo urbano 
ed economico rispetto alle altre città della regione. 

Zriba el-Alia è caratterizzata dal suo aspetto rurale e difensivo, simile a una 
fortezza che domina le montagne del djebel Zaghuan, djebel Sidi Zid e djebel 
Sidi Salem, e le pianure che circondano le regioni di Enfidha e Zaghuan. Si 
trova adagiato su pendii relativamente ripidi interposti tra due picchi rocciosi 
dove le case si aggrappano alla collina e a RA una magnifica vista sulla catena 
montuosa. Il borgo è stato occupato fin dall’ Antichità ed è stato sommariamente 
menzionato a metà del XII secolo dal famoso geografo arabo al-Idrisi: «Le pen- 
dici di questa montagna [di Zaghuan] sono fertili, seminate e popolate in alcuni 
luoghi di musulmani non mischiati (con altre razze)»!. Più recentemente, nella 
prima metà del secolo scorso, la loro presenza è stata poi confermata dall’orien- 





! al-Idrisi, Nuzhat al-Mushtaq fi ikhtirag al-afaq (Le Magrib au XIIème siècle), trad. par M. Hadj- 
Sadok, Paris 1983, p. 270. 


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Lamia Hadda 





talista francese Robert Brunschvig: «Sulla sua montagna [di Zaghuan] erano 
sparsi, nei secoli XII e XIII, eremi musulmani». 

Verso il 1960, gli abitanti migrarono in case moderne di un nuovo villaggio 
chiamato “Zriba village” a 5 chilometri di distanza’. Il vecchio villaggio abban- 
donato, dove attualmente vivono solo quattro o cinque famiglie, versa in un 
cattivo stato di conservazione. La maggior parte delle case sono edificate lungo 
le strade principali e divise in quartieri corrispondenti alle grandi famiglie i 
hanno sempre abitato quei luoghi. Il nucleo centrale, formato da un tessuto ab- 
bastanza denso, è organizzato in una zona molto irregolare intorno alla rahba (la 
piazza principale), che si trova nell’intersezione dei due assi principali intorno 
ai quali sono posizionati la piccola moschea e il mausoleo del santo patrono del 
villaggio. 

E ni sottolineare che l'architettura di Zriba el-Alia è prodotta in un pa- 
esaggio ostile e costituita nella sua totalità da pietra locale. L'abitato, nel suo 
complesso, si mostra molto suggestivo e interessante consentendo una serie di 
riflessioni sui materiali e sulle tecniche impiegate che consentono utili osser- 
vazioni circa le dinamiche di abbandono e di deperimento delle strutture. La 
conoscenza dei saperi tradizionali legati all'edilizia fa parte del bagaglio cultu- 
rale dagli anziani del villaggio che però non sono stati in grado di trasmetterla 
ai giovani che continuano a disertare la zona per cercare Di o per studiare 
in città. C'è quindi una evidente mancanza i esperienza tecnica dell’arte di 
costruire che determina una perdita di informazioni sul patrimonio architetto- 
nico locale. Le radici berbere sono evidenti attraverso le caratteristiche morfolo- 
giche e tecniche delle abitazioni che si affacciano sui vicoli stretti e tortuosi”. Le 
case, tutte pavimentate con pietre incerte di media dimensione, sono posizio- 
nate direttamente sul terreno naturale al fine di offrire un valido supporto. Per 
l’approvvigionamento dei materiali gli abitanti si affidavano esclusivamente alle 
componenti naturali del luogo che venivano impiegate nelle costruzioni, come 
pietre, calce e sabbia. 

Il materiale lapideo veniva estratto nelle vicinanze del cantiere direttamente 
dalla roccia affiorante dal pendio, mediante cunei in ferro, mazzette, barramine 
e picconi da cava, per poi essere ordinato e diviso in pile secondo la dimensione 





2: 


R. Brunschvig, La Berbérie Orientale sous les Hafsides, des origines à la fin du XVème siècle, t. 1, 
Paris 1940, p. 303. 

3... Sullo spopolamento dei villaggi arroccati verso i nuovi insediamenti in pianura si consulti in 
particolare: M. Filali, Les problèmes d'intégration posés par la sédentarisation des populations nomades et 
tribales, «Revue tunisienne de sciences sociales», 7/83 (1966), p. 114; E. Bernus, Les pasteurs nomades 
africains, du mythe éternel aux réalités présentes, «Cahiers des sciences humaines», 26/1-2 (1990), pp. 
267-280; E Sandron, L'immobilité forcée: la sédentarisation des nomades dans le Sud tunisien, «Autrepart», 
5 (1998), pp. 63-77. 

4 —Sull’architettura berbera in Africa settentrionale, si consulti: D. Jacques-Meunié, Architectures 
et habitats du Dadès, Maroc présaharien, Paris 1962; Kasba 64 Study Group, Living on the Edges of the 
Sahara. A Study of Traditional Forms of Habitation and Types of Settlement in Morocco, The Hague 1973; 
R. Basagana, A. Sayed, Habitat traditionnel et structures familiales en Kabylie, Alger 1973; A. Louis, 
Tunisie du Sud, Ksars et villages de crétes, Paris 1975; W. J. R. Curtis, Berber Collective Dwellings of the 
Northwestern Sahara, Muqarnas», 1 (1983), pp. 181-209; A. Zaied, Le monde des ksours du Sud-Est Tu- 
nisien, Tunis 1992; S. Naji, Art et architectures berbères (Atlas et vallées présahariennes), Aix-en-Provence/ 
Casablanca 2001. 


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Zriba el-Alia: storia e architettura berbera in Tunisia 





dei blocchi e poi trasportato sul cantiere con asini o muli. La terra solitamen- 
te argillosa, setacciata a maglia larga per eliminare resti vegetali e pietrame di 
piccola pezzatura, veniva mescolata con calce e acqua e in seguito, utilizzata 
come malta per la confezione dei muri edificati con blocchi grossolanamente 
sbozzati con strumenti molto semplici, quali lascia piana e vari scalpelli. Spesso, 
il pietrame incerto, fissato con pochissima malta viene reso più stabile mediante 
l'inserimento nei giunti di piccole zeppe lapidee posizionate in modo da colmare 
gli ampi interstizi che si creavano nelle murature. 

Molte abitazioni utilizzavano come assise lo stesso banco di roccia calcarea 
affiorante. Le fondazioni dipendevano dalla natura e dalla conformazione del 
suolo. In mancanza di affioramenti rocciosi in sito, lo scavo veniva realizzato 
fino a giungere ad uno strato compatto; se erano presenti dei banchi di roccia, la 
preparazione delle prime assise di appoggio era costituita dalla regolarizzazione 
del materiale lapideo per mezzo di appositi tagli e di riporti di terra mediante 
scaglie di pietra costipati. In alcuni casi i muri si conformavano in base al profilo 
della roccia emergente. In genere, la costruzione delle quattro pareti era rea- 
lizzata per livelli isometrici anche se talvolta i muri perimetrali venivano eretti 
singolarmente e tenuti insieme tra loro solo dalle coperture a volte. 

L'impiego degli archi a sesto ribassato e delle volte a tutto sesto, erano as- 
semblati con pietre sottili appena sbozzate la cui esecuzione denota una buona 
messa in opera che avveniva con un sistema molto semplice costituito da una 
centina in legno, realizzata grossolanamente, sostenuta da una serie di puntelli 
lignei oppure da pali portanti di maggiore spessore. Solo raramente le volte 
erano realizzate con mattoni’. Nell’edificazione dei muri è chiaro che si teneva 
in conto della posizione di porte e di finestre quasi sempre collocate in modo 
simmetrico. Le aperture erano realizzate con conci meglio lavorati per facilitare 
la messa in opera degli infissi in legno di ulivo. Non di rado si notano soglie 
(atba), piedritti (dhada o snad) e architravi (sakif) monolitici in pietra che gio- 
cavano un ruolo importante per la stabilità strutturale degli apparecchi murari. 

L'abbandono degli edifici e la conseguente mancanza di manutenzione ha 
causato la perdita della maggior parte degli intonaci (/ik4). I pochi elementi su- 
perstiti permettono però utili osservazioni per comprendere i modi di costruire 
giunti fino a noi con poche modifiche che rischiano, con il passare del tempo, 
di scomparire senza lasciare tracce significative. L’intonaco, realizzato in malta 
di calce mista a sabbia di fiume presa a breve distanza, veniva prodotto in loco 
mediante appositi forni costruiti nelle immediate vicinanze del, cantiere. Come 
si può ancora oggi osservare su alcune superfici, serviva per intonacare i muri 
oppure per stendere uno strato di impasto sulle coperture come impermeabiliz- 
zante. Lo storico Ibn Khaldoun ha descritto in dettaglio tale tecnica impiega- 
ta nell’architettura tradizionale tunisina, procedimento valido anche negli altri 
paesi del Maghreb: «Un'altra tecnica è quella di rivestire le pareti con la calce. 
Questa viene prima diluita e lasciata in ammollo per una settimana o due, per 
raggiungere il suo punto di equilibrio, perdendo la calce viva in eccesso che 





5. J. Revault, L'habitation tunisoise. Pierre, marbre et fer dans la construction et le décoration, Paris 


1978, pp. 30-32 ; P-R. Baduel, Habitat traditionnel et polarités structurales dans l'aire arabo musulmane, 
«Annuaire de l’Afrique du Nord», XXV (1986), pp.231-256. 


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Lamia Hadda 





impedirebbe la sua presa. Quando l’operaio ritiene che sia pronta, l’applica al 
muro, partendo dall’alto, e la strofina fino a farla aderire»®. L’intonaco di calce 
svolge un ruolo determinante quale elemento di protezione dell’edificio e di 
rivestimento che permette di ottenere superfici sufficientemente piane e regolari 
di facile pitturazione. Tratti di intonaco a calce dipinta in colore blu si rilevano 
in alcuni ambienti sia all’interno che all’esterno delle dimore del villaggio. 

Gli abitati di Zriba el-Alia, in parte edificati e in parte scavati nelle pareti 
rocciose, sono costituiti da piccole case tradizionali che hanno conservato il 
loro carattere autentico. Le costruzioni, realizzate con pietre di piccole e me- 
die dimensioni, difficilmente possono essere distinte da lontano poiché esse si 
armonizzano con il colore del paesaggio circostante. Al di là del loro aspetto 
estetico, presentano molte qualità dal punto di vista climatico con una idonea 
gestione della ventilazione per ottenere ambienti freschi in estate e confortevoli 
in inverno. Lorganizzazione planimetrica delle abitazioni risulta molto simile 
tra loro, aggregandosi intorno al piccolo cortile interno (wust al-dar) sul quale si 
dispongono al pianoterra le stanze coperte con volte a botte (rana: pl. ghoraf. 
La disposizione della corte dipende dall esigenza del sito e dallo spazio riservato 
alla casa. Essa può essere rettangolare, quadrata oppure di forma irregolare. Le 
stanze, almeno per quanto riguarda quella principale, hanno un orientamento a 
sud e a est. Alcune conservano ancora il tipico banchetto “dukkana” usato gene- 
ralmente come letto e costruito da una struttura in pietra sopraelevata di 30-40 
centimetri circa rispetto al piano di calpestio. 

Dall'esterno le pareti si presentano senza aperture ad eccezione della porta 
d’ingresso. Alcune facciate hanno conservato il loro intonaco con motivi deco- 
rativi specifici derivanti dalla cultura tradizionale. Gli ornamenti possono essere 
costituiti semplicemente con vernici colorate, oppure realizzati con piccole mo- 
danature in rilievo o in rientranza (motivi di pesci, stelle e mezzelune). Qualche 
abitazione presenta un corridoio “driba o skifa” che porta al cortile; altre case 
presentano ambienti posizionati su due livelli, di cui il piano terra è adibito alle 
riserve alimentari “bit el-muna o makhzen” che consente di conservare in ma- 
niera ecologica i prodotti alimentari (grano, olio, carne essiccata “Kadid”, etc.). 

Talvolta la casa tradizionale del villaggio presenta un deposito esterno in mu- 
ratura spesso scoperto e adibito non più a magazzino per alimenti bensì come 
magazzino per i materiali da costruzione. Dai vari edifici in pietra in stato di 
rudere è ancora possibile osservare la tecnica costruttiva dell’assemblaggio dei 
blocchi messi in opera in verticale con alcuni elementi di forma più allungata 
e piatta disposti in orizzontale per consentire un migliore appoggio. All’esterno 
delle vecchie abitazioni di Zriba el-Alia compaiono attrezzi per animali quali 
abbeveratoi e mangiatoie. 

Il villaggio ospita una piccola moschea (masjed) e un mausoleo (zawiya) dedi- 
cato a Sidi AbdelKader Al-Jilani, il santo più importante della Tunisia”. 


6 


Ibn Khaldoun, Discours sur l’bistoire universelle, Al-Mugaddima (Prolégomènes), trad. V. 
Monteil, Arles 1997, p. 641. 

7. E. Doutté, Notes sur l’Islàm maghribin, les marabouts, «Revue de Phistoire des religions», XLI 
(1900), pp. 58-59; W. Braune, Abd Al-Kadir Al-Dfilani, in Encyclopaedia of Islam, Vol. 1, Leiden 
1960, pp. 69-70; M.-A. Aîni, Un grand saint de l'Islam, ‘Abd al-Qddir Guilani (1077-1166), Paris 1967; 


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Zriba el-Alia: storia e architettura berbera in Tunisia 





La zawiya, costruita nel XVII secolo, era usata come scuola coranica (Kuttab) 
dove i giovani abitanti del villaggio imparavano a leggere e a scrivere. E costru- 
ita, in parte, con elementi architettonici presi da antichi siti archeologici delle 
vicinanze e recentemente è stata sottoposta a un importante lavoro di restauro. 
L'edificio, antistante un'importante piazza, è di forma cubica ed è costituito da 
un solo piano con una copertura formata da cinque cupole di cui quella centrale 
più grande di quelle angolari. La facciata è caratterizzata da una porta d’ingresso 
centrale fiancheggiata da due finestre simmetriche. L'insieme è inquadrato da 
cornici a rilievo e da pannelli di ceramica con motivi geometrici. 

In una posizione più alta si trova il masjed, situato a poche decine di metri a 
nord della zawiya. Anche la vecchia moschea, che risale con molta probabilità 
alla stessa data del mausoleo, ha subito un recente e incisivo intervento di rico- 
struzione che ha determinato la perdita delle caratteristiche originali dei mate- 
riali e delle tecniche costruttive. L'edificio è composto da una sala di preghiera 
formata da tre navate parallele al muro della gibla e coperta da volte a botte in 
mattoni. Gli archi a tutto sesto in pietra lavorata poggiano su colonne e capitelli 
di reimpiego, probabilmente d’origine antica. La parete della gibla è interrotta 
nella parte centrale da un mihrab di forma semicircolare ricavato all’interno 
dello spessore murario. A destra della nicchia si trova un minbar in pietra, com- 
posto da cinque scalini, che prende appoggio sulla parete ovest della sala di 
preghiera. Infine, un minareto merlato di forma quadrata è posto nell’angolo 
nord-est e si eleva di qualche metro rispetto alla sommità del masjed. 

Gli abitanti del villaggio vivevano principalmente dall’agricoltura e dall’alle- 
vamento, come dalla tessitura dello sparto (alfa) e dalla fabbricazione di cerami- 
che, in cui le donne avevano un ruolo importante. Proprio nella civiltà berbera è 
nata la modellazione della ceramica per rispondere alle varie esigenze quotidiane 
della cucina, del trasporto e della conservazione dei cibi. La ceramica è stata 
realizzata dalle donne nei villaggi fin dall’epoche antiche. Si tratta di un'abilità 
artigianale di oggetti fatti a mano come vasi, piatti, lampade a olio e articoli d’u- 
so quotidiano che hanno uno scopo pratico e, in misura minore, una funzione 
decorativa. Del resto, la vita in quei luoghi ostili non offre spazio alla sensibilità 
verso le cose che non sono di molta utilità al fine di superare i problemi emer- 
genziali che le popolazioni si trovano ad affrontare quotidianamente. Infatti, lo 
stesso Ibn Khaldoun sostiene che «non ci interessa l’arte inutile, perché non fa 
guadagnare denaro»?. 

I tappeti berberi presentano un vocabolario di segni e tecniche specifiche 
che variano da regione a regione. Sono opere annodate con lana di pecora che 
presentano decorazioni con motivi diversi, a volte geometriche, a volte umane 
o animali raffigurate nei loro segni principali!°. Il “kim” è uno degli esempi dei 
tappeti tipici realizzati per le abitazioni di Zriba el-Alia e utilizzati come rivesti- 





J. Chabbi, Abd al-Kadir al-Djilani, personage historique, «Studia Islamica», 38 (1973), pp. 75-106. 

8 E.G. Gobert, Les poteries modelées du paysan tunisien, «Revue Tunisienne», 41 (1940), pp. 119- 
180; V. Fayolle, La poterie modelée du Maghreb orientale, Paris 1992, pp. 23-106; S.G. Sethom, Les arts 
populaires en Tunisie, Tunis 1994, pp. 51-53. 

? Ibn Khaldoun, A/-Muqgaddima, p. 596. 

10 A, Louis, Aspects des arts et traditions populaires en Tunisie, Musée de Carthage, C.N.A. T.P., 
1965, pp. 5-7; S.G. Sethom, Les arts populaires, pp. 17-40. 


151 


Lamia Hadda 





mento dei pavimenti oppure come decorazione murale. Ancora oggi è presente 
in qualche casa del villaggio le tracce dell’apposito spazio riservato i telaio usato 
dalle donne per tessere i tappeti. 

La cesteria è la capacità di lavorare lo sparto, un materiale vegetale flessibile 
utilizzato per Sadr diverse esigenze come la raccolta e il trasporto dei pro- 
dotti agricoli assicurati da cesti per lo stoccaggio e la conservazione delle olive e 
dei cereali"; i tappetti in sparto e vimini furono anche impiegati, in particolare 
nella zawiya e il masjed, per coprire la pavimentazione in modo tale da rendere 
più agevole la preghiera ai fedeli. 

La conservazione di tale patrimonio materiale e immateriale richiede uno 
studio approfondito a livello socio-antropologico e tipo-morfologico, toccando 
la dimensione paesaggistica, urbanistica, architettonica e tecnica del complesso 
storico del villaggio, al fine di favorire lo sviluppo locale attraverso una for- 
ma adattata di ecoturismo regionale. Tali obiettivi possono essere raggiunti sul 
campo attraverso studi archeologici e architettonici completi, basati su indagini 
topografiche e su documentazioni tipologiche e iconografiche delle componenti 
che cop i monumenti analizzati. 

La valorizzazione globale delľ habitus autentico del villaggio e del suo patri- 
monio berbero toccherà sia i suoi aspetti tangibili che intangibili; comprenderà 
l'elaborazione di studi per lo sviluppo di un circuito turistico con sequenze te- 
matiche, la progettazione di segnaletica e di vari supporti virtuali, la promozione 
dell'artigianato e dei prodotti locali, coinvolgendo i vari protagonisti interessati 
(abitanti, autorità locali, escursionisti, ricercatori, ecc.). 

Inoltre, il lavoro si baserà sui risultati degli studi e delle riflessioni già realiz- 
zate sui villaggi di montagna e, di conseguenza, sulla loro integrazione nel loro 
contesto fisico ed ecologico, pur sottolineando i tratti distintivi e le somiglianze 
del villaggio di Zriba Alia con gli altri villaggi arroccati della regione nord-est 
(Jeradou, Sidi Medien e Takrouna), del centro (Kesra a Siliana) o del sud del 
paese (Toujane a Matmata, Chenini a Tataouine, ecc.)!?. 

Le caratteristiche strutturali originali sono ancora oggi riconoscibili nei bor- 
ghi più isolati dove l’aspetto ni degli abitati si è mantenuto pressoché 
invariato nella sua forma primitiva, determinata dalla povertà e dall’isolamento 
in cui nacquero i villaggi. Il paesaggio rurale delle comunità abbandonate è 
ancora oggi, però, un testimone eccezionale. Quei luoghi raccontano le intera- 
zioni uomo-ambiente e il modo in cui erano vissute dagli abitanti le strutture 
del territorio, indicandoci così la più vera e profonda identità. E in tal senso che 
l'edilizia dei villaggi berberi abbandonati rappresenta un patrimonio singolare, 





!! A. Louis, L. Charmetant, La cueillette de l'alfa en Tunisie, JBLA», XII (1950), pp. 359-73 ; G. 
Long, La flore et la végétation des dômes montagneux du centre tunisien, «Bulletin économique et social de 
la Tunisie», 43 (août 1950), pp. 17-23; S.G. Sethom, Les arts populaires, pp. 153-159. 

12 Sulla storia e sull’architettura dei villaggi arroccati in Tunisia si veda: J. Dakhlia, L'oubli de 
la cité: la mémoire collective à l'épreuve du lignage dans le Jérid tunisien, Paris 1990; H. Ben Quezdou, 
Découvrir le Sud tunisien: De Matmata à Tataouine, Ksours, Jessour et Troglodyte, Tunis 2001; M.-H. 
Daghari-Ounissi, Tunisie, habiter sa différence: le bâti traditionnel du Sud-Est tunisien, Paris 2002; Z. 
Hammami, L'architecture troglodytique verticale et la mise en valeur touristique aux Matmata (Sud-Est 
tunisien). Note de recherche, in Fabrique du tourisme et expériences patrimoniales au Maghreb, XIXe-XXTe 
siècles, sous la direction de C. Isnart, Ch. Mus-Jelidi, C. Zytnicki, Rabat 2018, pp. 204-219. 


152 


Zriba el-Alia: storia e architettura berbera in Tunisia 





una testimonianza significativa del paesaggio e dell'economia rurale tunisina 
che esprime nel suo complesso una splendida dimostrazione di come l’uomo ha 
saputo sfruttare ciò che l’ambiente circostante richiedeva. In definitiva, possia- 
mo affermare che lo studio dei villaggi berberi tunisini offre, nella sua straor- 
dinaria semplicità, un sorprendente equilibrio tra spazio materiale e paesaggio 
circostante consegnandoci un'idea di storia e di tradizione che porta con sé la 
conoscenza delle tradizioni del passato. 


Bibliografia 


Ar-Iprisi, Nuzhat al-Mushtaq fi ikhtiraq al-afaq (Le Magrib au XIème siècle), 
trad. par M. Hadj-Sadok, Paris 1983. 


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aux Matmata (Sud-Est tunisien). Note de recherche, in Fabrique du tourisme et 


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Lamia Hadda 





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ZAtED A., Le monde des ksours du Sud-Est Tunisien, Tunis 1992. 


154 


Zriba el-Alia: storia e architettura berbera in Tunisia 















ghi PEETI se” Peipin A TT, 
Fig. 1. Vista generale del villaggio di Zriba el-Alia 


= = 


Fig. 2. Stradina di collegamento 


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Lamia Hadda Zriba el-Alia: storia e architettura berbera in Tunisia 











Fig. 3. Parte alta del villaggio Fig. 4. Veduta esterna del masjed 


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Lamia Hadda Zriba el-Alia: storia e architettura berbera in Tunisia 











Fig. 7. Abitazione con cortile interno 





Fig. 6. Zawiya Sidi AbdelKader Al-Jilani Fig. 8. Vista panoramica del sito 


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Lamia Hadda Zriba el-Alia: storia e architettura berbera in Tunisia 











Fig. 9. Portale d’ingresso con decorazione Fig. 10. Casa a due livelli in rovina 


160 161 


Lamia Hadda 








Fig. 11. Ambiente (gorfa) intonacato e coperto con volta a botte 


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Reimpiego, Collezionismo e Antiquaria a Terricciola 





LORENZO BACCI 


«... Hic vitam duxisse homines superstitiosae Gentilitatis addictos ex hoc coniicitur, 
quia interdum inter effodiendos agros sepulchralia monumenta eruuntur, cum Idolis 
vel aereis, vel marmoreis, uti proximis elapis diebus egomet vidi fragmenta cuiusdam 

sepulchralis urnae recens erutae, cui insculpte circum erat pro ornatu Deorum Manium 
imagines, celatum quidem opus non rudis illius aetatis artificis... »' 


Arciprete Orazio Giovanelli — 1752 


Il rinvenimento fortuito dell’urna cineraria etrusca nell’area dell’arcipretura di 
San Donato di Terricciola rappresenta l’atto di nascita della ricerca ic 
di questa parte della Valle dell'Era, come ormai concordemente viene ritenuto 
dagli studiosi’. 

La volontà precisa di reimpiegare il monumento sepolcrale all’interno della 
facciata minore dell’edificio canonicale, notoriamente imponente e in massima 
parte ricavato dall'utilizzo del cassero tardo-medioevale della fortificazione di Ter- 
ricciola, apre un argomento poco dibattuto per quest'area, ovvero sui significati 
del reipiego - colto o bruto de possa presentarsi a seconda dei casi specifici — di 
ruta antichi all’interno del tessuto urbanistico o delle singole costruzioni. 

Anche l'aspetto museologico, che dovette certamente avere una qualche ade- 
renza con le idee che portarono il Giovanelli (Rivalto, 7 giugno 1698 — Terriccio- 
la, 6 luglio 1765)? al reimpiego in quota dell’urna cineraria con scene di Atteone 
sbranato dai cani, sembra meritevole di più approfondite riflessioni, così come 
il più variegato argomento legato al collezionismo colto del quale si percepisce 
in controluce una certa presenza, in passato, nei palazzi aristocratici e notabili di 
Terricciola, a partire proprio dalla sede canonicale che si poneva di fatto come 
abitazione dell’arciprete e contemporaneamente come sede di un non trascurabi- 
le centro aziendale di tipo agricolo. 

Il successore del Giovanelli alla guida dell’arcipretura di Terricciola, il volter- 





! Che qui vivessero persone dedite alle superstizioni pagane si ricava dal fatto che talora, scavan- 


do nei campi, vengono in luce monumenti funerari, con statuette di bronzo, o di marmo, tanto che io 
stesso, pochi giorni fa, vidi frammenti di una certa urna sepolcrale, appena scavata, ornata con rilievi di 
Dei Mani, opera di scultura di un maestro non rozzo 

2 Su questo argomento si veda soprattutto CIAMPOLTRINI G., Gli Etruschi di Terricciola, 
pp. 7-16, con relativa bibliografia. 

3 APT, Registro dei Defunti dal 1692 al 1796, carte sciolte. All’interno del registro è conser- 
vata una memoria sulla cronotassi dei preti e arcipreti di Terricciola (quest'ultimi a partire dal 1718), 
compilata essenzialmente dall’arciprete Don Secondo Griselli, in carica dal 1852 al 1900. 


163 


Lorenzo Bacci 





rano Niccolaio Funaioli (Volterra, 1739 — Terricciola, 21 gennaio 1798)‘, di- 
panerà ogni dubbio sull’identificazione dell’urna cineraria ancora oggi murata 
nella facciata della canonica con quella citata dal suo predecessore hag raffinato 
memoriale latino sopra riportato. 

Nel carteggio con Giovanni Mariti, autore dell’Odeporico, con lettera del 
30 gennaio 1792, il Funaioli dichiara che “L'urna funeraria che è nella facciata 
di questa mia canonica fù ritrovata nel 1752 a piè dei muri del Coro di questa mia 
chiesa al Ponente, nell'escavazione dei fondamenti della nuova fabbrica della soppres- 
sa Centuria del Rosario”. 

Da questa ed altre missive, unitamente alla conoscenza e trascrizione quasi let- 
terale dell’anonimo memorialista della Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze®, 
come ebbe a definirlo felicemente Giulio Ciampoltrini, il Mariti completerà le 
sue carte relative ai ritrovamenti archeologici avvenuti nel terricciolese tra il 1752 
e il 1756. 

Il reimpiego del reperto, messo in opera con il palese intento della sua esposi- 
zione e non come mero elemento da costruzione, si trova al di sopra della porta 
secondaria di accesso alla canonica di San Donato, tanto che per essere osservato 
nella sua interezza risulta necessario allontanarsi di qualche metro dal muro. 

Bisogna anche tenere presente che la facciata nella quale è collocata non è la 
principale dell’edificio, ma è quella che maggiormente può essere vista a distanza, 
specialmente da Piazza della Chiesa, da sempre contraddistinta per il notevole 
dislivello con il sagrato di San Donato. 

Pertanto l’urna sembra essere riutilizzata anche con funzione “scenografica”, 
integrando la visione della facciata della chiesa e divenendo, di fatto, un dd. 
di pregio volto a nobilitare sia il luogo per la sua funzione estetica (monumento) 
sia a porsi come documento (monumentum) in grado di dimostrare l’antichità 
della comunità alla quale appartiene. 

A mio modesto avviso però non siamo di fronte alla concezione barocca 
dell’esposizione del reperto archeologico che deve suscitare “maraviglia” in chi 
lo osserva, (una metodologia espositiva che continua ad essere i con 
strascichi tardivi, anche fino alla metà del Settecento), ma piuttosto un intento 
puramente espositivo che privilegia in loco la conservazione del reperto, a pochi 
metri di distanza dal luogo del suo rinvenimento. 

Pertanto potremmo trovarci di fronte all’anticipazione concettuale che verrà 
espressa un quarantennio più tardi da Quatremère de Quincy nelle sue Lettres sur 
le préjudices”, che negli anni delle requisizioni napoleoniche delle opere d’arte in 
Italia rivendicava la profonda natura storica delle testimonianze del passato, che 
acquisiscono un vero valore in virtù del loro intimo rapporto con la cultura che 





4 APT, Registro dei Morti dal 1798 al 1818, c. 1 v.; il Funaioli venne sepolto nella Cappella 
di Sant'Andrea, posta di fronte all’attuale caserma dei carabinieri, all'incrocio tra Via Roma e Via della 
Croce. 

° Biblioteca Riccardiana Firenze, Ms, Fondo Bigazzi, 187/7, già integralmente pubblicato in 
BONAMICI M., Urne, p. 139; citazione in CIAMPOLTRINI G., Gli Etruschi di Terricciola, p. 9. 

$ Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze, Ms, II, VI, 60, c. 77. 

7 QUATREMÈRE DE QUINCY A. C., Letres sur le préjudices qu'occasionnerait aux arts et 
à la science le déplacement des monuments de l'art de l'Italie, le démembrement de ses Ecoles, et la 
spoliation de ses Collections, Galeriés, Musées, etc, 1796. 


164 


Reimpiego, Collezionismo e Antiquaria a Terricciola 





le ha prodotte, divenendo in questa chiave di lettura il principale strumento di 
istruzione pubblica’. 

In questa visione le requisizioni, la dispersione dei reperti e talvolta anche il 
collezionismo privato che può tendere all’accaparramento delle cose sradicandole 
dal loro contesto, impoveriscono le opere stesse del loro più alto valore, unita- 
mente alle comunità che le hanno prodotte. 

Sembrerebbe possibile scorgere anche una distinzione tra spazio pubblico e 
spazio privato per quanto concerne il palazzo-canonica dell’arcipretura, dove la 
a: minore entro la quale è reimpiegata l’urna, in virtù della sua continuazio- 
ne con l’edificio ecclesiastico, sembra assumere il primo aspetto, riecheggiando 
principi già espressi nel De re aedificatoria di Leon Battista Alberti?. Ma tutto 
questo sembra più prudente da inserire nel vasto campo delle ipotesi. 

Nel nostro caso specifico quello che risulta maggiormente evidente al primo 
impatto è che lurna cineraria non abbia subito nè l'anonimato nè la dispersione, 
come purtroppo è accaduto per non pochi reperti ritrovati nel territorio di Ter- 
ricciola fra Settecento e Ottocento". 

Come questo sia avvenuto possiamo dedurlo dalla corrispondenza tra i succes- 
sori del Giovanelli, soprattutto Don Luigi Cantini, arciprete di Terricciola negli 
anni compresi dal il 1807 al 1851!, e Carlo Lasinio in qualità di Conservatore 
del Camposanto di Pisa, che nel primo decennio dell'Ottocento si distinse anche 
per lo zelo col quale cercava di arricchire la raccolta pisana cercando di far conflu- 
ire al suo interno i reperti trovati negli anni precedenti nel terricciolese. 

Se per le urne cinerarie e le ceramiche ritrovate da Leonardo Gotti nel 1793 
in una tomba ipogea in località Antica presso Morrona riesce a portare a termire 
il suo progetto di farle concluire nelle raccolte del Camposanto!?, meno efficace 
invece risultò la sua opera di convincimento sugli arcipreti di Terricciola in meri- 
to all’urna cineraria murata nella facciata della canonica. 

Nella prima lettera di risposta del Cantini al Lasinio, datata 11 luglio 1811, 
si deduce, neanche troppo velatamente, il tentativo di sminuire l’importanza del 
reperto, cercando quindi di smorzare gli interessi del Conservatore. L'arciprete 
infatti scriveva: «Un sarcofago di pietra rozza di tufo, e non di marmo, in cui si vede 
malamente abbozzata la Favola di Atteone, che da Diana trasformato in Cervo, 
viene divorato dai proprj Cani. Mezzo corroso perché esposto all'intemperie dell'aria, 
dai certamente, che dille sua inesattezza dimostra, o l'incipienza, o la decadenza 

ella Scultura, si è l’Urna Cineraria antica che fu ritrovata nel restaurare i fonda- 
menti di questa Chiesa di Terricciola»”®. 

A seguito delle pressioni che il Cantini continuerà comunque a riceve dal 
Lasinio tramite la consueta corrispondenza di sollecito, l’arciprete risolverà la 
questione facendo presente che le operazioni di rimozione, congiuntamente al 
trasporto, sarebbero state a carico dell'Opera Primaziale, oltre ad evidenziare che 





8 DE BENEDICTIS C., Per la storia del Collezionismo italiano, Ponte alle Grazie Editori, 
Firenze, 2002, pp. 142-.143. 

? DE BENEDICTIS C., Per la storia del Collezionismo italiano, op. cit., p, 98. 

10 CIAMPOLTRINI G., Gli Etruschi di Terricciola, pp. 17-26. 

1 APT, Memorie, BACCI L. —- BODDI A., Don Secondo Griselli Arciprete di Terricciola, op. cit. 

2 CIAMPOLTRINI G., Gli Etruschi di Terricciola, pp. 17-24. 

3 AOP, Carte Lasinio, anno 1811; trascrizione già pubblicata in BONAMICI M., Urne, p. 140. 


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Lorenzo Bacci 





il reperto avrebbe potuto subire durante queste manovre il rischio di rompersi 
definitivamente, ed infatti un anno più tardi scrisse: «M levarlo adesso dal luogo 
ove è collocato non sembrami convenire, perché essendo con qualche frattura possi 
be facilmente di cattivo ridursi in peggiore Stato, e forse anche per opera dei curiosi 
smarrirsene qualche frammento. Credo meglio lasciarlo nello stato attuale, finchè non 
sia al momento di fargliene la spedizione Tata 

In sostanza, qual che pareve essere fin dall’inizio la precisa volontà di non 
depauperare i beni della parrocchia di Terricciola prende il sopravvento grazie 
ad argomentazioni economiche, assieme a quelle relative alla conservazione del 
reperto. 

Quello che appare significativo, oltre a quanto già espresso, è che per primo il 
Cantini riuscì ad attribuire con esattezza il tema della raffigurazione della cassa, 
al contrario del Giovannelli che la interpretò come la raffigurazione degli Dei 
Mani”, e del Mariti, che invece volle vederci «un Guerriero Laureato con due 
Vittorie ai lati»®. 

La felice stagione dei ritrovamenti settecenteschi avvenuti a Terricciola, tutto 
sommato ben documentati rispetto ad altri contesti vicini, conferma il ruolo fon- 
damentale svolto dal clero, specialmente volterrano, per la nascita dell’etruscheria. 

A questo proposito non possiamo non citare il vero e proprio “atto fondante” 
dei ritrovamenti archeologici della Valdera, perlomeno attenendoci alla docu- 
mentazione archivistica e storica finora riscontrata, ossia le notizie fornite dal pri- 
ore di Celli, Martino Gotti, protagonista (forse sarebbe più corretto definirlo cro- 
nista) del rinvenimento casuale di una tomba a camera ipogea!” nell’anno 1737, 
la cui datazione rimane ad oggi controversa sia per la dispersione della totalità del 
corredo, sia per la singolarità del rito funerario (la presenza all’interno della cella 
della tomba di due cippi claviformi appare inconsueta), sia per il sostanziale di- 
saccordo tra gli studiosi in merito all’analisi della descrizione sommaria dell’urna 
cineraria che per prima compare negli scritti del Peruzzi!5. 

Il clero dell’area della Valdera e delle zone immediatamente limitrofe vede 
un forte interesse per le antichità locali che i documenti d’archivio verosimil- 
mente non hanno la capacità diretta di far percepire a pieno. In questo ambito 
spicca maggiormente il clero volterrano piuttosto che sanminiatese, sebbene non 
possiamo non citare la lettera inviata da G.M. Bolognesi, curato della chiesa di 
San Ruffino (attuale frazione del Comune di Casciana Terme - Lari) a Giovanni 
Mazriti, datata 26 luglio 1795”. 

Nella missiva del sacerdote si informa il Mariti, che già aveva intessuto fitti 
rapporti personali ed epistolari con i curati dell’area per avere maggiori informa- 
zioni per la stesura del suo Odeporico, che a Casciana Alta era stato effettuato 
un rilevante ritrovamento archeologico, composto da alcune urne cinerarie con 
cassa liscia e defunto recumbente scolpito a tutto tondo sulla cassa, assieme ad 





14 AOP Carte Lasinio, anno 1812; trascrizione già pubblicata in BONAMICI M., Urne, p. 142. 
5 TARGIONI TOZZETTI G., Relazioni, pp. 207 ss. 
€ MARITI G. (a cura di GIANETTI B.), Odeporico, p. 151. 

7 BRUNI S., Legoli, pp. 12-16. 

18 PERUZZI S.B., Notizie dell'origine, ed istituto della Società Colombaria fiorentina, I, 
1747, p. IVI. 

!9.. Biblioteca Riccardiana Firenze, Fondo Bigazzi 187/7, f. 33. 


166 


Reimpiego, Collezionismo e Antiquaria a Terricciola 





un numero cospicuo di vasellame, che in parte, in virtù della sommaria ed anche 
ingenua descrizione, possiamo vagamente riconoscere come tazze e kylikes di pro- 
duzione volterrana tarda (II secolo a.C.). 

Ma la scrupolisità della raccolta dei materiali ad opera del proprietario del 
terreno, il Cavalier Alessandri, assieme alla celerità di spoliare totalmente il sito, 
fecero trasportare il tutto presso la sua abitazione posta a Livorno, per cui anche 
questo rinvenimento fortunatamente tramandatoci dal sacerdote “sanminiatese” 
venne ben presto destinato all’oblio che la dispersione dei reperti archeologici 
solitamente comporta. 

La sequenzialità dei rinvenimenti documentati in Valdera che tutto sommato 
si attestano dalle fonti a partire dal 1737, potrebbero derivare per osmosi cultura- 
le dall’attività archeologica che Mons. Mario Guarnacci cominciò ad intrapren- 
dere nella sua Volterra proprio in quegli anni, durante i soggiorni che lo tenevano 
lontano dagli alti impegni della curia pontificia a Roma. 

In questo senso dobbiamo ricordare che il Guarnacci si fece sempre coadiuva- 
re nelle attività di scavo, per la prima volta sistematiche sul colle etrusco, sia dai 
fratelli Pietro e Giovanni che dal vecchio compagno di studi, Anton Francesco 
Gori, divenuto in seguito docente di storia allo Studio Fiorentino e membro della 
Società Colombaria. 

Proprio al Gori il Priore di Celli fece dono delle due acherunticae columellae 
rinvenute nella tomba a camera precedentemente citata, un fatto che malaugura- 
tamente non ha evitato la dispersione ma che però ha permesso al Gori stesso di 
disegnare i due cippi a clava e pubblicarli nel suo Museum Etruscum®. 

Le indagini e gli studi del Guarnacci e la presenza sul territorio del Gori non 
possono non aver influenzato l’ambiente volterrano e delle zone confinanti e 
verosimilmente il clero locale non sarebbe stato così pronto e sensibile nel re- 
cepire l'interesse verso la straordinaria novità che rappresentava in quegli anni 
l’etruscheria. 


Lo sguardo d’insieme alla storia dei ritrovamenti dell’area della Valdera ed 
anche delle zone limitrofe vede pertanto due principali atteggiamenti — entrambi 
di natura squisitamente “culturale” — in merito al tema ben più ampio del colle- 
zionismo colto ed in parte del reimpiego. 

Da una parte è possibile intravedere la nascita o l'arricchimento delle colle- 
zioni in seno alle aristocrazie locali e alla borghesia, avara però di dati archivistici 
(anche per la natura stessa di questo tipo i raccolte), che può trovare la sua 
genesi tanto nel maggiore grado di istruzione e raffinatezza dei suoi componenti 
quanto nella possibilità diretta di reperire i reperti archeologici dai lavori agricoli 
che i contadini loro dipendenti attuano sui terreni di loro proprietà; dall'altra 
invece il clero locale (per sua stessa natura colto) si rende protagonista dei ritro- 
vamenti archeologici stricto sensu oppure si trova impegnato nel divulgare tramite 
i memoriali le circostanze dei rinvenimenti. 

In questo senso è possibile fare alcuni esempi sia per quanto conerne il primo 
caso sia per il secondo. 

L'abitazione civile che più spicca per importanza e prestigio all’interno del 





20. A.E GORI, Museum Etruscum, TII, parte II, Florentiae, 1743, tavola XVI. 


167 


Lorenzo Bacci 





nucleo storico di Terricciola, palazzo Gherardi del Testa, risulta essere custode di 
una ricca collezione artistica (specialmente pittorica) già dai primi anni del XVIII 
secolo, perquanto è necessario precisare dh verosimilmente una larga parte di 
questo patrimonio arrivò nella residenza di campagna della nobile famiglia pisana 
dal palazzo cittadino”. 

Per quanto concerne invece il tema più squisitamente archeologico, il cippo 
a clava in marmo bianco che ancora oggi rientrata fra le proprietà della famiglia 
Gherardi Del Testa, si pone come testimonianza di rilievo sia per quanto riguarda 
la produzione di questa tipologia di segnacolo, sia per la pratica del reimpiego. 

Posto originariamente sull’angolo Ovest della cappella del palazzo che si affac- 
cia su Via Roma ed in seguito messo in sicurezza grazie all’attivismo dell’ Ispettore 
Onorario Prof. Giuseppe Mostardi, il segnacolo sembra appartenere alla tipologia 
A della “Classificazione Ciampoltrini”, ed è quindi attribuibile indicativamente 
all'arco cronologico che va dal VII al VI secolo a.C”. 

Il cippo in questione, finora pressochè ignorato dalla comunità scientifica, se 
si escludono gli accenni del Bruni”, misura cm 75, con diametro massimo della 
calotta di cm 30, realizzato in marmo bianco a grano fine; si presenta mutilato 
nella parte inferiore del fusto e quindi è privo del bulbo solitamente funzionale 
per l'alloggiamento nel terreno. 

La datazione piuttosto alta getta nuove luci sulla solidità dell’insediamento 
etrusco in età arcaica del territorio di Terricciola, una caratteristica già emersa ed 
in parte documentata, ma che certo aspetta studi sistematici e forse anche una 
rivalutazione dell’edito. 

Il cippo della cappella di palazzo Gherardi Del Testa si inserisce anche all’in- 
terno di una lunga tradizione che investe la Valdera e le Colline Pisane, cioè il 
reimpiego dei segnacoli funerari etruschi all’interno o in prossimità degli edifici 
di culto. 

Bisogna precisare che la stragande maggioranza di questi è stato reimpiegato 
come acquasantiera o come base di essa e solo raramente i segnacoli in relazione 
alle chiese sono stati utilizzati come elementi decorativi o come paracarri, come 
il caso del cippo “Gherardi Del Testa”. 

L'altro esempio finora noto di reimpiego in ambito ecclesiale che si allontana 
dal riuso come acquasantiera è il cippo della Badia di Morrona, che fino a pochi 
decenni fa era collocato sullo stipite destro di accesso alla chiesa abbaziale?*, rila- 
vorato sulla calotta con la realizzazione di un incavo (probabile originaria acqua- 
santiera dell’edificio ed in seguito dismessa) e sul fusto, dove sul finire del XVIII 
secolo furono realizzate cinque borchie incise. 

La defunzionalizzazione del cippo da acquasantiera ad elemento decorativo 
venne sancita dalla realizzazione della borchie stesse, probabilmente in conco- 


21 Archivio Privato Gherardi Del Testa, Inventario degli arredi posti nel palazzo pisano del 
Piaggione, anno 1759. 

2. CIAMPOLTRINI, / cippi funerari della media e bassa Valdera, in Prospettiva, 21, 1980, 

. 76-77. 

PP: 3 BRUNI 1995, p. 156, n. 97; Ex Archivio Storico Iconografico Gruppo Archeologico Tectiana, 
Inventario 17, tomo I, b. n° 02. 

% Il cippo è attualmente conservato nella collezione del Conte Gaslini Alberti, negli ambienti 
interni della Badia di Morrona. 


168 


Reimpiego, Collezionismo e Antiquaria a Terricciola 





mitanza con la realizzazione dell’attuale acquasantiera presente invece all’interno 
della chiesa. 

Per quanto riguarda invece gli altri esempi noti in questo ambito prentiamo 
una griglia riassuntiva, dedotta dagli studi precedenti ed in parte frutto della 
ricerca attuale dello scrivente. 





Soiana — Località Villa San Marco | IRREPERIBILE 
(già Pieve di Suvigliana) (Mariti, Ode- 
porico, VII, c. 74 v; Ciampoltrini 1980 p. 
75; Bruni 1995 p. 148 nota 72) 


Badia di Morrona — Chiesa di| COLLEZIONE GASLINI ALBERTI 
Santa Maria. (Targioni Tozzetti, Relazioni, 
I,p. 217; Ciampoltrini 1980 p. 76; Bruni 
1995, p. 157 nota 98) 


Morrona — Chiesa di San Barto- | IRREPERIBILE 
lomeo e Lucia. (Targioni Tozzetti, Rela- 
zioni, I, p. 203; Ciampoltrini 1980, p. 76) 


Terricciola — Chiesa di San Dona- | IRREPERIBILE 
to Martire (G. Mariti, Terricciola, Mor- 
rona, Chianni e Rivalto: castelli dell Alta 
caldera. A cura di Benozzo Gianetti, p. 151) 


Terricciola — località San Piero | IRREPERIBILE 
a Vilica: cappella dei Santi Pietro e 
Michele (Ciampoltrini 1980 p. 76) 


























Quale possa essere il significato di questo particolare reimpiego, probabil- 
mente molto antico e concentrato in un’area abbastanza circoscritta, al momento 
rimanere completamente da sottoporre ad ettenta esegesi ed analisi, tranne per 
l'aspetto puramente venale, certamente condizionato dal pregio intrinseco del 
marmo ed anche probabilmente da una certa facilità di approvvigionamento dei 
signacula. 

Al momento ci limiteremo ad accettare la tesi formulata dal Marangoni in- 
torno alla metà del Settecento che voleva il reimpiego durante il Medioevo dei 
mrami antichi all’interno delle chiese come una forte sottolineatura del trionfo 
del cristianesimo sulla cultura e la religione pagana”. 

AI di la del distretto terricciolese appaiono degni della massima considerazio- 
ne i cippi egualmente reimpiegati con le medesime finalità, come quello conser- 
vato all’interno della Compagnia di San Sebastiano di Montefoscoli?°, rilavorato 
sulla calotta per adeguarlo alla nuova funzione di acquasantiera, quello della Pie- 





3 G. MARANGONI, Delle cose gentilesche e profane trasportate ad uso, ed ad ornamento 
delle Chiese, Roma 1744, p. 58 s. 

2 TARGIONI TOZZETTI, op. cit., I 1787; CIAMPOLTRINI 1980, p.75 n. 3, fig. 4; BRU- 
NI, Legoli un centro minore del territorio volterrano, 1999, pp. 16-17. 


169 


Lorenzo Bacci 





ve della Piappina nelle campagne di Peccioli”, il cippo elegantemente rilavorato 
e destinato all’uso di acquasantiera della chiesa di San Martino del Colle presso 
Casciana Terme ed in ne l'esempio qualitivamente più alto e forse tra i più 
antichi: il cippo riutilizzato all’interno della chiesa abbaziale della Badia di San 
Savino a Cascina. 

Nell’ambito del riuso di distingue invece il cippo di Vicolo de’ Seri a Terric- 
ciola, inglobato nell’originario corpo di fabbrica arte 1431°8, per cui il suo reim- 
piego come elemento edilizio viene retrodatato per lo meno ai decenni finali del 
Trecento o al massimo alle prime due decadi ui secolo XV. 

Secondo le attuali conoscenze in materia, concedendo come valido il processo 
logico innestato da verosimili teorie che attendono conferma, siamo di fronte 
id uno dei più antichi riutilizzi di cippo funerario etrusco claviforme conosciuti 
nell’ambito dell'edilizia civile in Valdera. 

Per quanto concerne invece la pratica culturale il segnacolo in merito si pre- 
senta foriero di utili informazioni, oltretutto quasi assenti per l’area. 

La fotografia qui allegata documenta la presenza di un arco laterizio depresso 
con l'aggiunta di mattoni per lato corto sopra l’estrodosso, in seguito tamponato, 
forse per favorire altre luci sul lato dell’edificio che si affaccia su Piazza Matteotti. 

La presenza della calotta del cippo funerario in posizione superiore e centrale 
rispetto al centro dell’arco depresso risulta di palmare evidenza. 

Ad una prima analisi delle rare strutture murarie databili tra XIII e XIV secolo 
oggi superstiti nell’abitato di Terricciola, siamo in grado di intuire che la tradizio- 
ne edilizia presentava caratteristiche di una certa povertà materiale, e probabil- 
mente le maestranze locali operanti a cavallo del periodo storico citato fed anche 
in seguito) avvalendosi di tecnologie e tipologie formali arretrate ed insistenti 
rispetto ai grandi centri, determinano in larga parte le difficoltà di datazione dei 
corpi di fabbrica. 

Terminata la puntualizzazione edilizia, sembrerà più evidente che il cippo 
funerario sia stato volutamente inserito superiormente e centralmente rispetto 
all'arco sottostante, in quanto la pregiata pietra marmorea poteva conferire al 
fianco dell’edificio una nota di preziosa ricercatezza, rafforzata dalla forma sfe- 
rica aggettante e dalla presenza dell’onphalos che contribuiva a creare un effetto 
circolare incassato esattamente all’interno di un’altra forma circolare aggettante 
a sua volta. 

Tutto questa conferma il voluto reimpiego del cippo non come elemento edi- 
lizio, ma bensì come elemento decorativo. 

Rimane anche da comprendere se lonphalos sia originale, e quindi l'esemplare 
di Vicolo de’ Seri potrebbe essere accostato al cippo numero III della tomba di 
Celli??, datato da Ciampoltrini su considerazioni epigrafiche al VI secolo a.C., 
oppure se originariamente il segnacolo fosse provvisto di umbone ipertrofico in 
seguito scalpellato e pertanto possa essere ricondotto alla tipologia B2 della “clas- 


7 BRUNI 1995, p. 150 s., tav. III a; BRUNI, Legoli, p. 16; CIAMPOLTRINI 1980, p. 75. 

2 Per gli sviluppi urbanistici dell'abitato di Terricciola si veda L. BACCI, L'ampliamento quat- 
trocentesco della chiesa di San Donato di Terricciola: un caso emblematico di rinnovamento urba- 
nistico a seguito delle guerre di conquista fiorentine, in Rassegna Volterrama, 2019, pp. 179-198. 

2 A.E GORI, op. cit. 


170 


Reimpiego, Collezionismo e Antiquaria a Terricciola 





sificazione Ciampoltrini” (III — II secolo a.C.). 

Gli altri segnacoli, di cui forniamo una griglia riassuntiva, rientrano nel gene- 
rale riutilizzo assai meno colto (e forse più recente) di paraccarro o come di 
del cippo di Monteveccioni di Terricciola, come pietra per ribattere il falcetto per 
le lavorazioni agricole. 





Soianella — Via Solferino: ex Pa-| IRREPERIBILE 
lazzo Piazza. (Mariti, Odeporico, VI, c. 
229 r.; Ciampoltrini 1980 p. 76) 


Soiana — Via Pier Capponi. (Bruni| IN SITU 
1995, p. 157 nota 97; Ex A.SIGA.I 
Inv. N°17, tom. L bust. 2.) 

MISURE: Lunghezza. Max mis. 
cm 40; Diam. cm 25 


La Chientina — Via Lemmi. (Bruni | CENTRO DI DOCUMENTAZIO- 
1995 p. 157 nota 99; Ex A.S..G.A.T | NE ARCHEOLOGICA DI VILLA 











Inv. N°26 CD N° 1.) BACIOCCHI (CAPANNOLI) 
MISURE: Lunghezza. Max cm 74; 
Diam. cm 29 
Casanova — Villa Lanfranchi Lan-| IPOGEO DEL BELVEDERE DI 
freducci. TERRICCIOLA 


(Ex A.S.L.G.A.T. Inv. N°17, tom. I 
bust. 2) INEDITO 

MISURE: Lunghezza. Max mis. 
cm 45; Diam. cm 27,5 


Terricciola — Corte Gherardi del | ATTUALMENTE DISPERSO 
Testa. INEDITO 
MISURE: / (Non rilevate) 


Terricciola — località Monteveccio- | IPOGEO DEL BELVEDERE DI 
ni. INEDITO (Ex A.SIG.A.T Inv. | TERRICCIOLA 
N° 7, tom. II bust. 57; Inv. N° 17, 
tom. I, bust. 2.) 

MISURE: Lunghezza Max: cm 76; 
Diam. cm 27. 


Casanova — ex Teatro. INEDITO IPOGEO DEL BELVEDERE DI 
MISURE: Lunghezza Max: cm 32; | TERRICCIOLA 
Diam. cm 19,5 




















La proposta avanzata dallo scrivente nel lontano 2005 e presto avvallata dall’ I- 
spettore Giulio Ciampoltrini di conservare i segnacoli funerari (rinvenuti sempre 
allo scrivente) all’interno dell’Ipogeo del Belvedere di Terricciola garantì una 
adeguata conservazione e l'arricchimento di quello che fu il Percorso Storico- 
Archeologico di Terricciola, ma risulta evidente una piccola parte di smembra- 
mento della raccolta ed anche alcune operazioni di messa in sicurezza che ancora 


171 


Lorenzo Bacci 





oggi tardano ad arrivare, come per il caso del cippo di Via Pier Capponi a Soiana. 

Se con la raccolta delle Acherunticae Columellae all’interno APiposco del 
Belvedere si è voluto creare una prima stabile raccolta archeologica di carattere 
pubblico nel territorio di Terricciola, non di meno ci auguriamo la nascita di un 
più esteso e strutturato Antiquarium, capace di raccogliere le non poche testimo- 
ninaze archeologiche di quest'area. 


Appendice 


Trascrizione delle carte dell’Anonimo Memorialista 
Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze 
(£.77 r.) 


Monumenti d'Antiquaria scoperti in diversi tempi nelle adiacenze di Terricciola 


«Circa all'anno 1752 nell'escavazione dei fondamenti di una nuova fabbrica, che 
presso i muri della Chiesa Parrocchiale dalla parte del Ponente si costruiva per uso 
della sica Centuria30 del SS.mo Rosario i trovati nel Sabbio diversi rottami 
di fibule e vaselletti di rame con un Sarcofago Etrusco, che di presente si vede incassato 
nella facciata della casa canonicale dall'ingresso della Chiesa. 

Nel 1754 in un effetto del Sig.re Francesco Macigni31 Nobile Fiorentino in di- 
stanza circa a 100 passi dal Castello per la a di Levante fù scoperta nel lavorare 
la terra una semplice fossa nel Sabbio con dentro le ossa di uno smisurato Cadavere 
colla spada al fianco con alcuni vasellami di terra di colore, e figura diversa. In un 
antico Sepolcro Ipogeo scavato nel Sabbio, scoperto nell'anno 1756 casualmente da 
certi contadini in una Collinetta chiamata Poggio alle Tane di proprietà del Signore 
Francesco Barsotti di questo luogo, della grandezza per ogni lato di Braccia 5 collin- 
gresso a mezzo giorno serrato E un grosso lastrone di pietra del Paese, distante dal 
Castello un quarto di miglio verso il Levante furono ritrovati quattro Cadaveri, due 
di figura gigantesca collocati unitamente dalla parte di Tramontana colla faccia a 
Levante, uno dei quali aveva in dito un anelletto d'oro del valore di Lire 18 (£. 77 ~v.) 
in circa, e gli altri due Cadaveri, che dimostravano di essere di piccoli fanciulli erano 
collocati al Ponente colla faccia a mezzo giorno; e dalla parte del Levante vi erano 
due Sarcofagi, e molti vasi di terra con alcuni di vetro di figure diverse, e di diversi 
colori, e per ordine del Governo dovè tutto mandarsi a Firenze, a riserva dei Cadaveri 
già tutti disciolti.» 





30. Nella prima trascrizione fatta delle carte in oggetto, pubblicata da Marisa Bonamici nel 1984 


(BONAMICI M., Urne volterrane della Valdera, in Studi di Antichità in Onore di Guglielmo 
Maetzke,Giorgio Bretschneider Editore) il lemma viene trascritto erroneamente, riportando Cantoria 
invece che Centuria. L’attenta osservazione della grafia non lascia adito a dubbi sul fatto che centuria 
debba essere la trascrizione corretta. A questo si aggiunga che proprio Orazio Giovannelli nella metà del 
XVIII secolo fondò due centurie laicali (si veda a tal proposito APT, Miscellanea). 

3! Ancora nella trascrizione della Bonamici troviamo una interpretazione errata del cognome del 
nobile proprietario terriero, che deve essere riportato come Magigni invece che Maciughi. Si ricorda che 
i Macinghi o Macigni sono attestati come grossi proprietari di beni immobili a Terricciola per lo meno 


dal 1560 (ASP, Fiumi e Fossi, 17, filza 2235). 


172 


Reimpiego, Collezionismo e Antiquaria a Terricciola 





Bibliografia 


Bacci L., Lampliamento Li della chiesa di San Donato di Terricciola: 
un caso emblematico di rinnovamento urbanistico a seguito delle guerre di con- 
quista fiorentine, in Rassegna Volterrama, 2019. 

Bacci L. — Boppi A., Don Secondo Griselli Arciprete di Terricciola. 


Bonamici M., Nuovi monumenti di marmo dall’Etruria settentrionale, in ‘Archeo- 
logia Classica’, 43, 1991. 

Bruni S., La Valdera e le Colline Pisane Inferiori: appunti per la storia del popola- 
mento, in Aspetti della cultura di Volterra etrusca, Firenze 1997.. 


Bruni S., Legoli. Un centro minore del territorio volterrano, Bandecchi& Vivaldi, 
Pontedera 1999. 

CIAMPOLTRINI G., / cippi funerari della Media e Bassa Valdera, in Prospettiva, 21, 
1980. 

CIAMPOLTRINI G., Gli Etruschi di Terricciola. Cronache di archeologia della Valde- 
ra dall'arciprete Giovannelli (1729) al Gruppo , Tectiana“" — con un contributo 
di Lorenzo Bacci, Rete Museale della Valdera, Bandecchi&Vivaldi, Pontedera 
2005. 


De BenEpICTIS C., Per la storia del Collezionismo italiano, Ponte alle Grazie Edi- 
tori, Firenze, 2002. 


Gori A.F., Museum Etruscum, III parte II, Florentiae, 1743. 


MARANGONI G., Delle cose gentilesche e profane trasportate ad uso, ed ad orna- 
mento delle Chiese, Roma 1744. 


Marti G., Odeporico ossia Itinerario per le Colline Pisane. Terricciola, Morona, 
Chianni, Rivalto castelli dell'Alta Valdera, (a cura di Benozzo Gianetti), CLD 
Libri 2001. 


Peruzzi S.B., Notizie dell'origine, ed istituto della Società Colombaria fiorentina, 
I, 1747. 


QuarremèrE DE Quincy A. C., Letres sur le préjudices qu'occasionnerait aux arts 
et à la science le déplacement des monuments de l'art de l'Italie, le démembrement 
de ses Ecoles, et la spoliation de ses Collections, Galeriés, Musées, etc, 1796. 


Targioni Tozzetti G., Relazione d’alcuni viaggi fatti in diverse parti della Tosca- 
na, I, Firenze 1768. 


Abbreviazioni 
ASP, Archivio di Stato di Pisa. 


ASIGAT, Archivio Storico Iconografico Gruppo Archeologico Tectiana (poi con- 
fluito presso l'Archivio Lorenzo Bacci). 


APT, Archivio Parrocchiale Terricciola. 


173 


Lorenzo Bacci 








Fig. 1: Urna cineraria della Canonica di San Donato Martire di Terricciola (II secolo a.C.) 


174 


Reimpiego, Collezionismo e Antiquaria a Terricciola 





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Fig. 2: Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze, Manoscritti, II, VI, 60 (2) 


175 


Lorenzo Bacci 





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Fig. 3: Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze, Manoscritti, II, VI, 60 


176 


Reimpiego, Collezionismo e Antiquaria a Terricciola 








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dario. fava sul Sion astro, sp 


d'igfior e ade uma”. 


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Fig. 4: L’urna cineraria da località Antica inserita nell'elenco delle opere conservate dal Lasinio nel 
Camposanto di Pisa 


177 


Lorenzo Bacci Reimpiego, Collezionismo e Antiquaria a Terricciola 











Fig. 5: lettera dell’arciprete Luigi Cantini a Carlo Lasinio in merito all’urna cineraria della canonica di Fig. 6: Il cippo funerario etrusco collocato all'angolo della capella del palazzo Gherardi Del Testa da 
Terricciola una cartolina d’epoca 


178 179 


Lorenzo Bacci Reimpiego, Collezionismo e Antiquaria a Terricciola 











Cippo funerario etrusco reimpiegato in Vicolo de' Seri con funzione decorativa. Cippo funerario etrusco reimpiegato in Vicolo de' Seri con funzione decorativa (particolare). 


180 181 


Tangenze alfieriane a San Miniato 





ANGELO FABRIZI 


Nelle lettere di Vittorio Alfieri sincontrano due menzioni di La Scala di San 
Miniato: 


A Mario Bianchi — Siena. 

Pisa, 25 novembre 1784. 

Amico Carissimo. Col mio corteggio Bacchesco arrivai sano, e salvo a Poggi- 
bonzi quella sera, che non fu piccola impresa; la Domenica posai alla Scala, e il 
Lunedì qui, io, e tutte l'altre bestie in ottima salute!. 


A Mario Bianchi- Siena. 

Pisa, 22 aprile 1785. 

A[mico] Clarissimo]. Jersera son arrivato alle sette, benchè da Poggibonzi alla 
Scala stessi più di cinque ore?. 


Questi due passi meritano spiegazioni. Nel primo Alfieri scrive al suo grande 
amico senese Mario Bianchi (1756-1796). Il Bianchi ospitò talora Alfieri nella 
sua magnifica villa di Geggiano nel comune di Castelnuovo Berardenga. La villa è 
tuttora conservata e abitata dai discendenti del Bianchi. Alla famiglia appartenne 
Ranuccio Bianchi Bandinelli (1900-1975), archeologo illustre e mio professore 
di archeologia all'università di Roma negli anni sessanta del secolo scorso. A lui 
si deve una breve storia della villa. A Siena Alfieri ebbe amici il Bianchi, Fran- 
cesco Gori Gandellini (cui dedicherà La virtù sconosciuta), Ansano Luti, Giusep- 
pe Ciaccheri, Candido Pistoj, Pietro Giacomo Belli, Anton Maria Borgognini, 
Giovan Battista Mugnaini, Teresa Regoli Mocenni. Questa fu amica intima del 
Bianchi, pur essendo sposata con Ansano Mocenni. Teresa fu madre di Quirina 
Mocenni Magiotti, amica di Ugo Foscolo‘. Si noti l'ironia delle parole «io, e tutte 
l'altre bestie». «Col mio corteggio bacchesco» allude al fatto che allora Alfieri 
viaggiava con i suoi 14 cavalli, che aveva acquistato qualche mese prima a Lon- 
dra. Era con numerosi servitori, abituati a bere in abbondanza vino?. Bacco era 





! Vittorio Alfieri, Epistolario, A cura di Lanfranco Caretti, vol. I (1767-1788), Asti, 
Casa d’Alferi, 1963, p. 200. 

2 Tvi, p. 259. 

3 Ranuccio Bianchi Bandinelli, Geggiano, A cura di Mario De Gregorio, Introduzione 
di Roberto Barzanti, Biblioteca Comunale «Ranuccio Bianchi Bandinelli», Castelnuovo Be- 
rardenga, Editori del Grifo, 1985. 

‘ Vedi Roberto Barzanti, Vittorio Alfieri e il "crocchietto ... da non credersi”, in Roberto 
Barzanti, Attilio Brilli, Soggiorni senesi tra mito e memoria, Cinisello Balsamo, Silvana Editoriale, 
Monte dei Paschi di Siena, 2007, pp. 81-107. Ivi anche molte foto della villa di Geggiano. 

5 Vedi Vittorio Alfieri, Vita scritta da esso, Torino Einaudi, 1974, Ep. IV, cap. XIV. 


183 


Angelo Fabrizi 


Tangenze alfieriane a San Miniato 








raffigurato in antico come accompagnato da satiri ubriachi, ninfe, fiere. L'aggetti- 
vo bacchesco non è registrato nel Battaglia®. Ma in Toscana era ed è molto diffuso 
anche il cognome Baccheschi. 

L'espressione «posai alla Scala»: vuol dire che Alfieri pernottò alla Posta della 
Scala. Qui erano infatti un’osteria e un ricovero, dipendenti dall’ospedale di San- 
ta Maria della Scala di Siena. Questo è attualmente un vastissimo complesso mu- 
seale (di 19.000 m°), posto in piazza del Duomo. Dal 1997 ospita raccolte d’arte 
e reperti dall’antichità ai tempi moderni. L'appellativo “della Scala” risale al XII 
secolo, ed è dovuto al fatto che a Siena l'ospedale era posto davanti alla gradinata 
della chiesa principale. L'ospedale ha funzionato fino al 1995. 

L'insegna di ferro in forma di scala è tuttora pendente sopra la porta dell edifi- 
cio della Scala di San Miniato, dove presumibilmente era l’osteria. Sotto l'insegna 
è murata una targa di marmo con la scritta: 

L'INSEGNA / RIMASTA INTATTA / NELLA COMPLETA TRASFOR- 
MAZIONE / DEL GRANDIOSO OSPEDALE SENESE / DI CUI USARO- 
NO FIN DAL 1300 / I NOSTRI ANTENATI / RICORDI AI POSTERI / 
PERCHE QUESTO PAESE / EBBE IL NOME DI SCALA. 


L'insegna riproduce l'emblema dell’ospedale senese. La Scala si trova alle pen- 
dici di San Miniato (alto), a 2 km dal centro comunale, in un quadrivio posto 
tra San Miniato (alto), Isola, Ponte a Elsa, San Miniato Basso. Di La Scala si ha 
notizia fin dal 11947. Essa? si trovava a metà percorso della strada Pisana Regia, 
cioè mantenuta a spese del governo granducale, e dove era assicurato ai corrieri 
il cambio dei cavalli e locali di ristoro. Era anche strada postale. Era ampia e co- 
moda. Aveva una carreggiata di 5 braccia, cioè m. 2,50. Ai lati aveva le banchine 
(dette Panchine) di mezzo braccio. Le strade avevano una massicciata, a volte 
fatta con sassi, erano ricoperte di silice impastata con calcina, o di ghiaia di fiume 
o di cava, o di materiali di scarto , o di tufo asciutto’. 

Alfieri nei suoi tanti viaggi da Siena a Pisa, da Firenze a Pisa, e viceversa, tran- 
sitò molte volte per La sa dove si fermava spesso. Avrà certo volto lo sguardo 
verso il colle e la rocca di San Miniato. Ma non ce lo dice. Né risulta che vi sia 
mai salito. 


Nemmeno un altro antico viaggiatore ci salì. Parlo di Montaigne (amatissimo 
da Alfieri). Egli, nel suo Journal de Voyage en Italie par la Suisse et l’Allemagne en 
1580 et 1581, scrive del suo arrivo a La Scala: 


$ Salvatore Battaglia, Grande Dizionario della lingua italiana Torino, UTET, 1989- 
2002, voll. 21. 

7 Emanuele Repetti, Dizionario geografico fisico storico della Toscana, Firenze, 1833- 
1845, 6 voll., vol. V, p. 210. 

8 In un documento del 1776 è menzionata la «Posta detta della Scala». Vedi Manuela 
Parentini, La viabilità nel territorio sanminiatese nel XVIII secolo, in: San Miniato nel Sette- 
cento. Economia, Società, Arte, Cassa di Risparmio di San Miniato /Ospedaletto (Pisa), Pacini 
Editore, 2003, p. 151. 

? Vedi Manuela Parentini, La viabilità nel territorio sanminiatese nel XVIII secolo, cit., 
pp. [113]-15; Cristina Badon, Lavori pubblici e appalti. Le strade regie postali nel Granducato 

i Toscana durante la prima età lorenese (1737-1799), Centro Editoriale Toscano, 2008. 


184 


Scala, 20 miglia, alloggiamento solo, assai buono. Non cenai; e dormii poco, 
molestato d’un dolor di denti sulla destra, il quale molte volte sentiva col mio 
mal di testa. Mi fatigava più nel mangiare, non potendo toccar nulla senza dolore 
grandissimo. 

La mattina del lunedì, 3 di luglio, seguitassimo la strada piana il lungo d’Ar- 
no, e sul fine una pianura ubertosa di biade. Capitassimo sul meriggio a Pisa. 

Un altro accenno risale al 20-21 settembre 1581: 


Varcammo poi l'Arno a Fucecchio, e capitammo al buio alla Scala, 20 miglia. 
Di Scala partii al spuntar del sole. Passai un cammino bello e quasi pari. Il paese, 
montuoso di montagne piccole e fertilissime come le montagne francesche. 

Tra le «montagne piccole e fertilissime» c'è certo anche il colle su cui sorgeva 
San Miniato alto con la sua rocca. Infine trovo: 

Il giovedì, 27 luglio [1581] partimmo a buona ora di Pisa, molto satisfatto io 
delle cortesie et amorevolezze ch'io ci aveva ricevuto dal sig. Vintavinti, di Lo- 
renzo Conti del S. Miniato (abita in casa il sig. cavaliere Camillo Gatani: m'offrì 
il suo fratello per venire meco in Francia), del Borro et altri artigiani e mercanti 
con cui avea preso pratica. 

Lorenzo Conti apparteneva certo alla famiglia Conti, che a San Miniato ha 
molti rappresentanti dal secolo XVI al XX”. Il Journal di Montaigne è scritto 
in parte in francese da un suo domestico colto, e in parte da lui stesso in italia- 
no", Esso rimase inedito. Fu scoperto nell'archivio del castello di Montaigne nel 
1769 dal canonico Don Prunis. Fu pubblicato nel 1774 dall'editore Meunier de 
Querlon: ma su una copia eseguita da Giuseppe Bartoli. Il manoscritto originale 
poi scomparve. Non so se sia dovuta al ricordo delle soste alfieriane a La Scala la 
denominazione di via Vittorio Alfieri in San Miniato Basso. 


Alfieri ebbe un breve iniziale entusiasmo per la rivoluzione francese. Ma pre- 
sto se ne disgustò, e non per alterigia nobiliare. Addirittura il 18 agosto 1792 lui 
e la sua compagna, Luisa d’Albany, riuscirono a stento a sfuggire ai controllori 
della Barrière Blanche e a lasciare la Francia. E in sua assenza gli fu sequestrata la 
biblioteca con tutti i suoi beni. In seguito riuscirà ad avere la restituzione dei soli 
suoi manoscritti. Furono gli sviluppi violenti degli avvenimenti a portarlo a una 
condanna senza appello della rivoluzione. Meno che mai approvò il ruolo che 
Napoleone ebbe prima come generale, poi come esponente del Direttorio, poi 
come imperatore. Non lo nominò mai nelle sue opere, se non una volta. Forse fu 
lui la causa del suo mancato viaggio a San Miniato? Perché invece proprio qui salì 
Napoleone il 29 giugno 1796, per far visita al canonico Filippo Bonaparte (1732- 
1799), col quale si estinguerà NI secondo ramo sanminiatese dei Buonaparte. 





10 Sui Conti vedi Dizionario biografico dei Sanminiatesi, a cura di Roberto Boldrini, 
Ospedaletto (Pisa), Pacini editore, 2001. 

!! Uso la seguente edizione: Michel de Montaigne, Viaggio in Italia, introduzione di 
Giovanni Greco, traduzione e note di Ettore Camesasca, Biblioteca Universale Rizzoli, 2008, 
pp. 361, 385-386, 369. Questa parte fu scritta da Montaigne in italiano. Nell’ed. originale il 
testo è in francese fino a p. 252; in italiano da p. 253 alla fine, cioè p. 424. 


185 


Angelo Fabrizi 





Alfieri conobbe il grande erudito e diarista fiorentino Giuseppe Pelli Benci- 
venni (1729-1808). Il Pelli dedicò molte pagine (da me studiate e pubblicate) 
alle opere di Alfieri nel suo immenso diario manoscritto in 80 volumi, conservato 
nella Biblioteca Nazionale di Firenze. Il Pelli preferiva i melodrammi di Metasta- 
sio alle severe tragedie di Alfieri, e il poeta piemontese gli riusciva antipatico. Ma 
le sue tragedie lo attraevano, anche se rimaneva sgomento dinanzi alle a novità 
stilistiche e di contenuto. La maggior parte degli scritti del Pelli è rimasta inedita. 
Non credo che Alfieri abbia mai conosciuto del Pelli le Notizie di diversi letterati 
di S. Miniato al Tedesco. Il Pelli vi dava un ragguaglio su 24 personalità sanminia- 
tesi vissute dal Duecento al Seicento. Lo scritto è ora pubblicato!”. 

Nel maggio 1799 fu vicario governativo in San Miniato Giovanni Carmigna- 
ni (San Benedetto a Settimo [Pisa] 1768-Pisa 1847). A San Miniato era stata pro- 
clamata la repubblica il 3 aprile 1799. Ma essa durò fino al maggio. E non so se 
il Carmignani fece in tempo ad andarvi. Carmignani fu autore di una tragedia! 
e poi divenne importantissimo giurista dell’università pisana. Da giovane aveva 
recitato in tragedie alfieriane, messe in scena da Alfieri nella sua casa affittata, la 
palazzina Gianfigliazzi, sul Lungarno di fronte a ponte Santa Trìnita. Alcuni anni 
dopo le scene per le recite furono dipinte da un artista sanminiatese, Antonio 
Niccolini (1772-1850). Inoltre il Carmignani fu autore del primo studio com- 
plessivo sul teatro alfieriano, Dissertazione critica sulle tragedie di Vittorio Alfieri da 
Asti, in Atti della solenne adunanza dell’Accademia Napoleone in occasione di cele- 
brarsi il giorno di nascita di Sua Altezza Serenissima il principe Felice Primo il dì 18 
maggio 1806, Lucca, Presso Berini stampatore di S.A.S:, 1806, pp. 1-149 (riedita 
nel 1807 e 1822). Il saggio, notevole per la sua ampiezza e organicità, era però 
pervaso da sostanziale negazione del valore delle tragedie alfieriane. I più ragguar- 
devoli esponenti della vita culturale dell’epoca, come Monti, Cesarotti, Bettinelli, 
manifestarono piena condivisione con esso. Invece non bene lo accolsero Foscolo 
e Leopardi (vedansi Epistolari dell'uno e dell’altro) (e scusate se è poco). 


Nel 1804 veniva pubblicato l'opuscolo Alfieri tra l'ombre. Azione eroico-fa- 
volosa in due atti scritta in verso sciolto dall'attore Antonio Morrochesi fiorentino 
dedicata all'erudito popolo Bolognese. Bologna MDCCCIV. Anno III rep. Per le 
Stampe di Ulisse Ramponi a S. Damiano. Con approvazione, di pp. 34. I perso- 
naggi dell’azione sono: Alfieri, Dante, Sofocle, Voltaire, Destino, Pitagora, Tem- 
po, Plutone, Etruria, Pallade, Eternità, Virtù, Gloria, Fama.Poi ci sono le ombre 
mute di Eschilo, Euripide, Racine, Cornelio, Crebillon, Skahespear (sic). In una 
premessa di 32 sciolti, intitolata All'erudito popolo bolognese, l’autore chiede venia 
ai bolognesi per il fatto che egli tenti la via della poesia. Sa che l'impresa è supe- 
riore sn sue forze. Tuttavia gli è impossibile tacere. Egli è spinto dalla volontà 
di porgere un omaggio al «primo / Tragico Genio», cioè Alfieri. Egli si dichiara 





12 Da Alexander Di Bartolo, ‘Notizie di diversi letterati di San Miniato al Tedesco’ dal 
“Magazzino Universale” di Bencivenni Pelli, «Bollettino della Accademia degli Euteleti della 
città di San Miniato», n. 87, 2020, pp. 565-574. 

! Vedi Luca Frassineti, Giovanni Carmignani poeta tragico: lettura della Polissena (1789), 
in: Giovanni Carmignani (1768-1847). Maestro di scienze criminali e pratico del foro, sulle so- 
glie del Diritto Penale contemporaneo, a cura di Mario Montorzi, redazione di Chiara Galligani 
e Marco Paolo Geri, Pisa, Edizioni ETS, 2003, pp. 217-232. 


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Tangenze alfieriane a San Miniato 





suo debitore. E vuole esprimere a lui gratitudine, e dedicarla ai bolognesi, che 
tanto stimano Alfieri. Si tratta di un dono indegno dei bolognesi. Ma nessuno 
lo condannerà, per un’opera nata dalla gratitudine. Segue una premessa in prosa 
Al lettore. Dice che ci vorrebbero «sovrani talenti» per dar voce alla «gratitudine 
illimitata» che egli professa per il «gran genio immortale». Dopo avere offerto ai 
bolognesi dieci suoi componimenti teatrali, offre ora questa azione. Nell’atto I il 
Destino annuncia a Pitagora che è in arrivo Alfieri nei regni dell’aldilà. Il Destino 
annuncia al Tempo l’arrivo di Alfieri, L'Etruria piange la morte di Alfieri. Lei 
annuncia ad Alfieri che è morto. Alfieri è accolto da Dante e Voltaire. Plutone si 
stupisce di vedere all’inferno due spiriti degli Elisi, Dante e Alfieri. Essi vogliono 
vedere i poeti greci antichi. Incontrano Sofode. Alfieri deplora la frantumazione 
politica d’Italia. Nell’atto II Pallade colloca Alfieri tra Eternità, Virtù, Gloria, 
Fama. Alfieri è contento di aver visto i tragici greci, francesi, e l’inglese. Esile 
trama, come si vede, e continuamente ridondante di esaltazione di Alfieri. Le sue 
tragedie avevano reso famoso Morrocchesi. Egli era stato elogiato direttamente 
da Alfieri a Firenze. Non dico altro su Morrocchesi (San Casciano in Val di Pesa 
1768-Firenze 1838). Questo opuscolo si trova, per quanto ne so, solo nella Bi- 
blioteca Medicea Laurenziana di Firenze (coll. ROSSI 388). Ma perché lo evoco 
qui? L'esemplare, che, ripeto, è forse unico al mondo, era nella biblioteca privata 
di Lovanio Rossi (1920-2007) a Colle Val d’Elsa. Lovanio Rossi donò la sua 
collezione alfieriana di oltre 1100 volumi alla Biblioteca Medicea Laurenziana“. 
Sul v. della copertina anteriore Lovanio Rossi scrisse a lapis: «Dalla Bibl. / di San 
Miniato al Tedesco». Che vuol dire? Da una biblioteca privata o pubblica? Credo 
pubblica. In quale circostanza l'opuscolo pervenne a Lovanio Rossi? Egli formò 
la sua raccolta alfieriana dal 1938 al 2007. Non lo sapremo mai. Resta il fatto che 
siamo dinanzi a un opuscolo rarissimo. 


Nel 1821 usciva di Pietro Bagnoli (San Miniato 1767-San Miniato 1847) // 
Cadmo poema di Pietro Bagnoli, Pisa, Presso Sebastiano Nistri, MDCCCXXI, 2 
vol. Il poema era in 20 canti in ottava rima”. Il canto VIII, ott. XLVII (vol. I, 
p. 290-291) menziona Alfieri. Il canto fa prima una rassegna dei grandi poeti e 
pensatori portoghesi, spagnoli, inglesi, francesi, tedeschi. Poi parla degli italiani: 


Fama è di te dall’Indo all’Etiòpe, 
Gran Metastasio, che a tua voglia il pianto 
Fai derivar, di gioia e di martoro, 
Dal dolce fonte delle corde d’oro. 


In te si mostra e nel diverso Alfieri, 
D'Italia aggiunto onor, nel sermon Tosco, 
Qual di modi ubertà, soavi e fieri, 
Quanto sia di color sereno e fosco; 





4 E ne ho fatto il catalogo. Edizioni alfieriane nella raccolta di Lovanio Rossi, a cura di Angelo 
Fabrizi, Canterano (Roma), Aracne, 2019. L’opuscolo di Morrocchesi è descritto a p. 386. 

5 Ristampato con titolo: X Cadmo ossia l'introduzione della civil cultura, Samminiato, 
Presso Antonio Canesi, MDCCCXXVI. 


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Angelo Fabrizi 


Tangenze alfieriane a San Miniato 








Tal porta atti e sembianti o muti, o austeri 
La Dea, ch'è Luna in ciel, Diana in bosco, 
Ecate nell’Averno. 


Con i modi «soavi» e col color «sereno» Bagnoli si riferisce alla poesia di Me- 
tastasio, con i modi «fieri» e col color «fosco» invece pensa ad Alberi Di nuo- 
vo accenna ad Alfieri nella breve premessa alle sue Note alle poesie sacre. Parla 
dell’interesse dei grandi poeti, non solo italiani, per la Bibbia. Dopo essersi fer- 
mato su Dante scrive: 

Il Tasso nella sua Gerusalemme, e nelle Sette Giornate del Mondo Creato, 
Milton nel Paradiso perduto, Il Vida nella Cristeide, il Sannazzarro nei Canti sul 
Parto Verginale, Metastasio nei Drammi Sacri, e anco il severo Alfieri nel Saul, 
per tacere di altri, mostrarono di avere profondamente studiato le Bibliche Poesie. 

Nel poema non può esimersi dal menzionare Alfieri, sia pure definito «diver- 
so», sintende dal «Gran Metastasio», e comunque che fa onore all'Italia. Nelle 
Note Alfieri è detto «severo», ma accomunato agli altri poeti che hanno profonda- 
mente conosciuto i testi biblici. In entrambe le menzioni c'è una lieve diffidenza 
verso Alfieri, che, com'è noto, aveva scritto pagine di fuoco in Della tirannide 
contro la Chiesa cattolica e non professava alcuna religione. Egli considerò poi le 
religioni solo strumento politico utile a mantenere l’ordine sociale. Il Bagnoli fu 
sacerdote, poeta, librettista, e docente universitario. Rimase sempre entro i limiti 
di un classicismo ormai fuori tempo. Scrisse molto comunque e merita la nostra 
attenzione”. Il Bagnoli conobbe letterati e scrittori della sua età, che si occuparo- 
no di Alfieri (come Carmignani e Giovanni Rosini). 

Nel 1857 apparvero le Poesie scelte di Pietro Bagnoli con un discorso e note di 
Augusto Conti, Firenze, Felice Le Monnier, 1857. Augusto Conti (San Pietro alle 
Fonti di San Miniato 1822-Firenze 1905) fu docente universitario, filosofo spiri- 
tualista e antipositivista, pedagogista, politico (della Destra). Scrisse moltissimo. 
Nel Discorso sul Bagnoli (pp. [NI]-XXXVII]) ricorda la Vita ď Alfieri, quando il 
poeta scrive di non aver mai capito nulla della geometria (II, IV). Invece il Ba- 

noli, precisa Conti, dimostrò inclinazione agli studi scientifici come alle lettere 
pp. VI-VII. 

A proposito della necessità che ha l’artista di avere idee chiare Conti scrive: 

Che fa egli l'artista, l'artista che non procede alla ventura, subitochè si propo- 
ne un’opera? Pensa il proprio argomento. E chè mai pensare il proprio argomen- 
to? Pensasi questo facendosene in mente un'idea più an e più ordinata e piena 
che si può; vuoi per esempio l’idea d’un tiranno astuto e simulatore nel Filippo 
dell Alfieri, vuoi l’idea cristiana di Dio nelle Cattedrali tedesche o italiane! ecc. 

Parlando del comico e del tragico accenna a Goldoni e ad Alfieri. Secondo 
lui Goldoni eccelse nel genere comico, Alfieri nel genere tragico. Oggi riteniamo 





!6 In Poesie sacre del cav. Pietro Bagnoli samminiatese, Tomo Terzo, Samminiato, Presso 
Antonio Canesi, MDCCCVIII, pp. 165-166. 

7 Vedi Manola Guazzini, // sanminiatese Pietro Bagnoli: “un frutto fuori stagione” da 
studiare, «Bollettino della Accademia degli Euteleti della città di San Miniato», n. 83, 2016, 
pp. 35-39. 

18 Il bello nel vero Libri quattro di Augusto Conti, Firenze, Successori Le Monnier, 1872, 
pp. 177-178. 


188 


però che non c'è nulla di più serio di certe commedie goldoniane, e nulla di più 
comico di certi epigrammi, satire, commedie alfieriane. Così scrive il Conti: 

Così quel caro uomo di Carlo Goldoni, portentosissimo nel commediare, in 
argomenti serj non riusciva; né in faceti riusciva l’accigliato Alfieri; e veramente 
chi visiti a Venezia, presso San Tomà, il bel palazzetto Goldoni, sente spirare 
umaura di giocondezza, come raccoglimento austero spirano le signorili stanze di 
casa Alfieri ad Asti. Ma Alighieri, lo Shakspeare, il Rossini le due sorte d'ingegno 
ebbero unite”. 

Altrove esprime stima per Alfieri, giudicato riduttivamente, cioè secondo la 
prospettiva risorgimentale dominante, soprattutto come rappresentante dell’a- 
mor di patria e della libertà: 

L’Alfieri, che noi tutti amiamo per l'impulso datoci all'amore di patria e di 
libertà, e che tuttavia, vituperando i Volterrini (com'esso li chiamò), sentiva qua 
e là del suo tempo, dice: guai all'uomo che per essere galantuomo gli necessiti la 
religione”. 

I «Volterrini» sarebbero i seguaci di Voltaire, nemico delle religioni, pur essen- 
do lui deista. Ma è una forzatura di Conti. Nella sua satira VII, L'antireligioneria, 
Alfieri usa questo diminutivo per apostrofare sprezzantemente Voltaire e per dire 
che ha generato solo «rei»: «Ahi, Volterin, di quanti rei fu padre”/ Il Testamento 
tuo, che fu il Digesto / Donde hanno il Santo or le servili squadre!»?!. (che vuol 
dire: ‘Ahi, piccolo Voltaire, di quanti malvagi fu padre il lascito della tua filosofia, 
che costituì la raccolta delle norme, che i tuoi ciechi seguaci seguono come fosse- 
ro qualcosa di sacro’). Poco dopo Conti aggiunge: 

È come potrà dunque l’onest'uomo logicamente, sia pur Sofocle o l’Alfieri, 
Platone o il Vico, non esser compagnevole in questo, nella Religione; senza la 
quale il sentimento religioso, segregandosi da ogni compagnia esterna, si attenua 
e s'infiacchisce, come ogni sentimento nella solitudine disamorata? 

Naturalmente gli lasciamo questa singolare sua opinione. 


Giosue Carducci scrisse il sonetto Vittorio Alfieri a Celle sul Rigo alle pendici 
dell’Amiata il 22 agosto 1853, e lo rivide poi a San Miniato il 12, 17, 20 mag- 
gio. Esso fu stampato in Giosuè Carducci, Rime, San Miniato, Massimo Ristori, 
18577. 


29 Ivi, p. 162. 

20 Vedi Il buono nel vero Libri quattro di Augusto Conti, Firenze, Successori Le Monnier, 
1873, p. 425. 

21 Il verso Ahi, Volterin, di quanti rei fu padre” è posto da Alfieri tra virgolette, perché 
vuole essere una reminiscenza dantesca (da /nf. XIX 115: «Ahi Costantin, di quanto mal fu 
matre»). Si cita da Vittorio Alfieri, Satire, A cura di Gabriella Fenocchio, Milano-Udine, 
Mimesis / Mim Edizioni srl, 2017, Satira VII, vv. 175-177, p. 138. 

2 Vedi Antonio Gamucci, // Ginnasio Samminiatese delle “Risorse”, «Bollettino della 
Accademia degli Euteleti della città di San Miniato», n. 34, maggio 1962, pp. 59-63; Manola 
Guazzini, Di Giosuè Carducci e dell'editore delle sue prime poesie, ivi, XXXI, 1957, pp. 90-93. 
Quando nell’anno scolastico 1967-1968 insegnai nel liceo scientifico Guglielmo Marconi di 
San Miniato, conobbi tra gli altri due colti sanminiatesi. Ricordo con grande stima il Pre- 
side Antonio Gamucci (1921-1972), come anche don Giancarlo Ruggini, di vasti interessi 
culturali. Vedi la Commemorazione del defunto Presidente dell'Accademia degli Euteleti, Prof. 


189 


Angelo Fabrizi 





Il pittore Annibale Gatti (Forlì 1828-Firenze 1909), artista importante del 
secondo Ottocento, eseguì verso il 1870 l’affresco Alfieri mascherato da agnello, 
ovvero l’incontro di Alfieri con i dotti fiorentini. Com'è noto le sue tragedie non 
ebbero buona accoglienza. Ne fu criticato lo stile e la lingua, giudicati arcaici e 
oscuri. L'affresco è nel soffitto della sala gialla della villa Il Larione di Firenze, via 
Benedetto Fortini 40%. La villa fu costruita nel Quattrocento su disegno di Fi- 
lippo Brunelleschi, e ricostruita nel 1571 da Ilarione dei Buongugliemi, da cui il 
nome rimastole di Larione. Nel 1867 il nuovo proprietario dott. Cesare Campani 
la fece restaurare e fece eseguire l'affresco dal Gatti. Attualmente la villa ospita 
suore dell'Ordine religioso Figlie di S. Francesco, che vi dirigono l’Istituto S. 
Anna, casa di riposo. IP Gati, noto agli alfieristi per la detta opera, aveva affresca- 
to nel 1859 in San Miniato nella cattedrale dell’ Assunta e di San Genesio (detta 
di San Domenico) la calotta con La Vergine Assunta e quattro angeli, caratterizzati 
da delicati colori ed elegante composizione”. 

Nel 1924 il nno sanminiatese Lorenzo Antonini (1843-1932) volle ce- 
lebrare il primo centenario della morte di Luisa Stolberg-Gedern contessa d’Al- 
bany e compagna di Alfieri. Per questo stampò un volumetto: La contessa d'Al- 
bany. Varietà storiche. Casa di Pier Della Vigna, Edizione di 100 esemplari fuori 
commercio, S. Miniato, Tipografia e Cartoleria V. Bongi, 1924, pp. 46. Nelle 
prede pagine si ricordano l’Albany e poi la morte di Alfieri. Nel resto del vo- 

umetto si affollano altri ricordi storici soprattutto ottocenteschi. Il volumetto 
è una rarità. Esiste solo nella Biblioteca Marucelliana di Firenze (collocazione 
Misc. 1732, 14)?.. 


Infine un ricordo personale. Il sottoscritto si è trasferito in Toscana nel 1967 
per poter compiere i suoi studi alfieriani. Senonché invece che a Firenze, dove 
sono i manoscritti alfieriani (Biblioteca Medicea Laurenziana), il Ministero della 
Pubblica Istruzione lo assegnò per un anno, 1967-1968, al Liceo Scientifico Gu- 
glielmo Marconi di San Miniato. Non tralasciò gli studi, poi continuati a Firenze, 
dove risiede dal 1968. La menzione è giustificata dal fatto che egli si considera il 
più assiduo e fedele dei pochi alfieristi viventi. Egli è rimasto legatissimo a San 
Miniato e alla sua storia, per aver sposato nel 1969 una sanminiatese. 





Antonio Gamucci (1921-1972), «Bollettino della Accademia degli Euteleti della città si San 
Miniato», n. 43, 1974. Volle donarmi il «Bollettino» del 1962 don Giancarlo Ruggini (1920 
-1973), perché vi era un suo bel saggio storico: // contributo dei Cattolici all'unità Flialia (pp. 
[9]-56). A p. [9] mi scrisse la seguente dedica: A/ Prof Angelo Fabrizi questa esercitazione di un 
dilettante che ne inventa di sottoterra per non dichiararsi morto, con tanta stima ed amicizia. S. 
Miniato, 11 Maggio 1968. Giancarlo Ruggini. 

3 Caterina Zappia, Annibale Gatti pittore di Firenze capitale, Roma, De Luca editore / 
Casa di Risparmio di San Miniato, 1985, pp. 67, 70; Angelo Fabrizi, Alfieri e i letterati tosca- 
ni, in Alfieri in Toscana, Atti del Convegno Internazionale di Studi, Firenze, 19-20-21 ottobre 
2000, A cura di Gino Tellini e Roberta Turchi, Firenze, Olschki, 2002, 2 voll., vol. II, pp. 
647-735: 700-701. 

2 Vedi Caterina Zappia, op. cit., pp. 30-31, con riproduzione a colori dell affresco 
alfieriano a pp. 27-29. 

% Vedi il mio articolo Un poligrafo sanminiatese, «Bollettino dell’Accademia degli Eute- 
leti della città di San Miniato a Tu, 86, dicembre 2019, pp. 269-271. 


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Tangenze alfieriane a San Miniato 








Fig. 1: François-Xavier Fabre, Ritratto di Vittorio Alfieri, 1797 (Asti, Fondazione Centro Studi Alferiani). 


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Angelo Fabrizi 








Fig. 2: Veduta di San Miniato (Tempera del sec. XVIII, Accademia degli Euteleti) (dal «Bollettino della 
Accademia degli Euteleti della città di San Miniato», n. 36, 1964, tavole XL-XLI). 





Fig. 3: Veduta di San Miniato (Synodus Diocesana Miniatensis, 1707; da Emila Marcori, Per una storia 
settecentesca di Castelvecchio: documenti e immagini del palazzo dei vicari e dei ministri, in: San Miniato 
nel Settecento. Economia, società, arte, cit., pp. 175-196: 180). 


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Tangenze alfieriane a San Miniato 





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Fig. 4: Villa di Cino Bien Biblioteca degli ia C. II. 4, c. 214). 


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Fig. 5: Ľinsegna di ferro appesa sulla facciata dell’edificio, al cui posto era un tempo osteria e ricovero 


di La Scala di San Miniato. 


193 


Angelo Fabrizi Tangenze alfieriane a San Miniato 











Fig. 6: La Scala (in alto al centro, in una piantina del 1780 ca., da Manuela Parentini, La viabilità nel 
territorio sanminiatese nel XVIII secolo, in: San Miniato nel Settecento. Economia, società, arte, a cura di 
Paolo Morelli, Cassa di Risparmio di San Miniato, Ospedaletto, Pisa, 2003, pp. 113-153: 122). Fig. 8: Siena, Emblema marmoreo sulla facciata di Santa Maria della Scala. 


194 195 


Angelo Fabrizi Tangenze alfieriane a San Miniato 











Fig. 9: Ritratto di Montaigne, Scuola francese del XVI secolo, Museo Condé. 


Fig. 10: Giovanni Antonio Santarelli, Ritratto di Giuseppe Pelli Bencivenni (Firenze, Museo del Bargello). 


196 197 


Angelo Fabrizi Tangenze alfieriane a San Miniato 











Fig. 11: Giovanni Carmignani. Fig. 12: Antonio Morrocchesi. 


198 199 


Tangenze alfieriane a San Miniato 


Angelo Fabrizi 








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Fig. 14: Ritratto di Augusto Conti (San Miniato, Municipio, facciata). 


Fig. 13: Ritratto di Pietro Bagnoli. 


201 


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Angelo Fabrizi Tangenze alfieriane a San Miniato 











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Fig. 15: Foto di Giosue Carducci, 1906. Fig. 16: Annibale Gatti, Alfieri visita i pedanti fiorentini (Firenze, Villa «Il Larione», 1870 ca.). 


202 203 


Angelo Fabrizi Tangenze alfieriane a San Miniato 











Fig. 17: François-Xavier Fabre, Ritratto di Luisa Stolberg contessa d’Albany (Montpellier, Musée Fabre). Fig. 18: Angelo Fabrizi nel 1967. 


204 205 


Echi napoleonici a San Miniato fra reducismo, 
memoria locale e public history (prima parte) 





DANIELE VERGARI 


Il presente articolo, che uscirà in due parti, vuole raggiungere un duplice sco- 
po: quello di tracciare le storie di alcuni militari napoleonici sanminiatiesi attra- 
verso la documentazione della medaglia di Sant'Elena e quella di stimolare una 
ricerca — anche partecipata - più approfondita e che interessi sia documenti che 
materiali vari, A sarà svolta in una seconda parte. 

La difficoltà di accedere agli archivi negli ultimi anni ha ridotto la possibilità 
di effettuare ricerche ad ampio raggio su corpus documentali consistenti ma, 
da un certo punto di vista, permette di proporre anche un progetto di ricerca 
partecipata, in linea anche con la o history, dove si richiede ai lettori e ai 
cittadini dell’area di San Miniato di fornire eventuali informazioni in loro pos- 
sesso sul periodo napoleonico, su eventuali cimeli, lettere, documenti e ogni altra 
informazione, anche orale, per ricostruire, a distanza di 200 anni dalla morte di 
Napoleone Bonaparte, cosa è ancora presente come memoria sul territorio. 


Premessa 

Le sorti e i destini dei tanti toscani che partirono con Napoleone sono pres- 
soché sconosciuti. Tuttavia, negli ultimi decenni, l’attenzione storiografica si pe- 
riodo napoleonico in Italia ha affrontato in modo preciso, ancorché parziale, 
questo complesso periodo superando la vecchia immagine di un breve momento 
storico, di scarsa importanza, di fronte ai più celebrati e gloriosi avvenimenti del 
Risorgimento. Per quanto riguarda gli aspetti militari T negli ultimi anni con 
la pubblicazione di studi, memorie e approfondimenti sul coinvolgimento degli 
italiani negli eserciti dell’età napoleonica e, per quanto riguarda il Granducato di 
Toscana, i documenti editi si è avuta una limitata ma interessante pubblicistica 
negli ultimi decenni sono poco più di una decina. 

Il Granducato, infatti, passato attraverso la breve e insipida esperienza del 
regno Etrusco, fu annesso all’ Impero Francese nel gennaio 1808. Il passaggio alla 
nuova amministrazione fu vissuto con tensioni e difficoltà e obbligò il piccolo 
stato ad adottare il sistema amministrativo francese e le relative leggi, comprese 
quelle sulla coscrizione obbligatoria’. 

L'esperienza della coscrizione obbligatoria fu particolarmente traumatica per 
la Toscana, obbligata a contribuire all'esercito napoleonico con un contingente 
significativo. Le Pia e i documenti ancora disponibili sono stati solo parzial- 


1 La Francia, a partire dal 1792, aveva annesso progressivamente varie province zone d’Italia 


partendo dalla Savoia e poi, nel 1801, con la costituzione dei dipartimenti Dora, Marengo, Po, Sesia, 
Stura. Negli anni successivi erano stati istituiti altri dipartimenti e creato il Regno d’Italia (1805). Nel 
1808 anche la Toscana era entrata a far parte del territorio metropolitano francese con la costituzione di 
tre dipartimenti: Arno, Mediterraneo e Ombrone. 


207 


Daniele Vergari 





mente esaminati e permetterebbero ancora ampi spazi di studio per approfondire 
non solo l'impatto della leva nella società toscana ma anche come questa fu per- 
cepita e vissuta dai soldati toscani. 

Tralasciando le vicende politiche e militari che portarono all’inserimento della 
Toscana nella sfera di influenza francese, ricordiamo che il passaggio del terri- 
torio toscano alla Francia portò alla riorganizzazione dei territori dell’ex-regno 
etrusco in tre dipartimenti, Arno, Mediterraneo e Ombrone. Conseguentemente 
l’amministrazione e il ceto dirigente furono chiamati ad adeguarsi rapidamente 
ai nuovi indirizzi imperiali e la nomina, un anno dopo, di Elisa Bonaparte a 
Granduchessa di Toscana suggellava in modo evidente l’attenzione particolare 
della Francia verso la Toscana?. 

Dauchy, Intendente del Tesoro per i dipartimenti italiani e nominato Ammi- 
nistratore generale a capo della Giunta straordinaria di governo della Toscana?, 
fu il protagonista dell’organizzazione dei tre dipartimenti e dell'adeguamento 
dell’amministrazione ai al modello francese. Oltre all'eliminazione dei residui 
delle antiche magistrature fu riformata l’amministrazione statale con la nomina 
di Maire, ai quali vennero dati compiti precisi mutuati dall’esperienza francese. 
Parallelamente vennero istituiti i registri dello Stato civile e il potere ecclesiastico, 
che sotto il precedente regno aveva avuto ampi spazi di manovra, fu al centro di 
ulteriori operazioni mirate ad un suo indebolimento sfociati nella soppressione 
degli Enti religiosi e la conseguente alienazione dei beni, compresi quelli dell’Or- 
dine di Santo Stefano (Coppini, 1993, 83:97). 

Infine, fra le tante riforme introdotte, vi furono anche quelle con un impatto 
maggiore sulla popolazione come, ad esempio, l'introduzione della leva militare 
sul modello francese, in un territorio che da tempo aveva abbandonato ogni vel- 
leità militare e che, nonostante fosse stato coinvolto nelle guerre rivoluzionarie, 
aveva subìto e non certo contrastato militarmente gli eventi“. 


Brevi cenni sull’esercito toscano in età napoleonica 

Non è possibile affrontare l’impatto della coscrizione obbligatoria introdotta 
nel 1808, senza avere prima un sintetico quadro dell'evoluzione dell’esercito to- 
scano nel periodo napoleonico. Da un punto di vista militare il Granducato di 
Toscana era stato impegnato dalle armate francesi fra il 1799 e il 1801, in due 
successive operazioni militari, che avevano dato luogo all’occupazione del terri- 
torio. Il piccolo esercito granducale esistente nel 1799 non si oppose alle forze 
francesi e, nel marzo dello stesso anno, il generale francese Reinhard sciolse i cor- 
pi delle bande e, successivamente, anche i resti dell'esercito regolare (Giorgetti, 
1916, II, 202}. 





? Elisa fu nominata Granduchessa di Toscana con Decreto Imperiale del 3 marzo 1809, quindici 


mesi dopo che Reille, comandante delle truppe francesi aveva preso il possesso dell'ormai scomparso 
Regno Etrusco in nome e per conto di Napoleone. 

3. La Giunta fu istituita con il decreto di Bayonne del 12 maggio 1808. 
Cfr. (Labanca, 1995). L'articolo pone anche una precisa riflessione sulla storiografia militare 
riguardante i toscani. 

°. I decreti di soppressione sono datati 29 e 31 marzo 1799. L'esercito granducale era organizzato 
su due reggimenti di fanteria e su dei corpi militari, detti “bande”, di leva territoriale (Sodini, 2005, 


59:82). 


4 


208 


Echi napoleonici a San Miniato fra reducismo, memoria locale e public history (prima parte) 





Nei successivi eventi, noti come Viva Maria, più che la ricostituzione di un 
esercito toscano si assistette all’inquadramento di uomini armati in unità militari 
dalla struttura quasi emergenziale. L'esercito insurrezionale che, nella seconda 
metà del 1799, mosse da Arezzo e Cortona verso Siena e Firenze al comando di 
alcuni notabili locali, inquadrò anche alcuni ufficiali e soldati delle disciolte unità 
granducali e le uniche truppe regolari presenti furono quelle poche decine di sol- 
dati che accompagnarono il colonnello austriaco Schneider, prontamente inviato 
dagli austriaci a comandare l’eterogeneo gruppo di rivoltosi. Concluso il loro 
ruolo e allontanate le truppe francesi, le bande aretine furono sciolte su espresso 
desiderio del Granduca il 15 settembre 1799 (Giorgetti, 1916, II, 214:221). 

Nella breve parentesi fra il 1799 e la nascita del Regno di Etruria, fu ricostitu- 
ito, nonostante le gravi ristrettezze economiche, un piccolo esercito composto da 
2 reggimenti di fanteria di linea, uno squadrone di dragoni e poche altre unità di 
cannonieri guardacoste (Giorgetti, 1916, II, 231:234)°. 

Le successive vicende belliche sul fronte italo-francese e la vittoria francese di 
Marengo, il 14 giugno 1800, riaprirono la possibilità di complesse azioni militari 
nella penisola italiana che avrebbero coinvolto tutti gli Stati preunitari. Con la 
costituzione della Repubblica Cisalpina, il confine toscano fu oggetto di alcuni 
sconfinamenti e scaramucce di truppe irregolari e bande di contadini armate 
dalla reggenza del Granducato. Queste, e la presenza di un piccolo contingente 
austriaco che da Roma si dirigeva verso Siena, avrebbero fatto decidere al Primo 
Console Napoleone di invadere la Toscana passando, prima, per la Repubblica di 
Lucca che fu occupata nel luglio 1800. Le esistenti truppe toscane, di cui si han- 
no poche notizie, combatterono a fianco di truppe irregolari in varie occasioni 
contrastando le truppe francesi e cisalpine ma soccombendo poi nei primi mesi 
del 1801. 

Il primo marzo 1801 Murat arrivò a Firenze dichiarando il controllo francese 
sul Granducato e sciogliendo, poco dopo, le truppe toscane (Giorgetti, 1916, II, 
248:250). Con il successivo trattato di Lunéville nacque il Regno di Etruria che 
rapidamente portò alla costituzione di un nuovo piccolo esercito. 

Tra il settembre e l’ottobre 1801 Ludovico I ordinò la formazione di due 
reggimenti di Fanteria di linea e di uno squadrone di Dragoni, mantenendo l’ar- 
tiglieria preesistente. La scarsità di finanze impedì ai reggimenti di raggiungere 
la piena forza, consistente in circa 2.000 uomini ciascuno; nel settembre 1802 
le truppe toscane furono ampliate da contingenti parmensi, dopo che il piccolo 
Ducato era stato occupato dai francesi a seguito della morte di Ferdinando di 
Borbone. 

Lo scarso valore militare delle truppe toscane probabilmente portò nel 1805, 
nell’ambito di accordi fra Napoleone e la corte di Madrid, all'arrivo di alcune 
unità spagnole che furono inviate nel Regno di Etruria, come guarnigione in 
sostituzione di truppe francesi, per difendere Livorno e Firenze da eventuali at- 


€ A titolo di curiosità riportiamo anche la notizia bibliografica di un tentativo di costituire una 


unità di artiglieria nell’improvvisato esercito toscano ad opera di Romeo Vargas von Bedemar (1768- 
1847), naturalista tedesco e Tenente colonnello comandante il corpo del genio e l'artiglieria nella Ro- 
magna. (Vargas von Bedemar R. (1799), Piano per la formazione di un battaglione di artiglieria volante 
in Toscana. Siena: Dai torchi di Luigi e Benedetto Bindi). 


209 


Daniele Vergari 





tacchi inglesi. Nel febbraio 1806 circa 6.000 uomini, al comando del Generale 
O’Farril, sbarcarono a Livorno anche se la loro presenza fu breve: nel maggio 
1807 le truppe andarono in Germania e parteciparono alle operazioni militari, 
inquadrate nella Divisione De La Romana, e furono sostituite da truppe francesi 
che occuparono Livorno confiscando le merci inglesi. 

Il 12 dicembre 1807 l’esercito etrusco fu inglobato nelle truppe francesi an- 
dando a costituire la base del 113° reggimento di Linea. Il 20 dicembre dello 
stesso anno i fanti dell’ex reggimento Real Carlo Ludovico, inquadrati nella nuo- 
va unità dal nome Leggiero toscano, sotto il comando del Colonnello Roberto 
Capponi e lo squadrone di Dragoni, partirono da Firenze verso Parma per andare 
a costituire il 113° Reggimento di Linea e del 28° Regg. Cacciatori a cavallo. 

Con il passaggio della Toscana all Impero napoleonico fu introdotta anche la 
coscrizione obbligatoria disciplinata dalla legge Jourdan-Delbrel del 5 settembre 
1798 e controllata dalla Direction générale es Revues et Coscription militaires (Pige- 
ard, 2003; Donati, 2008, I, 301:433; Crépin, 2009, y. 

La norma prevedeva che tutti i cittadini francesi che avessero compiuto venti 
anni, fossero iscritti nelle liste di leva fino al compimento del venticinquesimo 
anno. Ogni anno, sulla base delle esigenze dell’esercito, sarebbe stato deciso il 
numero globale di coscritti da richiamare sotto le armi per ciascun dipartimento 
e, quindi, per ciascun comune o cantone. 

Durante una cerimonia pubblica, venivano convocati gli iscritti nei registri di 
leva e questi, davanti a funzionari e testimoni, dovevano tirare a sorte un numero. 
I coscritti che avevano estratto i numeri fino al raggiungimento della quota ri- 
chiesta, per quel comune e per quell’anno, erano avviati alla visita di leva durante 
la quale veniva accertata l’idoneità fisica e venivano valutate le possibilità di essere 
esentati per vari motivi (Donati, 2008, I, 311:320; Luseroni, 1989)f. 

La legge prevedeva anche la possibilità di essere rimpiazzati, nel caso di re- 
clutamento, da altra persona; il rimpiazzato doveva comunque assicurare il pa- 
gamento di cento franchi per il vestiario e l'armamento del sostituto che poteva, 
al momento in cui arrivava al reparto, essere ritenuto non abile, obbligando il 
rimpiazzato a fornire immediatamente un sostituto o a partire egli stesso. Questo 
sistema favoriva, ovviamente, le famiglie più ricche e, nel caso toscano, soprattut- 
to i proprietari terrieri che potevano contare su una risorsa di materiale umano 
come le famiglie dei coloni dei loro poderi. La disponibilità di figli maschi nelle 
famiglie mezzadrili e il rapporto di subordinazione rispetto alla È miglia padro- 
nale, facilitò il ricorso a sostituti all’interno delle campagne e rendeva, di fatto, 
il servizio militare legato alla disponibilità finanziaria della famiglia del coscritto 
perdendo così quell’aura di patriottica e virile esperienza formativa che la propa- 
ganda ufficiale cercava di veicolare (Donati, 2008, I, 322)’. 


4 La coscrizione obbligatoria in Toscana non fu applicata nella stessa maniera che negli altri 


dipartimenti ad esempio del nord Italia. La percentuale di richiamati era inferiore ad altri dipartimenti 
italiani e alcune aree, come il Ducato di Lucca e quello di Massa ne furono esclusi. 

8. Le esenzioni dal servizio militare erano diverse e riguardavano, ad esempio, gli individui am- 
mogliati e i seminaristi, o le persone con situazioni familiari particolari (orfani, figlio unico di madre 
vedova, ecc.). 

° Donati, citando il saggio di Woloch, afferma che il servizio militare era, nei fatti, ridotto a una 
mera questione finanziaria; non vi è dunque da stupirsi se il servizio militare fosse stato malamente ac- 


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Echi napoleonici a San Miniato fra reducismo, memoria locale e public history (prima parte) 





L'effettivo impatto della leva nei tre dipartimenti toscani non è ancora defini- 
tivamente appurato e gli studi finora pubblicati rivelano cifre che oscillano fra i 
14.000 e i 26.000 uomini prelevati nel corso di 6 anni, dal 1808 al 1813 (Donati, 
2008, I, 329)". 

L'incertezza dei dati precedentemente esposti non permette di sapere anche 

uanti dei coscritti che dino selezionati per le operazioni di leva effettivamente 

rono arruolati, e quanti di essi raggiunsero i reparti di destinazione per via 
di diserzioni e assenze sopravvenute fra il momento dell’iscrizione nelle liste di 
arruolamento e l'effettiva partenza verso il deposito dell'unità di appartenenza 
(Filippini, 1989; Donati, 2008, I, 330). 

Poco dopo aver preso possesso del Regno di Etruria, il generale Reille!! inviò 
a scaglioni, verso E nord Italia, due battaglioni di Fanteria dell’ex-reggimento 
Carlo Ludovico e i Dragoni toscani mentre, allo stesso tempo, vennero disciolte 
le Guardie reali e, raggruppando queste ad altri contingenti, si cercò di creare un 
terzo battaglione di e Le unità di fanteria così raccolte all’inizio furono 
indicate come “Leggero toscano” e poi “Reggimento di Fanteria Toscano”, con 
un organico di 90 ufficiali e 2.096 Sottufficiali e soldati. Per qualche mese lam- 
ministrazione francese fu indecisa se trasformare l’unità in un Reggimento di 
Fanteria leggera o in un Reggimento di Linea ma alla fine prevalse questa seconda 
opzione (Sanò, 2014, 30:38), 


colto dalla popolazione come sostanzialmente iniquo (Rossi, 1971; Donati, 2008, I, 322). In Toscana la 
pratica del cambio per le famiglie aristocratiche era particolarmente favorita dalla relativa disponibilità 
di soggetti utilizzabili come i mezzadri. Talvolta questi cambi venivano risolti con l’ausilio di interme- 
diari mentre altre volte era direttamente il padrone che si metteva d’accordo con la famiglia. Il costo 
di questa pratica, nel caso descritto da Rossi nell'articolo sopracitato, era di circa 3.000 franchi ed era 
decisamente inferiore al costo della stessa pratica in Francia. 

10 È da notare che fra il 1808 e il 1813, a causa dei ben noti eventi bellici, furono chiamate 12 
leve tra quelle ordinarie e quelle straordinarie. Giorgetti computa in 14.000 i toscani partiti nell’eserci- 
to napoleonico, Luseroni in 16.000, Arzilli in circa 20.000 mentre Coturri et al. stimano i militari in 
circa 24.000. I dati apparentemente contraddittori in realtà manifestano un errore metodologico. I dati 
più bassi si basano essenzialmente sulle cifre degli arruolati nei reggimenti “toscani” ma in realtà, come 
vedremo, la leva arruolata in Toscana era dispersa in molte unità. E, par contre, niente vieta che nei c.d. 
reggimenti “toscani” non arrivassero leve di altri dipartimenti. La questione meriterebbe un approfon- 
dimento metodologico (Sanò, 2014, 267:304). 

!! Honoré Charles Reille (1775-1860), fu nominato nel 1808 Commissario straordinario in 
Toscana. Combatté a lungo con Napoleone fino a Waterloo, dove comandò il II Corpo d’armata. Nel 
1847 fu nominato Maresciallo di Francia. 

12 Il primo battaglione partì il 18 dicembre 1807, il secondo battaglione il primo gennaio 1808. 

Secondo un prospetto, compilato dallo stesso Reille, dei 7144 uomini dell'esercito etrusco ne erano in 
servizio 5854. Si ricorda che queste truppe erano state arruolate essenzialmente su base volontaria e non 
tramite la coscrizione (Donati, 2008, I, 331:332). 
Nell’esercito francese, dopo la riforma degli anni 1807-1809, le unità di fanteria erano organizzate, 
normalmente, in reggimenti composti di 4 battaglioni più uno di deposito. Ogni battaglione era com- 
posto da 6 compagnie, di 140 uomini, quattro di fucilieri (fusilier), una di volteggiatori (voltigeurs) e 
una di granatieri (grenadiers). Cfr. Johnson R. (1984), Napoleonic armies. London: Arms and armour 
press. Due o più battaglioni erano riuniti in un reggimento comandato da un Colonnello. Il reggimento 
rappresentava l’unità amministrativa di tutti gli eserciti napoleonici. Per fini tattici o strategici, e per 
favorirne il comando, i reggimenti venivano inquadrati in brigate e divisioni. Sul 113° Reggimento di 
Linea si veda Coturri, Doni, Vergari, et al, 2009; Sanò, 2014, 26. 


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Daniele Vergari 


Echi napoleonici a San Miniato fra reducismo, memoria locale e public history (prima parte) 








Il 29 maggio 1808, un decreto di Napoleone trasformò il “Reggimento di 
Fanteria Toscano” nel 113° Reggimento di linea, integrando in modo poco con- 
sueto, truppe provenienti da un altro stato direttamente nell’esercito francese. 
Una decisione non facile che se da un lato manifestava la volontà politica di 
considerare effettivamente francesi i nuovi dipartimenti toscani, dall’altra inse- 
riva nell’esercito formazioni e soldati — non francofoni - la cui fedeltà al sistema 
imperiale era ancora tutta da verificare. La nuova unità era strutturata su cinque 
battaglioni — 4 da guerra e uno di deposito - su 6 compagnie”. 

La chiamata alla leva, secondo il modello francese, iniziò nel luglio 1808 con 
una prima richiesta ai tre dipartimenti toscani di 1.200 uomini di cui 900 da 
destinarsi alla fanteria, 150 ad un reggimento di cacciatori a cavallo, 100 all’arti- 
glieria a piedi, e 50 ai reggimenti di cavalleria pesante come Carabinieri e Coraz- 
zieri (Donati, 2008, I, 333)“. Anche nel 1809 la leva in Toscana procedette con 
rinnovato zelo e prevedeva più o meno lo stesso contingente di uomini conside- 
rando però che parte dei coscritti sarebbero entrati nei Veliti della Guardia Impe- 
riale, nel 113° reggimento di fanteria di linea e nel 28° reggimento di Cacciatori a 
cavallo (Donati, 2008, I, 351:353)!. Per gli anni successivi mancano dati e studi 
che analizzino accuratamente i numeri dei militari di leva e l’esatta partecipazio- 





13 Il deposito del reggimento inizialmente fu ad Avignone ma ben presto fu trasferito ad Orléans. 


Donati fa notare che comunque la richiesta di uomini per la coscrizione obbligatoria fu, per il 
1808, pari al 1,1 per mille dell'intera popolazione assestandosi su numeri inferiori rispetto ad analoghe 
esperienze come ad esempio la coscrizione nel Regno di Napoli ad opera di Murat. 

!5 L'inserimento nella Guardia imperiale di parte dei coscritti era da leggere, ufficialmente, come 
un segno di particolare benevolenza da parte di Napoleone nei confronti dei nuovi sudditi toscani. In 
realtà i Veliti avevano compiti di guarnigione di presidio presso i palazzi del governo e di rappresentanza 
e, similmente, le Guardie d'Onore volontarie. In particolare per i Veliti, che avrebbero avuto un tratta- 
mento particolare sia come riconoscimento di grado che come retribuzione, si era cercato di promuove- 
re l'adesione volontaria. 

La Guardia d’Onore, prevista come unità di 104 uomini, fu creata nel 1809 con compiti di scorta e 
guardia ad Elisa, appena nominata Granduchessa di Toscana. L’arruolamento era limitato ai parenti di 
membri dei collegi elettorali e delle famiglie con le maggiori imposizioni con una rendita di almeno 
mille franchi. L’arruolamento dei figli in questa unità rappresentava quindi anche un atto di adesione alla 
nuova amministrazione come nel caso di Antonio Targioni Tozzetti (1785-1856), figlio di Ottaviano T. 
T., Professore di Botanica a Pisa e scienziato ben noto. Antonio si arruolò nelle Guardie d'Onore a piedi 
111 aprile 1809 sotto il comando del colonnello Giuseppe Altoviti. A titolo di curiosità esiste la nota 
delle spese sostenute per “vestire” Antonio Targioni Tozzetti; il costo complessivo fu di 616 Franchi, 
una cifra considerevole pari a oltre il 50% dello stipendio annuo del padre come professore di botanica 
all’Università di Pisa (Cfr. Archivio Targioni Tozzetti, Carte di A.T.T. Personali, conservate presso la 
Biblioteca di Scienze dell’Università di Firenze). 

Lo scopo di questa unità era di rappresentanza e non va confusa con le Gardes d'honneur del 1813. 
Quest'ultima era una unità d'élite, a cavallo, su base censuaria, nata per coinvolgere — soprattutto dopo 
le ingenti perdite della campagna di Russia del 1812 — le famiglie più ricche nell’esercito napoleonico. 
In tutto l’Impero furono creati 4 reggimenti di Gardes d’honneur. I toscani furono ascritti nel 3° 
Reggimento. D'altra parte proprio le carte di Antonio Targioni Tozzetti fanno supporre che accanto 
alle Guardie d’onore a cavallo vi fossero delle Guardie d’onore a piedi, il cui ruolo era poco più che di 
rappresentanza, analoghe a quelle che in ogni citta francese venivano costituite dal ceto borghese della 
città come adesione al nuovo corso politico. La mancanza pressoché totale di studi su questo argomento 
impedisce di dare una risposta certa. 


14 


212 


ne dei toscani alle armate napoleoniche (Sanò, 2014, 26)". 

Sappiamo però che la coscrizione non fu generalmente accolta in modo fa- 
vorevole. Al di là di un più o meno celato malcontento, comprensibile non solo 
per quell’iniquo meccanismo della sostituzione già citato in precedenza ma anche 
perché, da diversi decenni, lo stato toscano era “da gran tempo non assuefatto 
a guerra” (Giorgetti, 1916, II, 346), la coscrizione obbligatoria rappresentò un 
evento non ordinario, spesso traumatico per intere famiglie (Labanca, 1996)". 

Un problema che si presentò subito alle autorità francesi fu la renitenza alla leva 
e la diserzione. Nel 1808, alla prima coscrizione, soltanto il 21% dei richiamati 
del Dipartimento dell’Arno aveva raggiunto la propria unità nei tempi stabilita a 
fronte di un 63% di assenti per causa legittima e un 16% di disertori e renitenti. 
Nella seconda chiamata per le compagnie di riserva la situazione era comunque 
del 23% di refrattari, renitenti e disertori per il Dipartimento dell’Arno, che saliva 
al 55% per il Dipartimento del Mediterraneo e si attestava al 25% per il Dipar- 
timento dell’Ombrone. Negli anni successivi, nonostante l'impegno dei prefetti e 
della Gendarmeria nello scoraggiare la diserzione e trovare i renitenti e refrattari, il 
fenomeno mostrava ancora dei dati significativi: nel 1811 erano ricercate, nei tre 
dipartimenti, oltre 1.300 persone e nel 1813 erano poco meno di mille i soggetti 
ancora ricercati (Frasca, 1993; Pinaud Pacitto, 1994; Donati, 2008, I, 370:372)!8. 


La presenza dei toscani nell’esercito napoleonico 

Una volta arruolati e formati i contingenti, i soldati venivano inviati verso i 
depositi delle unità di appartenenza. Le esigenze dell Impero erano molteplici 
e, anche a seconda delle caratteristiche fisiche del soggetto, i coscritti potevano 
essere divisi in varie unità dell’ Armée. Ovviamente gran parte delle reclute veniva 
inviata in fanteria (di linea, leggera o veliti), mentre la restante parte veniva desti- 
nata essenzialmente alla Guardia imperiale, alla cavalleria, all’artiglieria - sia nelle 
batterie a piedi che a cavallo, che (leva di are) nelle compagnie guardacoste - e, in 
parte, alla marina come equipaggi di mare. 





16 Per altre parti d’Italia si segnala Martino A. (2012), / soldati del Dipartimento di Montenotte 
(1805-1814). Lulu: Raleigh e Presotto D. (1990), Coscrizti e disertori del Dipartimento di Montenotte: 
lettere ai familiari, 1806-1814. S.l.: Savona. A livello nazionale si registrano due saggi di storia reggi- 
mentale: De Rossi E. (1912), X 111° di linea dal 1800 al 1814. Fasti e vicende di un reggimento italiano 
al servizio francese. Torino: Tip. Olivero e C. e Ilari V., Pauvert B. e Crociani P. (2011), M 31° Leggero. 
Storia del 31° Régiment d'infanterie léger 1799-1815. Roma: Società italiana di storia militare. 

17 Fra le tante suppliche presenti nella documentazione della medaglia di Sant'Elena, ad esempio, 
ve ne sono diverse scritte da genitori che non hanno visto tornare a casa i propri figli e che chiedono 
l'assegnazione della medaglia. È il caso, ad esempio, di Gioconda Morini di Putignano che ha visto 
partire il figlio del 1811, nel 113° reggimento, e del quale non ha avuto più notizie “sulla di lui sorte”. 
Cfr. Archivio di stato di Firenze (di seguito ARFI), Segreteria e Ministero degli Esteri, f. 3003. 

18 Non solo i coscritti ceravano di sfuggire alla coscrizione. Alla prima chiamata a far parte delle 
Guardie d'Onore della Granduchessa di Toscana, alcuni rampolli dell’aristocrazia fiorentina risposero in 
modo evasivo: Leonardo Bartolini Salimbeni rispose al Prefetto di aver già sostenuto un cambio per la 
coscrizione obbligatoria e che il suo patrimonio non può sostenere altre spese militari, Francesco Mazzei 
dichiarò di essere stato già riformato dal servizio militare e quindi inabile, mentre la renitenza alla leva 
vera e propria si trova nel caso di Bindo Francesco Peruzzi il quale, secondo una informativa al prefetto 
del Maire aggiunto di Firenze, Aldobrandini, si trova in campagna ma non si sa in quale casa e i tentativi 
di raggiungerlo o trovarlo erano andati a vuoto. (cfr. ARFI, Governo francese, f. 476). 


213 


Daniele Vergari 





Gli unici dati disponibili, anche se parziali, sulla ripartizione dei coscritti nelle 
varie armi sono riportati in appendice alla storia del 113° reggimento di linea di 
A. Sanò. Dai registri, relativi T solo Dipartimento del’ Ombrone, i coscritti della 
prima leva del 1808, partiti per l’esercito (esclusi quindi i riformati, i refrattari, 
quelli trattenuti al deposito, ecc.), furono inviati per il 54,5 % nel 113° Reggi- 
mento di linea (12 su 22 uomini); altri 4 furono destinati agli Chasseurs (coll - 
ria), 3 alľartiglieria, uno ai corazzieri, uno nel 111° Reggimento di Linea e uno 
nei Veliti (Sanò, 2014, 270). Negli anni successivi la distribuzione dei coscritti 
diventò un po’ più complessa e aumentarono le unità che ricevettero militari di 
origine toscana”. 

Il quadro complessivo sarebbe molto complesso e richiederebbe lo studio di 
varie fonti. La lettura delle oltre 5.500 domande presentate per la richiesta della 
medaglia di S. Elena evidenzia — al di là della loro comprovata autenticità — che 
i toscani furono inviati principalmente nelle ben note unità dell’ esercito francese 
(113° di Linea, 35° leggero e 28° Cacciatori a cavallo) ma che comunque un nu- 
mero inferiore, ma non trascurabile, fu sparso in tutto l’esercito e nella marina. 


Dalle carte della Medaglia di Sant'Elena: storie di alcuni samminiatesi 
nella Grande Armée: alcuni esempi 

In questo panorama sono sicuramente di un certo interesse le fonti docu- 
mentarie, ancora in parte da analizzare, necessarie per approfondire le storie dei 
militari toscani e, fra queste, una particolare attenzione merita sicuramente la 
documentazione relativa all’attribuzione della medaglia di Sant'Elena conservata 
presso l’Archivio di Stato di Firenze. Vale la pena di approfondire la nascita e la 
storia di questa medaglia. Nel 1854 Napoleone III, nipote di Napoleone I, di- 
ventato imperatore dei francesi con un colpo di stato nel 1852, con una precisa 
volontà politica, diede esecuzione al testamento dello zio stilato a Sant'Elena nel 
1821. Era l'occasione, per Napoleone III, di consolidare e legittimare la propria 
immagine all’interno e all’esterno della Francia attraverso un'azione propagandi- 
stica a richiamasse idealmente il nuovo corso politico francese al Primo Impero. 

L'avviso dell’esecuzione del testamento di Napoleone I si diffuse rapidamente 
in tutta Europa. In Toscana la notizia fu pubblicata nel Monitore Toscano n. 235 
del 10 ottobre 1854, dove venne riportato il seguente avviso: 

“Per norma di quei sudditi toscani che per aver combattuto sotto le bandiere 
francesi dal 1792 al 1815 o per aver fatto parte del Battaglione dell’ Elba credes- 
sero aver titolo al reparto delle somme assegnate col Testamento dell’ Imperatore 
Napoleone I alla di cui parziale esecuzione è relativo il decreto dato in Biarritz il 





19 Nel 1808, sempre secondo quanto riportato da Sanò, i dati complessivi dell’anno danno per 


il Dipartimento dell’Ombrone che il 37,6% dei coscritti è inviato al 113° Reggimento di linea, il 25% 
alla Compagnia di Riserva (deposito), il 6,9% ai Veliti e la restante parte restanti ad altre unità. Ad 
esempio, nel 1812, di 386 coscritti, 271 sono inviati al 106° Reggimento di linea, 27 al 28° Cacciatori 
a cavallo, 2 al 2° Reggimento Carabinieri, 9 alla compagnia di riserva, 50 al treno di Artiglieria, 4 ai 
fucilieri della Guardia e gli altri ad altri corpi. Nel 1813, sarà il 113° reggimento di Linea ad avere il 
73,8 % dei coscritti mentre l’8,4% fu destinato alla Guardia e ai Veliti. Una percentuale assai superiore 
a quella degli anni precedenti. (Sanò, 2014, 281:303). Non abbiamo dati precisi per quanto riguarda gli 
altri dipartimenti. Anche le carte della 29°"° Divisione militare, alla quale apparteneva la Toscana, sono 
ampiamente lacunose negli archivi dell’esercito francese di Vincennes. 


214 


Echi napoleonici a San Miniato fra reducismo, memoria locale e public history (prima parte) 





5 Agosto ultimo dall’attuale Imperatore dei Francesi, stimiamo opportuno di an- 
nunziare, che secondo analoghe istruzioni comunicate da quel Governo Imperia- 
le è necessario che ogni postulante sia sollecito ad esibire all'autorità governativa 
del suo domicilio la propria istanza sottoscritta da esso, e corredata a certificato 
di servizio in originale, o in copia autentica”. 

Nel Granducato, in breve tempo, arrivarono centinaia di domande: l’allettan- 
te prospettiva di ricevere una piccola parte all’eredità suscitò, verosimilmente, un 
certo entusiasmo nella popolazione degli anziani reduci, tantoché, complessiva- 
mente, giunsero alla Segreteria del Ministero degli Esteri toscano, circa 5500 do- 
mande delle quali, dopo una prima analisi, 5127 furono trasmesse alla Legazione 
francese che avrebbe affidato le opportune valutazioni e ricerche necessarie ad 
una apposita commissione?0. 

Purtroppo la documentazione raccolta dalla commissione andò completa- 
mente perduta durante gli eventi della Comune di Parigi. La sede della Cancelle- 
ria della Legion d'Onore a Parigi, dove era conservata la documentazione relativa 
alle domande provenienti da tutta Europa, fu incendiata nella notte fra il 24 e 
il 25 maggio 1871 e la documentazione è stata per decenni ritenuta scomparsa. 
In realtà le domande sono in parte sopravvissute sia negli archivi dipartimentali 
francesi sia negli archivi europei dai quali era stata inviata a Parigi - come quello 
fiorentino - anche se la dispersione delle fonti ha impedito, a tutt'oggi, di com- 
piervi studi e ricerche. 

Tornando alla documentazione toscana, il controllo fu lungo e complesso e 
richiese integrazioni e supplementi di informazioni. Alla fine le domande accolte 
dalla commissione francese furono 1491, circa il 29% del totale, anche se è vero- 
simile supporre che gli aventi diritto fossero molti di più e che l'esclusione di una 
parte delle domande sia avvenuta per motivi anche banali, fra i quali non è tra- 
scurabile il problema linguistico: cognomi mal trascritti all'atto di arruolamento 
sul registro reggimentale oppure storpiati degli ufficiali, difficoltà di ricordare il 
reggimento, ecc.?!. 

L'aspettativa di molti reduci di ottenere una somma in denaro, come ricono- 
scimento della loro partecipazione alle campagne napoleoniche fu però delusa: 
l'esiguità della cifra complessiva da ripartire fra tutti gli aventi diritto sparsi in 
Europa e la necessità di non gravare ulteriormente sulle casse dello stato, obbligò 
Napoleone III a realizzare una medaglia commemorativa da assegnare ai reduci 
alla quale si aggiunse, in alcuni casi, una piccola pensione. 

Il 12 agosto 1857 un decreto imperiale istituì per “tous les militaires, français 


2 Cfr. Arfi, Segreteria e Ministero degli Esteri, f. 3003. È attualmente in fase di implementazione 


un database relativo ai Médaillés di Sant'Elena sul sito http://www.stehelene.org/. 

21 Anche se non sembra apparentemente elevato il dato è significativo se teniamo conto che la 
Commissione accoglieva la domanda solo a fronte di dati e giustificativi certi o facilmente rintracciabili 
negli archivi e nei registri reggimentali o di documenti. Fra le domande non accolte, ma presenti nella 
documentazione, vi sono anche quelle presentate dagli eredi degli ex-militari che, allegando documenti 
e lettere cercarono di partecipare anche loro al riparto del testamento napoleonico. Tuttavia la commis- 
sione scartò queste domande che completano però la documentazione con interessanti testimonianze. 
Un discorso a parte meritano i reduci elbani che furono stralciati, probabilmente per la diversa riparti- 
zione indicata nel testamento. La loro posizione e il dettaglio delle domande sarà oggetto di un prossimo 
lavoro. 


215 


Daniele Vergari 





et étrangers” che avevano combattutto sotto le bandiere francesi una medaglia 
commemorativa in bronzo portante da un lato il profilo di Napoleone e dall'altro 
l'iscrizione “Campagnes de 1792 à 1815. A ses compagnons de gloire son dernier 
pensée, 5 mai 1821”. La medaglia - la prima decorazione commemorativa fran- 
cese — fu corredata da un nastro verde con sei liste verticali rosse e doveva essere 
portata sul lato sinistro della giacca. 

La consegna della medaglia, detta di Sant'Elena, fu estremamente rapida: il 
governo francese spedì in tutta Europa le medaglie e gran parte degli aventi di- 
ritto la ricevette entro la fine del 1857. Ai circa cinquemila reduci che si erano 
distinti in modo esemplare venne concessa una pensione di 400 franchi. 

Il governo toscano, a differenza di altri governi degli stati italiani, collaborò at- 
tivamente con quello francese coinvolgendo la struttura amministrativa centrale 
e locale e accelerando la consegna delle medaglie”. Complessivamente, si stima 
che a livello europeo siano state concesse tra le 350.000 e le 400.000 medaglie. 


La ricchezza di materiale presente nel fondo archivistico della medaglia di 
Sant'Elena permetterebbe una serie di studi sulla composizione sociale dei redu- 
ci, sulle loro vicende militari, sulla composizione della leva e anche sugli aspetti 
linguistici e così via ma nel nostro caso 

Nel nostro caso riportiamo brevemente la storia di alcuni samminiatesi coin- 
volti nella Grande Armée riservandosi nella seconda parte dell'articolo una più 
accurata disamina delle varie testimonianze. 


Geri Gaetano Annibale (Arfi, Segreteria e Ministero degli Esteri, f. 3016) 

Gaetano Annibale di fu Giuseppe Geri nato a San Miniato il 15 settembre 
1788, bracciante, fu coscritto nella leva del 1808, e inviato al deposito di Orleans 
del 113° reggimento di fanteria di Linea., 3° compagnia volteggiatori comandata 
dal Capitano Francesco Caimi, che fu poi generale dell’esercito toscano nel pe- 
riodo della Restaurazione. 

Secondo la di Geri, lo stesso fu inviato in Spagna; a Salamanca fu promosso 
sergente e poi inviato a Ciudad Rodrigo” dove “rimase gravemente ferito” nell’as- 
sedio. Fatto prigioniero e trasportato a Lisbona, Geri concluse la sua esperienza 
militare come prigionieri nei pontoni a Portsmouth fino al 1814. Il suo ritorno 





2 Non tutti gli stati preunitari collaborarono; Francesco V d’Austria-Este, Duca di Modena, 


rispose così alle suppliche degli ex militari “Avendo Noi data agli ex-militari francesi una pensione, lo 
ché è più utile a loro che la medaglia, non intendiamo d’interessarci direttamente a far loro ottenere 
tale distinzione (Modena 20 nov. 1857)”. Cfr. Documenti risguardanti il governo degli Austro-Estensi in 
Modena dal 1814 al 1859, I. Modena: Zanichelli, 1860, 58. In Francia la cerimonia di consegna delle 
medaglie era svolta solennemente e di fronte all'autorità cittadine che pronunciavano un discorso di 
circostanza nel quale sono evidenti i richiami alla tradizione bonapartista e al periodo “eroico” del primo 
Impero e l'invito a rivedere in Napoleone III il suo legittimo erede (cfr. Le medaillées de Sainte-Hélène. 
Paris: Association pour la conservation des monuments napoléoniens, 1982, 15-16). 

2. L'assedio di Ciudad Rodrigo si svolse fra il 7 e il 20 gennaio 1812 e portò alla caduta della città 
occupata dai francesi con una guarnigione di circa 2000 uomini, 1400 dei quali, circa, furono presi 
prigionieri. Della guarnigione faceva parte un distaccamento del 113° che conferma le testimonianze di 
vari soldati toscani relativamente alla battaglia. 


216 


Echi napoleonici a San Miniato fra reducismo, memoria locale e public history (prima parte) 





avvenne nello stesso anno passando prima per Parigi dove “si unì al distacca- 
mento italiano che licenziato tornava in Toscana”: Allegando la documentazione 
richiesta, Geri si lamenta di non poter esibire il congedo ottenuto perché rilascia- 
to al suo arrivo a Firenze al Colonnello toscano Duca Strozzi. La sua domanda, 
molto circostanziata, fu ammessa e Geri ottenne la medaglia di Sant'Elena. 


Guidi Francesco (Arfi, Segreteria e Ministero degli Esteri, f. 3017) 

Francesco Guidi Di Santa Maria a Monte, nato a S. Maria a Monte nel 1794 
entrò nell’esercito francese, nel 1813, come cambio di Antonio Brilli e inviato 
a Pesaro nel 53° reggimento di fanteria di Linea nella compagnia dei granatieri. 
Inviato nel nord Italia partecipò alla battaglia di Bassano dove “inscieme con un 
certo Mulé francese fece otto prigionieri e per tale brava azione il suo capitano gli 
disse = Meritate di essere ricompensato”. 

Ritiratosi con l’armata verso Verona fu ferito da una palla che gli attraversò la 
coscia sinistra e fu ricoverato all'ospedale di Mantova e poi a Parma e a Bologna. 
Le avventure per Guidi non finirono con una serena convalescenza: a Bologna: 
durante la breve occupazione murattiana Guidi “fu spogliato di tutte le carte, e 
dai medesimi senza congedo, rimandato in Toscana, benché non fosse perfetta- 
mente guarito”. 

Sul registro matricolare, consultabile al sito /ttps:/www.memoiredeshommes. 
sga.defense.gouv.fr/, troviamo una descrizione precisa di Francesco Guidi, matr. N. 
8364, nato il 13 novembre 1794. Era particolarmente alto per il periodo, 1.72 
cm, viso ovale, fronte bassa, naso grande e fu nominato granatiere il 1 giugno 
1813. Le brevi note in servizio ci confermano che fu internato nell’ospedale di 
Udine dal 13 luglio 1813 e radiato probabilmente per problemi di salute confer- 


mando così la testimonianza riportata nella domanda. 








Lampaggi Lampaggio (Arfi, Segreteria e Ministero degli Esteri, f. 3017) 

Ben diverso il caso di Lampaggio Lampaggi, patrizio samminiatese, la cui 
famiglia aveva ampie proprietà fondiarie nel Valdarno. 

Secondo quanto riportato nella sua domanda, nel 1813, Lampaggio fu ascrit- 
to al corpo della Guardia d'Onore, monturato e inviato al deposito di Tours dove 
arrivò il primo settembre. Trattenutosi al deposito per fare l’addestramento mili- 
tare fu inviato a Bruxelles in guarnigione. Negli scontri della campagna di Francia 
si batté due volte con i cosacchi restando ferito da un colpo di lancia al pollice 
della mano destra dove dichiara esservi ancora “una vistosa cicatrice”. 

Rimasto probabilmente prigioniero, in circostanze che non espone, fu invita- 
to a cambiare parte e arruolarsi con gli eserciti alleati ma Lampeggi rifiutò e l' 11 
febbraio 1814 (mentre i soldati toscani del 113° avevano appena sostenuto una 
delle battaglie più importanti della campagna del 1814 a Champaubert) fu forni- 
to di foglio di rotta e inviato in Toscana dove arrivò il 19 aprile 1814. 

La memoria di Lampeggi sembra avere delle incertezze come, ad esempio, 
quello di essere inquadrato in un reggimento con il numero 13 (ma i reggimenti 
di guardie d'onore erano solo 4). Il Foglio matricolare del 3° reggimento delle 
Guardie d'Onore ci conferma la sua partecipazione alle campagne napoleoniche. 

Nato il 10 agosto 1786 a Fucecchio era alto 1,71 cm, viso lungo, fronte alta, 
occhi castani, naso e bocca piccoli e sopracciglia castano chiare ed è stato iscritto 


217 


Daniele Vergari 





al registro del reggimento il 4 luglio 1813%. 


Marconcini Pietro (Arfi, Segreteria e Ministero degli Esteri, f. 3017) 

Infine riportiamo il caso di Pietro Marconcini nato a S. Lorenzo a Nocicchio 
nei pressi di S. Miniato il 23 novembre 1788. Partito come cambio di Pellegrino 
Marchetti, nel novembre 1812 fu inviato a Livorno e poi incorporato nel 113° 
reggimento di Linea a Orleans, 1° battaglione, compagnia granatieri. Invaito a 
Parigi fu passato in rassegna dall’Imperatore e, successivamente trasferito al 58° 
reggimento (“1° divisione, 1° battaglione e 3° corpo d’armata”). 

Partito per la campagna di Germania partecipò alla battaglia di Lutzen, il 2 
maggio 1813. Con l’armistizio del giugno 1813, Marconcini fu acquartierato a 
Parchim, nel Meclemburgo. Nell’agosto, alla ripresa dei combattimenti partecipò 
alla battaglia di Luckau dove rimase prigioniero. Tradotto a Berlino fu lasciato 
libero di tornare in Toscana con l’abdicazione di Napoleone. 

Dal registro matricolare risulta che Marconcini era alto 1,68 m, aveva il viso 
tondo, occhi grigi, naso piatto e che fu fatto prigioniero, sembra, il 14 novembre 
1813”. 


I soldati toscani nell’esercito napoleonico una prospettiva di ricerca fra 
storia, storia materiale e public history 

Queste sopra sono solo alcune delle storie che è possibile recuperare dalla do- 
cumentazione della medaglia di Sant'Elena e da quella reperibile sui fogli matri- 
colari. Storie che, oltre a confermare il grande valore documentario di queste fon- 
ti archivistiche, possono rappresentare un importante fonte di informazioni utili 
a ricostruire vite e percorsi di uomini e famiglie non solo in un contesto locale. 

Una storia minore che però potrebbe essere l'occasione, anche sfruttando la 
diffusione del Bollettino, di lanciare una proposta nel solco di una ricerca parte- 
cipata propria della public history: nella seconda parte dell’articolo saranno ana- 
lizzati altri percorsi e temi che emergono dalle testimonianze dei reduci dell’area 
samminiatese. Ma sarebbe interessante se i lettori dell’articolo potessero fare ar- 
rivare eventuali notizie su avi che hanno partecipato alle guerre napoleoniche, se 
hanno oggetti o reperti materiali, documenti, lettere, ecc. e se hanno memoria fa- 
miliare della partecipazione di qualche avo alle vicende del periodo napoleonico. 

L'articolo attuale diventerebbe così un lavoro partecipato da restituire alla co- 
munità che, facendolo proprio attraverso il bollettino degli Euteleti, arricchireb- 
be la propria identità e fa propria storia.” 





24 


Registro SHD/GR 20 YC 171, Registres matricules des sous-officiers et hommes de troupe de 
la garde (1799-1815). Visibile al sito Attps:/www. memoiredeshommes.sga. defense.gouv.frl. 

5. SHD/GR21 YC 490 

2 L'autore è a disposizione alla mail vergadan@gmail.com. 





218 


Echi napoleonici a San Miniato fra reducismo, memoria locale e public history (prima parte) 





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220 


Echi napoleonici a San Miniato fra reducismo, memoria locale e public history (prima parte) 





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Fig. 1: Lorganizzazionedella Toscana nel periodo napoleoniconei tre dipartimenti 


221 


Daniele Vergari Echi napoleonici a San Miniato fra reducismo, memoria locale e public history (prima parte) 








8° reggimento di fanteria di linea 15° reggimento cacclatori a cavallo - SR 
urere mame SLI, rasman (uaa) — IMMISIA 28° reggimento cacciatori a cavallo 





1808-1814 uardie d'onore 
1809-1813 


franonsa 
{toscano} 





Fig. 2: Uniformi dei toscani nell’esercito francese (113° Reggimento di linea e 28° Cacciatori a cavallo). Fig. 3: Uniformi dei toscani nell'esercito francese (113° Reggimento di linea e 28° Cacciatori a cavallo). 


(da Giorgetti N. (1916) (da Giorgetti N. (1916) 


222 223 


Fig. 4: recto della medaglia di Sant'Elena 


224 





H 


Fig. 5: verso della medaglia di Sant'Elena 


Note del Pievano di Cigoli sul manoscritto 


del “Grande Miracolo” (1791) 





DON FRANCESCO RICCIARELLI 


Nell’archivio storico del Santuario di Cigoli si conserva un manoscritto set- 
tecentesco contenente il racconto del miracolo tradizionalmente associato alla 
data del 21 luglio: il risuscitamento del figlioletto di una donna di Treggiaia per 
intercessione della Madonna di Cigoli. 

Il canonico Galli-Angelini nel suo opuscolo sulla storia del castello e del san- 
tuario di Cigoli riporta il contenuto del manoscritto variando però alcuni ele- 
menti, aggiungendo particolari assenti nell'originale e proponendo una collo- 
cazione tardo-medievale dei fatti narrati: “Questo miracolo - scrive - tanto dalla 
tradizione che da un antico documento si dice avvenuto il 21 Luglio, ma non se 
ne conosce l’anno che credesi sia circa la metà del 1400”!. I particolari aggiunti 
dal Galli-Angelini (il nome della famiglia Mainardi, l'indicazione del torrente 
Roglio, la figura del Preposto degli Umiliati e la data del 21 luglio 1451) si sono 
cristallizzati in quella che è divenuta la versione ufficiale del racconto. Ma cosa 
dice (e non dice) realmente il manoscritto originale? 

Lo scritto, che occupa sette facciate di un fascicoletto di otto pagine, riporta 
l'annotazione dell’anno 1791 al di sopra del titolo “Racconto del Miracolo fatto 
dalla Beat.ma Vergine del Rosario di Civoli”?. Fabrizio Mandorlini, nella guida 
al santuario da lui curata, ipotizza che a redigere il testo possa essere stato l’allora 
pievano Carlo Bomberini o il cardinale Gregorio Salviati, detentore della com- 
menda della Pieve di Cigoli?. L'incertezza sull’identità dello scrivente può essere 
risolta attraverso il confronto del manoscritto con i registri parrocchiali coevi. 
I tratti grafici caratteristici, la forma delle maiuscole e delle legature di alcuni 
grafemi, sono gli stessi che si ritrovano negli atti parrocchiali firmati dal pievano 
Bomberini. Al pievano in cura d’anime rimandano anche lo stile semplice ed 
esortativo del testo, nonché l’uso ripetuto di deittici (queste sacre pareti, questo 
sacro altare, questa santissima Imagine, questo divotissimo Popolo) che fanno 
pensare a una predica pronunciata davanti all'altare della Madonna nel giorno 
della festa, quando l’immagine veniva scoperta per la venerazione dei fedeli 

Di seguito trascriviamo integralmente il testo del manoscritto mantenendo la 
punteggiatura e l’ortografia originali e indicando tra parentesi le frasi che l’autore 
ha cancellato con un tratto di penna: 


! Francesco M. Galli-Angelini, Cenni storici sul castello di Cigoli e sul santuario della 
Beatissima Vergine, San Miniato, 1911, p. 53. 
2 Il titolo di “Madre dei Bimbi” è entrato in uso verso la metà del XX secolo. Fino ad 


allora la Madonna di Cigoli era venerata col titolo di Vergine del Rosario. 
? Fabrizio Mandotlini, ed., Cigoli e la Madonna Madre dei Bimbi, San Miniato 2002, p. 11. 


225 


Don Francesco Ricciarelli 





Per accendere i nostri cuori alla divozione sempre maggiore di Maria Sant.ma 
delle Rose, ho creduto utile ed insieme necessario raccontare il motivo per cui in questo 
giorno ogni anno anche da tempo immemorabile costumasi scoprire alla pubblica 
venerazione quest'antichissima Imagine, acciò non perisca la memoria di un fatto 
così prodigioso; poiché l'ingiurie dei tempi, oppure la trascuratezza dei nostri antenati 
non ce ne anno lasciata in carta distinta memoria ne alcun voto appeso a queste sacre 
pareti ma solo la pura tradizione. 

Ritrovavasi in un luogo di questa diocesi (ed alcuni dicon che fosse) detto Treggiaja 
un'infelice Donna maritata, la quale in diversi tempi aveva dato alla luce tre bam- 
bini, ma quanta fu l'allegrezza sua dopo avergli partoriti, altrettanto fw il suo cordo- 
glio nel vederseli morti senza alcuna precedente infermità, e senza potere indovinare 
da che cosa procedesse questa sua sventura. Il di lei marito, insospettito, come suole 
accadere, attribuendo alla poca custodia della moglie la morte di quei teneri pargo- 
letti, preso dalla passione e dal dolore, così disse alla consorte, quando nacque il terzo 
bambino. Or tu vedi, come Dio mi ha sostituito altro figlio maschio in ricompensa 
della perdita fatta degli altri due. Usa dunque la possibile diligenza in ben custodirlo 
poiché se per mia e tua trista sorte anche questo perisce, datti prima la morte da te 
stessa, altrimenti ti giuro che morirai per le mie mani. 

Tornata un giorno di fuori la donna, entrò in camera per nutrire il bambino, 
lo prende nelle sue braccia, l'alza dal letto, lo maneggia, attonita lo rimira e lo vede 
pallido, estinto. Oppressa per tanto da veemente dolore, ed insieme ricordevole delle 
minacce fattegli dal marito, posa quel piccolo cadavere e smaniando inconsolabilmen- 
te, esce furiosa di casa, e disperata se ne incammina verso il fiume per affogarsi. Ma 
oh quanto sono incomprensibili i giudizj di Dio, che talora permette un male in una 
famiglia, perché ne succeda un bene maggiore. Ci percuote con qualche disgrazia, ma 
ci ar insieme colla sua mano benigna, ci affligge, e poi ci consola. Tanto appunto 
accadde a questa afflittissima Madre. 

In mezzo al corso del suo viaggio incontra una giovane di venerabile aspetto, che 
amorevolmente la ricerca della sua fuga. Alla prima non gli dà retta. Di bel nuovo le 
soggiunge che vuole consolarla, che però gli dica il motivo della sua (fuga) risoluzione. 
Cedé alle sue istanze quell'afflitta, dicendole essere una infelicissima madre, poiché 
avendo o tre fi f in più tempi mentre T in letto, senza potere indo- 
vinare la cagione della loro morte, e che presa dalla disperazione andava ad affogarsi 
per fuggire Pira di suo marito. 

Sentito l'esposto questa piissima consolatrice la rincuora con sante ragionj da sì 
perversa risoluzione. La convince a tornarsene con essa alla propria casa, esibendosele 
sua compagna e mediatrice, poiché diceva ella, venite, andiamo, che troverete vivo il 
bambino. 

Essendo pertanto arrivate a casa, ed entrate in camera, trovarono il figliolo vera- 
mente esangue, ed immobile a Jie vista, ma toccatolo colle sue mani quella santa 
sua compagna, ed alzatolo nelle sue braccia, cominciò in un istante c. articolare i 
bracci e il corpo e tutto giulivo a riderle. 

Lo consegnò alla madre, che attonita per lo stupore, esclamò: Io senza dubbio (ho 
lasciato) lasciaj morto il figlio nel letto quando mi partij, e tale l'ho ritrovato al mio 
ritorno, ma voi Santa donna me l'avete fatto ritornare in vita per i vostri meriti, per 
la vostra intercessione. 

Allegra pertanto la donna in vedersi risuscitato il figlio e insieme liberata se stessa 
dalla morte, alla quale incaminavasi (disperata) er riconoscendosi altamente 


226 


Note del Pievano di Cigoli sul manoscritto del “Grande Miracolo” (1791) 





obbligata alla sua E e bramando darle qualche dimostrazione della sua ri- 
conoscenza, le domandò qual fosse il suo nome ed in che paese abitasse. Io mi chiamo, 
rispose, Maria ed abito in Civoli (in m) accanto a Rocco, e Michele, e si partì da lei. 

Dopo alquanti giorni e in questo Castello questa madre tanto Ee 
con una soma di commestibile per presentargli alla sua Pe domandando, 
ed intendendo ad ogni famiglia che qui abitava, dove stesse di casa una certa donna 
che si chiamava Maria, la quale stava accanto a Rocco e Michele, ma fra le molte 
donne che avessero tal nome, non raffigurava mai quella che cercava, tantopiù che 
non ali combinarsi l'altre circostanze d'essere contigua d'abitazione fra Rocco e 
Michele, di modo che come suole accadere nel volgo, questa donna era piuttosto derisa 
che compatita, cercando chi non sapeva trovare. 

Pervenne questa notizia alle orecchie del Paroco di questo Castello, il quale chia- 
mata a se la donna ed esaminatala sulla verità del fatto, illuminato da Dio, ricono- 
sciuto il miracolo, le disse, io, o donna, saprò insegnarvi senza fallo chi cercate. Venite 
meco (alla Chiesa). E introdottala in questa Chiesa, la fece porre in ginocchioni 
avanti questo sacro altare, e fece scoprire questa santissima Imagine, la quale "La 
veduta, confessò ad alta voce essere questa appunto (che l'aveva assistita) che l'aveva 
assistita in tante sue calamità, ravvisandola perfettamente nelle fattezze del volto, 
e nell'angeliche sue maniere, e prostrata avanti questo sacro altare gli rese vivissime 
grazie per quelle molto maggiori che da essa aveva ricevute. 

Questo è il duplicato miracolo operato da Maria Santissima a favore di questa 
donna. Ma quanti prodigj, quante grazie si sarà ella degnata di spargere sopra i nostri 
antenati e di noi viventi, tanto spirituali che corporali? 

Molti certamente, e di ciò ne fanno indubitata fede fasci di voti già rimossi da 
queste sacre pareti, molti d'argento che tuttavia vi si trovano appesi. chi mediante la 
validissima sua protezione è stato liberato dalla morte corporale, chi dall'eterna dan- 
nazione a cui incaminavasi, chi protetto nella fama perduta, chi sottratto dalle insi- 
die dei suoi nemici, chi in somma incoraggi(a)to nej pericoli dell'anima, e del corpo. 

Oh quanto dice bene Bernardo Santo, animando ciascheduno a prevalersi dell'alti 
Patrocini di Maria Santissima. Uditelo. Nei vostri pericoli, nelle vostre angustie, nelle 
cose dubbiose, Vano a Maria, invocate Maria e sarete esauditi. 

“In periculis, in angustijs, in rebus dubijs, Mariam cogita, Mariam invoca”. 

Voi dunque gran Madre di Dio, Maria Santissima, voi che siete la nostra gloria, 
la nostra allegrezza, l’onorevolezza del nostro Popolo 

“Tu gloria Hierusalem, tu Laetitia Israel, honorificentia populi nostri” (degnatevi 
esaudirci nelle nostre tanto pubbliche che private preghiere. Oh nostra Avvocata) 

Deh rivolgete sopra questo divotissimo Popolo le pupille degli occhi vostri miseri- 
cordiosi e degnate quando giungerà lora per cui l'anime nostre si Li dai loro 
corpi, mostrarci Cosi, frutto benedetto del vostro sacro ventre e degnatevi d'esaudire 
le nostre E acciocchè vostra intercessione risorti alla So grazia esser 
possiamo all'eterna gloria esaltati. 


Una prima osservazione che possiamo fare è che alla fine del XVIII secolo 
l’immagine della Madonna di Cigoli era tenuta ordinariamente velata e veniva 
scoperta solo il 21 luglio e in altre occasioni eccezionali. Un’usanza che sappiamo 
già in vigore nel XIV secolo come attesta Feo Belcari nella “Vita del beato Gio- 
vanni Colombini”, dove annota come il fondatore dei Gesuati e i suoi compagni 
“fecero la via del castello di Cigoli, e quivi con grandissima divozione fu disco- 


227 


Don Francesco Ricciarelli 





perta loro quella graziosa figura di nostra Donna”. 

È interessante notare come il pievano Bomberini, nella sua predica, cerchi di 
motivare l'usanza di scoprire l’immagine della Madonna il 21 luglio col ricordo 
del suo scoprimento per la donna di Treggiaia, che vi riconobbe la sua benefattri- 
ce. La data della festa a Cigoli rimanderebbe quindi al giorno del riconoscimento 
della Madonna da parte ella donna di Treggiaia e non, come generalmente si 
crede, a quello del risuscitamento del suo bambino. 

Particolarmente rivelatrice, nel manoscritto, è la correzione della frase relati- 
va al luogo in cui si compì questo prodigio. L'autore aveva inizialmente scritto 
“ed alcuni dicon che fosse Treggiaia”. Ne risulta quindi che l’unico elemento 
circostanziale presente nel testo sia frutto di una tradizione orale, per altro non 
condivisa da tutti. Come l’autore del manoscritto specifica fin dalle prime ri- 
ghe “lingiurie dei tempi oppure la trascuratezza dei nostri antenati” han fatto sì 
che non rimanesse alcun tipo di memoria, né scritta né iconografica, del grande 
miracolo. Ne consegue che la narrazione è stata tramandata, non sappiamo per 
quanto tempo, in forma esclusivamente orale. 

La trasformazione del “si dice” circa Treggiaia in un fatto assodato si deve allo 
stesso pievano Bomberini che, come abbiamo visto, nel manoscritto, decise di 
cassare la forma dubitativa. La datazione al XV secolo, invece, sembra essere av- 
venuta in seguito, sotto l'impulso del canonico Galli-Angelini. Questi, nella sua 
riscrittura del racconto del miracolo, si trova a dover sostituire la figura del Parro- 
co, che viene menzionato nel manoscritto originale, con quella del Preposto degli 
Umiliati, per sostenere l'ambientazione quattrocentesca. Fino al 1570, infatti, la 
pieve di Cigoli era officiata dai frati Umiliati, circostanza di cui non si fa alcuna 
menzione nel manoscritto originale. 

A proposito della “retrodatazione” dei fatti al XV secolo, è molto indicativa 
una delle lapidi novecentesche presenti nella cappella della Madre dei Bimbi. Vi 
si legge che “Avanti il 1791 la Madonna di Cigoli richiamò a vita un fanciullo e 
salvò la madre che oppressa dal dolore per la morte del figlio si andava ad anne- 
gare nelle onde del fiume Roglio. Questo miracolo si ricorda con pompa solenne 
il 21 luglio di ogni anno. Pia trad.”. Qualcuno ha trasformato il 7 in un 4, in 
modo da far risultare la nuova collocazione temporale: “Avanti il 1491...”. Ma 
ad occhio nudo è ancora possibile veder trasparire la forma del 7 al di sotto della 
data modificata. 


4 Feo Belcari, Vita del Beato Gio. Colombini da Siena Fondatore de Poveri Gesuati, Siena 
1969, p. 60. 


228 


Diego Angioletti, un toscano protagonista del risorgimento 





MICHELE FIASCHI 


Il toscano Diego Angioletti è stato un protagonista del Risorgimento: generale 
e politico italiano, fu Ministro della Marina ae durante i governi La Mar- 
mora, un patriota caduto nell’oblio. Nacque a Rio dell’ Elba il 18 gennaio 1822, 
frequentò la Scuola di Artiglieria di Livorno, ottenendo il grado di sottotenente. 
Nel 1848 partecipò alla Prima Guerra d'Indipendenza con le truppe toscane, 
distinguendosi il 29 maggio a Curtatone e il 30 a Goito. Il suo impegno gli valse 
la promozione a tenente e poi a capitano il 26 febbraio 1849. In un rapporto det- 
tagliato al suo capitano il 31 maggio 1848, all’indomani della Battaglia di Goito, 
descrisse i comportamenti eroici dei suoi soldati: 

«Mi credo in dovere di render conto a V, S. Illuss., come durante il combattimento 
del 29 del cadente mese a Curtatone, essendo stato mandato a rimpiazzare il sig. 
tenente Niccolini rimasto so ebbi luogo d’osservare quanto appresso. Essendo stati 
feriti diversi cannonieri che servivano i i. pezzi da sei che guardavano la strada di 
Mantova, il sotto sergente Calamai, il caporale Fantozzi, ed il comune Meini, tutti 
della divisione scelta, rimasero quasi sempre soli al servizio dei pezzi sunnominati, 
avendo aspettato invano fino a f; ultimo momento i rimpiazzi che V. S. Illuss. aveva 
spediti sotto gli ordini del sergente aiutante Cancogni. I sunnominati tre individui 
mantennero vivo il fuoco fino all'ultimo, e manovrando col massimo sangue freddo, 
adempirono alle funzioni di tutti i serventi, e da bravi soldati si ritirarono quando 
io glielo ordinai, portando in salvo a braccia sotto una grandine di mitraglia i due 
cannoni senz'avantreni, perché dal cannone nemico erano stati posti fuori di servizio, 
e senza cavalli perché erano morti. Se è vero che i buoni portamenti d'un soldato 
debbano esser premiati, io credo che questi soggetti saranno presi in considerazione 
dal comun superiore. Anche il sotto sergente Ro ed il cadetto Bechi tennero il loro 
posto sino all'ultimo, quantunque fossero stati leggermente offesi». 


Dopo la fuga precipitosa del Granduca Leopoldo II a Gaeta il 7 febbraio 
1849, fu a fianco di Giuseppe Montanelli? a Fivizzano, per organizzare le difese 
in previsione del pericolo di una invasione austriaca. Con la caduta del gover- 
no repubblicano e la conseguente occupazione da parte del corpo di spedizione 
austriaco, Angioletti perse 1 gradi concessi, ritornando al rango di sottotenente, 
salvo riottenerli di nuovo nel 1854. Successivamente nel 1859 fu promosso mag- 
giore, ma non avendo il favore del Granduca fu trasferito in fanteria. Solo con 





1 GIORNATA 1949, pp. 116-117. 
2 Giuseppe Montanelli (Fucecchio, 21 gennaio 1813 — Fucecchio, 17 giugno 1862) fu scrittore, 
patriota e politico italiano; insieme a Francesco Guerrazzi e Giuseppe Mazzoni furono eletti “triumviri” 


di Toscana, nel 1849 dopo la fuga di Leopoldo II. 


229 


Michele Fiaschi 





il nuovo Governo provvisorio di Toscana, fu immediatamente promosso tenente 
colonnello, col compito di organizzare il 5° Reggimento della compagine toscana 
sul Mincio. Fu quindi promosso colonnello. 

Con l'annessione della Toscana al Regno di Sardegna divenne maggiore gene- 
rale al comando della Brigata Livorno, divenendo, dal 1862 al 1864, aiutante di 
campo di Vittorio Emanuele. In seguito, fu comandante della divisione territo- 
riale di Bari. 

Il 14 settembre 1864 ottenne il conferimento del grado di tenente generale e il 
21 dicembre accettò il Ministero della Marina, che resse sino al 20 giugno 1866, 
nei due Governi La Marmora. In questo periodo riorganizzò la marina, con una 
gestione oculata, prendendo ottimi provvedimenti riguardo ai porti e ai cantieri. 
Ebbe inoltre il merito di aver fatto iniziare gli studi per una grande base navale a 
Taranto. Durante il suo mandato di ministro, l’8 ottobre 1865 fu nominato sena- 
tore, prestando giuramento il 18 novembre, in seduta d’inaugurazione di sessione 
parlamentare. In una lettera di Nino Bixio del 2 maggio 1865, ad un amico, 
parlò della buona relazione con il generale toscano: «Io scrivo, come è mio debito 
farlo, al Generale Angioletti con cui sono in buona relazione»?. A sua richiesta, lasciò 
il ministero della Marina per recarsi in Lombardia, dove assunse il comando della 
102 Divisione, nel II Corpo d’armata. 

Nel 1868 a Piacenza, scrisse un piccolo volume dal titolo “Giustificazioni Rela- 
tive ad un'Asserzione contenuta in un Libro Anonimo che porta per titolo La Guerra 
in Italia nel 1866”*. In tale anonima pubblicazione erano riportate testimonianze 
inesatte circa le truppe toscane nel 1859, pertanto, da ufficiale proveniente da 
quelle truppe, si sentì in obbligo di fare chiarezza, tramite la forma di una lettera 
aperta rivolta al ministro della guerra. 

Nel 1869 fu comandante della 9è Divisione attiva di Napoli, con il grado 
luogotenente generale formata dalla Brigata Savona (15° e 16° Reggimento di 
fanteria), dalla Brigata Bologna (39° e 40° Reggimento di fanteria), phi 18° e 43° 
Battaglioni bersaglieri, dalla 42, 72 e 12? Batteria del 9° Reggimento d'artiglieria. 
Nel 1870 partecipò alla a di Roma, insieme ai generali Nino Bixio, Enrico 
Cosenz, Gustavo Mazè de la Roche ed Emilio Ferrero. Le truppe al comando di 
Angioletti erano dislocate a sud sulla vecchia frontiera napoletana e, dopo Pirru- 
zione dentro la cinta muraria, occuparono Trastevere: 

“Nominato nel 1870 comandante della 9° divisione mobilitata, una delle poche 
che mossero all'occupazione di Roma, il generale senatore Angioletti, vide e provò 
la gioia inenarrabile di quel giorno in cui le secolari italiche A trovarono 
alfine il loro compimento. Da quella data, per sempre memoranda, egli prestò ancora 
per alcuni anni importanti servizi allo Stato, così nell'esercizio dei supremi comandi 
militari, come in speciali studi ed uffizi ove la sua esperimentata capacità fu spesso 
posta a frutto. Ma poi, nel 1877 lasciò la milizia e si ridusse a vita privata”. 





MORELLI 1942, p. 342 
4 —ANGIOLETTI 1868. 
5. Così lo descrisse il ministro della guerra Ettore Pedotti, durante la commorazione in 
senato. Senato del Regno, Atti parlamentari, Discussioni, 7 febbraio 1905. 


230 


Diego Angioletti, un toscano protagonista del risorgimento 





Infine, nel maggio 1877, l’Angioletti si ritirò nella sua villa a Sant'Anna, pres- 
so Cascina, con la moglie Emilia Tonci. Continuò comunque a seguire i lavori 
del Senato, in particolare quelli della Commissione per l'esame del progetto di legge 
relativo ai provvedimenti sull'esercito, di cui fu membro dal 8 giugno 1870 alla sua 
morte. 

Il generale toscano fu insignito importanti onorificenze nazionali ed estere: 
Grande ufficiale dell'Ordine dei SS. Maurizio e Lazzaro, conferitogli il 31 dicem- 
bre 1865; Commendatore dell'Ordine militare di Savoia, il 31 gennaio 1867; 
Gran cordone dell'Ordine della Corona d’Italia, P 8 ottobre 1870; Cavaliere 
dell'Ordine di S. Anna di Russia, il 26 marzo 1874. 

Ottenne importanti decorazioni per aver combattuto nella Campagna d’I- 
talia e per aver contribuito all’ Unità della Nazione: la Croce d’oro per anzianità 
di servizio, medaglia commemorativa per la campagna d'Italia 1859, concessa da 
Napoleone III e la Medaglia a ricordo delle guerre combattute per l'Indipendenza e 
l'Unità d'Italia. 

Furono pubblicate le sue memorie, stampate a Cascina nel 19046. 

Con il tempo Diego Angioletti è stato dimenticato, il suo corpo riposa nella 
cappella gentilizia presso il cimitero di Pontedera. L’auspicio, che in occasione 
aa dei duecento anni dalla nascita, si possa riscoprire questa impor- 
tante figura di patriota: un toscano artefice del risorgimento che ha dato lustro 
alla Nazione con il suo servizio e con la sua vita. 


Bibliografia 


ANGIOLETTI D., Giustificazioni Relative ad un'Asserzione contenuta in un Libro 
Anonimo che porta per titolo La Guerra in Italia nel 1866, Tipi di A. Del 
Majno, Piacenza, 1868. 

ANGIOLETTI D., Alcune memorie della mia vita, Cascina, 1904. 


GIORNATA 1849 — Racconto storico della Giornata Campale pugnata il 29 nana 
1848 a Montanara e Curtatore in Lombardia dettato da un testimone oculare, 
Stamperia Granducale, Firenze, 1849. 

MoreLLI E., Epistolario di Nino Bixio, Volume II (1861-1865), Regio Istituto per 
la Storia del Risorgimento Italiano, Roma, 1942. 

GIORNALE MILIATARE 1869 — Giornale Militare ossia Raccolta Ufficiale delle Leggi , 
Do e Disposizioni Relativi al Servizio ed all’ Amministrazione Militare, 
Pubblicato per cura del Ministero della Guerra, Annata 1869. 


Roma 2020 — 20 Settembre 1870 - Roma Capitale d'Italia — La Presa di Roma, 
Supplemento al numero 3 di Rivista Militare, Difesa Servizi Spa, Roma, 2020. 





6 ANGIOLETTI 1904. 


231 


Michele Fiaschi 





FU 


DIEGO ANGIOLETTI 
CITTADINO GENERALE MINISTRO SENATORE 
AMO LA PATRIA 
NE PROPUGNO L'INDIPENDENZA L UNITA 
TENNE IN ALTISSIMO PREGIO 
L'ONORE L ONESTA LA VIRTU 


EMILIA TONCI 


LA COMPAGNA DELLA SUA VITA 
PIANGENDO POSE QUESTO MARMO 
SULLA SUA TOMBA 





NACQUE A RIO NELL ELBA IL 18 GENNAIO 1822 
MORÎ IL 29 GENNAIO 1305 
IN CASCINA 


Fig. 1: Lapide funeraria di Diego Angioletti presso il Cimitero di Pontedera 


232 


La Scuola Elementare Rurale di Ponte a Egola 
da Comunale a Statale 





ANTONELLA BERTINI 


Questo contributo completa il lavoro pubblicato nel Bollettino dell Accade- 
mia degli Euteleti, numero 87, interessa gli anni cha vanno dal 1888 fino al mo- 
mento in cui la scuola elementare, nel 1911, non verrà più gestita dal Comune, 
in quanto lo Stato se ne occuperà direttamente. 

Lo studio precedente riguardava il periodo compreso tra il 1868, quando ven- 
ne istituita la prima classe maschile ed il 1896, quando venne terminata la costru- 
zione della struttura scolastica. 

Un'ulteriore documentazione che delinea meglio gli anni relativi all’edifica- 
zione della scuola di Ponte a Egola e alla sua evoluzione dal punto di vista didatti- 
co, in rapporto agli eventi storici e alle decisioni prese dai vari governi in materia 
scolastica. 

Ricordiamo che il borgo di Ponte a Egola non ha ancora, negli anni Settanta 
del 1800, una sua struttura precisa. E formato da due zone il Marianellato e il 
Ponte, ma il Piazzale, con la costruzione della chiesa e la sua erezione a parrocchia 
nel 1979, diventa il fulcro del nuovo paese, in quanto situato in una posizione 
centrale fra le due zone suddette. 

L'ubicazione dell’edificio scolastico è, in un certo senso, già predisposta, poi- 
ché la Chiesa è stata realizzata sul Piazzale, ad Ovest, e, come scrive il parroco, 
Don Bucalossi, è posta sulla strada provinciale -Firenze Livorno-, ed ha la facciata 
a levante’. 

Le delibere della Giunta Comunale riguardanti la necessità di un edificio sco- 
lastico fra il 1888 ed il 1891 si succedono con frequenza; gli alunni e le alunne 
iscritte vanno continuamente aumentando ed il Comune, non possedendo un 
locale adatto è costretto a pagare la Pigione sia per la scuola maschi che per quel- 
la femminile’. E interessante notare che prima di allora, per sei anni, il Comune 
aveva usufruito dell’uso gratuito dei locali per la scuola femminile, infatti il 2 
novembre del 1888 la Giunta si occupa del problema e nel registro della delibere? 
viene riportato: 

Vista la deliberazione del Consiglio dell’11 Marzo 1881 relativa alla istituzione 
della Scuola Femminile del Ponte a Egola, da cui resulta che il Sig. Leopoldo Rossi 
concesse per sei anni gratuitamente il locale di detta Scuola. 


1 


Archivio Parrocchiale di Ponte a Egola, Visita pastorale del 1915. 

2 ASCSM, Delibera della Giunta comunale, 2 novembre 1888, Pigione per la scuola femminile 
del Ponte a Egola. 

3. ASCSM, Delibere della Giunta comunale, 22 Novembre 1888, Pigione per la Scuola femminile 
del Ponte a Egola. 


233 


Antonella Bertini 





Udito che essendo oramai decorso il tempo fissato, il Sig. Rossi domanda il paga- 
mento della pigione. 
Considerata la giustizia della domanda anzidetta 
La Giunta 
i n il pagamento a favore del Sig. Rossi della BEST il locale della Scuola 
a 


suddetta nella somma di annue Lire Ottanta a cominciare dal principio 


Il problema della mancanza dei locali viene di nuovo affrontato nei giorni 
successivi“ e si cerca di darne soluzione cercandone alcuni in affitto, ma nessuno 
risulta idoneo, per cui la Giunta agli inizi del 1890, propone al Consiglio la co- 
struzione di un locale che serva alla scuola maschile e a quella femminile e incarica 
l’Ingegnere comunale di predisporne il progetto.’ 

Ormai i tempi sono maturi per assecondare le continue richieste degli abi- 
tanti della borgata. Nel frattempo, a livello nazionale, proprio per far fronte alle 
esigenze di tutta la penisola dovute alla carenza di aule, viene emanato il decre- 
to° riguardante le Istruzioni tecnico igieniche per la compilazione dei o di 
costruzione dei nuovi edifici scolastici. In tale decreto viene stabilito il principio 
che lo stato intervenga a favore dell’edilizia scolastica concedendo mutui a tasso 
agevolato ai Comuni. 

Le istruzioni tecniche in esso contenute sono piuttosto dettagliate, riguardano 
tutti gli aspetti della costruzione e, sostanzialmente, sono rispettate anche nelle- 
dificio ponteaegolese. 

Si stabilisce che le scuole debbano essere edificate su terreni asciutti, in luoghi 
sani, facilmente accessibili e non vi siano abitazioni nelle immediate vicinanze; in 
effetti l’edificio è posto lungo la via principale e, come si deduce da alcune delibe- 
re, ci sono piantumati degli alberi sul lato del Piazzale, si parla di illuminazione e 
le abitazioni sono costruite soprattutto dall’altro lato della strada. 

Nelle istruzioni viene inoltre precisato che ogni scuola deve disporre di un 
cortile o di un giardino per il gioco all’aria aperta che serve sia per la salute e sia 
per avvicinare il bambino, in maniera giocosa ed accattivante, alle attività che vi 
si svolgono; per questo il Piazzale, con i suoi grandi spazi, risulta il luogo adatto. 

Le indicazioni specificano che la struttura deve essere semplice ed a ed 
avere una forma preferibilmente unilineare. Si sottolinea che deve essere utilizzata 
esclusivamente come edificio scolastico, ad eccezione delle elezioni. In una de- 
libera del 19 Maggio 1891, ad esempio, viene scritto che nella Scuola Comunale 
Maschile, sezione V, sono assegnati gli Elettori dei popoli di: 


Ponte a Egola N. 139 
S. Romano » 17 
S. Croce » 15 
Stibbio » 111 
Residenti fuori del Comune » 27 

N° 309 





4 ASCSM, Delibera della Giunta comunale, 29 novembre 1888, N° 23, Stabile per le scuole del 
Ponte a Egola. 

5. ASCSM, Delibere Giunta comunale, 25 Febbraio 1890, N°65; 20 Marzo 1890, N° 91. 

é Decreto 11 novembre 1888, 5.808. 


234 


La Scuola Elementare Rurale di Ponte a Egola da Comunale a Statale 





L'edificio deve comprendere il vestibolo e le aule, essere provvisto di latri- 
ne con acqua corrente. Le aule devono avere una forma rettangolare ed essere 
esposte a Sud o Sud-Est, con grandi finestre che facciano entrare la luce dal lato 
sinistro dei bambini seduti nei banchi. Le pareti devono essere dipinte di grigio, 
azzurrognolo o bianco, e prevedere uno zoccolo in pietra o altro materiale lavabi- 
le, alto 1,50 m. Tutte normative di cui viene tenuto conto, in quanto nella nuova 
scuola ha una forma unilineare, all’interno c'è un ampio corridoio dal quale si 
accede ai singoli locali, le finestre sono grandi ed esposte a Sud e l’imbiancatura 
è di colore grigio. 

Tenendo conto delle direttive ministeriali il progetto viene presentato il 30 
Agosto 1891 e giungerà a realizzazione nel 1896”. 

Nelle indicazioni si parla dei banchi che debbono avere le giuste misure an- 
tropometriche circa l’altezza, la profondità del sedile, l’inclinazione dello scrit- 
toio e le dimensioni dello schienale, per risultare conformi allo sviluppo degli 
alunni, adatte alla prevenzione e alla correzione di possibili deformazioni delle 
ossa. Sono tutte raccomandazioni contenute anche nei programmi ministeriali 
nei quali vengono stabilite le direttive destinate ad uniformare l'insegnamento in 
tutte le scuole. 

I docenti di Ponte a Egola, come quelli del resto d’Italia, avevano il dovere di 
seguire i programmi redatti secondo le esigenze di ciascun periodo e di ciascun 
governo. 

Nel 1888, ad esempio, vengono approvati i programmi Gabelli* che incon- 
trano parecchie difficoltà nella loro applicazione pratica e la didattica quotidiana 
risulta ancora simile a quella utilizzata durante gli anni successivi all’unificazione. 

In generale i docenti sembrano quasi intimoriti dalle novità proposte da Ari- 
stide Gabelli, tanto che lui stesso sostiene di non aver insistito per la loro attua- 
zione, perché i maestri si mostravano molto preoccupati nell’implementarli du- 
rante le loro lezioni. Inoltre la scuola di quel periodo è fortemente vincolata dalle 
condizioni di indigenza della maggior parte della popolazione, ciò comporta il 
persistere di una grande evasione scolastica. 

In particolare nelle scuole periferiche con le pluriclassi, come quella di Ponte 
a Egola, sono evidenti i bisogni economici e culturali del contesto nel quale sono 
nate. Sono espressione di un Paese basato sull’agricoltura nel quale sono rilevanti 
le risorse legate al lavoro dei coloni e dei braccianti. 

Le famiglie povere hanno una migliore opportunità di sopravvivere quanto 
più il numero delle braccia da impiegare nel lavoro dei campi è elevato ed infatti, 
nelle annotazioni dei registri scolastici, leggiamo che diversi alunni, specialmente 
nei mesi dedicati ai raccolti, risultano assenti. 

Bisogna aggiungere che ci sono delle oggettive difficoltà per raggiungere la 
scuola legate alla conformazione del territorio collinare ed alle strade poco cu- 
rate che certamente non favoriscono la frequenza scolastica; per cui, secondo il 
pensiero del tempo, nella scuola a carattere rurale, come quella istituita a Ponte 
a Egola, le finalità sono limitate all’apprendimento degli elementi fondamentali 





7 Antonella Bertini, “La Scuola Elementare di Ponte a Egola” dal Marianellato, 1868, al Piazzale, 


1896, Bollettino dell’Accademia degli Euteleti, N°87, p.554. 


8 Enzo Catarsi, Storia dei programmi della scuola elementare, Firenze, La Nuova Italia, 1990. 


235 


Antonella Bertini 





dell’istruzione. Esse consistono nel leggere, scrivere e far di conto, e sono legate 
alle esigenze delle comunità medesime che si addossano il costo dovuto al tempo 
trascorso dai bambini a scuola che invece potevano essere utilizzati in attività 
domestiche. 

Oltre a ciò nell'ultimo decennio del 1800 si diffonde un modo di pensare 
assai conservatore che attribuisce all'istruzione popolare la causa dei movimenti 
rivoluzionari e della criminalità; si pensa che gli insegnanti, non soddisfatti del 

roprio lavoro nelle scuole di piccoli centri, si adoperino per suggerire idee socia- 
io e contrarie alla religione. 

In tale situazione culturale matura la stesura dei nuovi programmi per la scuo- 
la elementare, sollecitata da alcune riviste magistrali che diventano sempre più 
diffuse. 

Queste riviste diffondono una cultura moderata assai legata alle direttive go- 
vernative e fanno trasparire giudizi negativi riguardo ai programmi del 1888, 
considerati troppo progressisti, poiché tendevano a valorizzare il pensiero indi- 
viduale. 

Si preme per assegnare alla scuola uno scopo politico al fine di conformare i 
ragazzi alle idee della classe al potere, ad esempio ne “Il Nuovo Educatore” viene 
scritto che “la scuola può essere un mezzo efficace e potente per porre argine alle 
esorbitanze dei partiti estremi, che vogliono tutto sconvolgere e demolire”?. 

La stesura dei programmi è affidata al ministro Baccelli nel 1894, il quale si 
avvale dell'apporto di una specifica Commissione, per alleggerire i contenuti di 
quelli precedenti, ritenuti troppo ridondanti e per questo di difficile applicazione 
pratica. I lavori procedono rapidamente ed in pochi mesi i nuovi programmi 
sono redatti. 

Si nota subito l'impostazione conservatrice lo stesso ministro, durante la pre- 
sentazione alla Camera dei Deputati, sostiene: “Istruire il popolo quanto basta, 
educarlo più che si può”. 

I nuovi programmi vengono accolti positivamente e si cerca di metterli in atto 
fin dall’anno scolastico corrente. 

Una grande attenzione viene data all'educazione morale e si stabilisce il ruolo 
del maestro che deve in primo luogo quello di “dominare e volgere a meta nobile 
ed alta i moti dell’istinto e della passione” e cercare di valorizzare l'educazione 
domestica della famiglia ed il sentimento religioso. 

Il lavoro degli insegnanti viene valutato dalle Ispettrici per le Scuole Elemen- 
tari, ad esempio nel 1890, per l’anno scolastico in corso, per la Commissione So- 
praintendente alla Scuole Elementari vengono nominate: Marianna Costa-Righini 
vedova Conti, Ida Gazzarrini ne Ceccherelli e Ida Cecconi ne Salvadori!°. 

Nei Programmi vengono valorizzate anche le nozioni di igiene legate alla cam- 
pagna sostenuta negli ultimi anni del XIX secolo dai medici igienisti. Questi 
ultimi si rendono conto che la scuola costituisce il luogo adatto per educare la 
popolazione alla pulizia personale e ad un corretto regime alimentare. Nelle scuo- 
le del sanminiatese si parla di casi di tifo, di morbillo e di vaccinazioni contro il 





° “Dei programmi didattici”, in “Il Nuovo Educatore”, a. XIV, 2, 25 ottobre 1894. p. 14. 
10 ASCSM, Delibera del Giunta comunale, 8 gennaio 1890, N° 9, Ispettrici per le Scuole Ele- 
mentari. 


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La Scuola Elementare Rurale di Ponte a Egola da Comunale a Statale 





vaiolo; si nota l’impegno del Comune nel migliorare le condizioni igieniche degli 
abitanti con l’ausilio del medico condotto, con la costruzione di latrine Gubblic ie 
e l’approvvigionamento di acqua potabile. 

In particolare a Ponte a Egola emergono problemi connessi all’attività con- 
ciaria e si prendono decisioni che tendono a salvaguardare la salute degli alun- 
ni, come quando il signor Marchetti fa una domanda al Comune per ottenere il 
permesso di stendere ad asciugare il pelo da conce sul piazzale davanti alle Scuole 
Comunali. La Giunta non concede il permesso in quanto altri nei dintorni ne 
avrebbero allora diritto ed inoltre la stenditura di detto pelo può nuocere alla pub- 
blica salute per le sue esalazioni ed ingombro al libero passaggio del pubblico. 

I Programmi del 1894 mostrano un basso profilo, evidenziano una scuola 
popolare senza grandi pretese legata all'acquisizione di minime nozioni pratiche, 
suggeriscono ad esempio come pettinarsi e lavarsi. Mostrano la volontà di ridurre 
quegli obiettivi che i programmi del 1888 si erano posti soprattutto quelli ineren- 
ti ab formazione di persone consapevoli e dotate di spirito critico. 

Queste prerogative si riflettono anche nel registro adottato in Italia secondo 
le prescrizioni ministeriali nell’anno scolastico 1895/6; esso è predisposto per 80 
alunni, sia per la classe maschile che per quella femminile ed è unico, non viene 
più usato il registro Mensuale. In quello compilato dal maestro Enrico Giomi™ 
nel quale viene ancora usata nell’intestazione la dizione Evola, le materie giudi- 
cate sono: Condotta, Lettura, Esercizi di memoria, Spiegazione delle cose lette, 
Dettatura, Esercizi del comporre, Aritmetica pratica, Storia, geografia, Diritti e 
doveri del cittadino, Calligrafia. Fanno parte delle attività didattiche Ginnastica 
e Lavori, due discipline che non sono mai state valutate. 

I programmi Baccelli non forniscono indicazioni circa il canto, la ginnastica, 
il disegno, i lavori donneschi ed altre attività educative organizzate in diverse 
scuole italiane. Per il ministro queste iniziative sarebbero state organizzate dai 
maestri secondo la loro intelligenza tenendone conto per alleggerire l’insegnamen- 
to di tipo più intellettuale. 

È in questa prospettiva che viene sollecitato in particolare per le scuole rurali, 
come quella di Ponte a Egola, l’uso di un campicello scolastico. Con tale suggeri- 
mento si vuole porre in grado la scuola di contribuire al rilancio e alla moderniz- 
zazione dell'agricoltura in Italia. 

Nei documenti relativi alla scuola di cui ci occupiamo non sono presenti cenni 
o indicazioni relativi al campicello scolastico, forse per il fatto che l’edificio costru- 
ito sul Piazzale non possedeva un giardino proprio. Questa iniziativa di stampo 
paternalistico, comunque, non trova, anche a livello nazionale, molto seguito sia 
per la formazione teorica degli insegnanti, sia per la carenza di attrezzature. 

Quello che preme sottolineare è il fatto che il lavoro dei campi viene percepito 
come lo strumento principale per conseguire le principali finalità dell’istituzione 
scolastica che consentano di preparare alla vita e di rispettare l’ordine costituito. 


E. Giomiè stato il primo maestro della Scuola Rurale di Ponte a Egola dove ha inse- 


gnato per quasi quaranta anni e di cui abbiamo parlato nello studio pubblicato nel N° 87 del 
Bollettino dell’Accademia degli Euteleti. Il maestro si era impegnato con costanza per miglio- 
rare il livello culturale dei suoi compaesani, tanto che aveva ottenuto nel 1895 il certificato di 
lodevole servizio per deliberazione presa dal Consiglio Scolastico Provinciale. 


237 


Antonella Bertini 





Il ministro Baccelli valorizza il lavoro manuale introducendolo in tutte le 
scuole elementari in relazione al sesso, alla condizione sociale e all’età degli alun- 
ni. Ciò avrebbe aiutato il maestro nel far acquisire le nozioni più difficili e i 
concetti più astratti che possono essere assimilati più facilmente con le attività 
pratiche. Inoltre, con il lavoro manuale il povero, andando a lavorare terminato il 
ciclo di studi, non sentirà il peso del distacco agli studi ed il ricco imparerà a rispettare 
l'umiltà del lavoro manuale, quando si impegnerà nelle attività intellettuali. Tutti ne 
serberanno un bel ricordo. Una pacificazione sociale. 

Per quello che riguarda le scuole femminili devono educare “la donna al cul- 
to della casa e agli affetti della famiglia”. A scuola si debbono insegnare i lavori 
donneschi che non erano previsti nel 1894, ma in seguito, tenuto conto dei rilievi 
da parte di alcuni ispettori, vengono introdotti e la maestra ha il compito di inse- 

nare “il modo di rivedere, rammendare, rassettare il bucato”. In questa maniera 
e scolare dimostreranno ai propri familiari l’utilità di frequentare la scuola. 

Fra le discipline la lingua italiana occupa un posto preminente nell’insegna- 
mento e il docente ha il compito di portare i propri scolari “a parlare e scrivere 
correttamente nella lingua che è simbolo di concordia e di amor patrio a tutte 
le genti italiane”. La maggior parte degli alunni, infatti, si esprime in dialetto 
o in un italiano incerto, con notevoli difetti di pronuncia che il maestro deve 
correggere. Il dialetto viene visto in modo negativo e non va usato per evitare gli 
errori ortografici, si valorizza la grammatica che spesso comporta un'istruzione 
assai formale. 

La storia è molto legata alla situazione politica e allo spirito dei nuovi pro- 
grammi tanto che il suo insegnamento deve condurre all'educazione morale e 
patriottica dei ragazzi. Come contenuto la storia non è basata su quella antica, 
ma sul Risorgimento e le tradizioni nazionali. Vengono studiati i protagonisti di 
quel periodo storico per giungere a ritroso a parlare delle vicende più antiche e 
comprendere l’importanza della patria e di Roma. 

Tutte queste disposizioni si ritrovano nei registri come in quello redatto da 
Enrico Giomi che comprende i mesi da ottobre a luglio, la valutazione, invece, 
inizia a novembre e termina a giugno, quando viene riportata la media annuale 
dei voti’, non si utilizzano più i mezzi voti o i tre quarti, come accadeva in pre- 
cedenza. 

Ora le iscrizioni sono in ordine alfabetico e riportano il nome del padre; da 
questo elenco sembra che la situazione sanitaria sia migliorata perché nessun 
alunno, come vediamo nella seconda classe, risulta defunto, mentre per uno solo 
viene specificato dell'Ospedale, probabilmente era stato abbandonato alla nascita, 
infatti non viene riportata la professione del padre come per gli altri. 

Nel registro viene chiesto il Domicilio (via, numero e piano, o frazione e cura), 
ma ancora il maestro non può specificare l’indirizzo preciso, si limita a scrivere: 
Ponte a Egola, Ponte a Egola (i Ghetti), Romaiano, oe di Stibbio, in quanto 
ancora il paese si sta sviluppando e non sono stati attribuiti i nomi alle strade. Ci 





12 Nella prima pagina del registro si legge che Enrico Giomi è figlio di fu Costantino e 
di Valori Cherubina nato al Ponte a Egola (provincia di Firenze) il 16 dicembre 1846 fornito 
di patente di grado Superiore ottenuta in Pisa addi 2 Agosto 1869...ha lo stipendio di L.825 ... 
presta servizio nel Comune dal giorno 1° Gennaio 1870. 


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La Scuola Elementare Rurale di Ponte a Egola da Comunale a Statale 





si orienta con gli antichi toponimi. 

Le alunne hanno una loro insegnante. Si chiama Elvira Mazzoni la quale, 
come scritto nella prima pagina del registro del 1895/96, è nata a Firenze nel 
mese di maggio del 1858, è ui di patente di grado Superiore, ottenuta in Firen- 
ze. E iscritta al Monte di Pensione dal I° Gennaio 1888; ha lo stipendio di L. 660 
e presta servizio nel Comune dal giorno I° Gennaio 1888”. 

In questa prima pagina si nota bene come ancora lo stipendio dell'insegnante 
donna sia di gran lunga minore rispetto a quello dell’uomo che riscuote 825 Lire; 
perciò ai Comuni, spesso carenti dal lato economico, conviene maggiormente 
assumere personale femminile. 

Le maestre, anche se meno remunerate rispetto ai colleghi, sono state tra le 
prime donne a lavorare al di fuori della cerchia Hue e talvolta si allontanavano 
dalla famiglia, in quanto avevano l'obbligo di residenza nella sede di insegnamento. 

Nell’anno scolastico seguente! le bambine iscritte sono in prima 43, in se- 
conda 18, in terza 8; inizialmente sono nominate in ordine alfabetico poi non se- 

uono più un preciso ordine, per il fatto che le iscrizioni sono proseguite durante 
Fanno per ottemperare all'obbligo scolastico. 

Il registro annuale pur riportando le valutazioni, da novembre a giugno, delle 
medesime materie rispetto all'anno precedente presenta alcune diversità, si nota 
che allora, come del resto è accaduto anche in anni recenti fino all'adozione del 
registro elettronico, le caratteristiche dei registri mutavano spesso. 

Qui vengono scritte le Osservazioni sul carattere sui portamenti, sulle attitudini 
dell'alunno- Indicazione dei premi e gastighi avuti durante l'anno scolastico. 

La maestra Mazzoni specifica per ogni scolara un sintetico giudizio, molto 
diretto, senza mezzi termini che, al giorno d’oggi, potrebbe risultare anche offen- 
sivo, ma che in quegli anni testimonia l'autonomia degli insegnanti che non ven- 
gono criticati dai genitori, i quali, per la maggior parte ignoranti, hanno fiducia 
nell’operato dei docenti. 

Ecco alcuni esempi dei giudizi espressi: Buona, ma ottusa di mente; Mediocre, 
ma contraria per istudiare i numeri; Poco rispettosa, di tarda intelligenza e a 
tuosa; Buona, d'intelligenza pronta per studiare; Di carattere coperto e di intelligenza 
ottusa; Vivace, ma sveglia di mente e di buona voglia per riuscire all'intento; Di poco 
sentire e abborracciona, Di buon carattere, precisa, ma di mente un po’ addormen- 
tata, Di cuore, di mente è propensa per riuscire brava scolara; Mediocre pel caratte- 
re, ma nemica dell'occupazione; Vivace, un po invidiosa, ma d'intelligenza. Queste 
osservazioni variano per ciascuna le 69 alunne, poche hanno lo stesso giudizio. 

Le scolare sono molte, ma le ammesse all’esame finale costituiscono un nume- 
ro limitato e non tutte vengono promosse nell’esame eftettuato il 10 luglio 1897, 
sottoscritto dalla Commissione esaminatrice composta dai commissari Enrico 
Giomi ed Elvira Mazzoni che sono gli unici maestri di Ponte a Egola ed anche 
coniugi. 

Gli anni scolastici si susseguono e nel 1896/97 il maestro Giomi nel Registro 





13 ASCSM, Sezione postunitaria, Affari della scuola, Registro annuale, anno scolastico 1895/96, 


scuola femminile di Ponte a Egola. 
14 ASCSM, Sezione postunitaria, Affari della scuola, Registro annuale, anno scolastico 1896/97, 
scuola femminile di Ponte a Egola. 


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La Scuola Elementare Rurale di Ponte a Egola da Comunale a Statale 








Scolastico per la Scuola Unica Rurale scrive Ponte a Egola e non più Evola, se- 
guendo un uso ormai consolidato nella parlata locale. 

Le date di nascita dei 59 alunni sono comprese tra i sette i tredici anni e te- 
stimoniano ancora una volta che molti non rispettavano l'obbligo scolastico ed 
erano analfabeti. 

Nelle pagine riservate, per ciascun alunno, alle OSSERVAZIONI sul carattere, 
sui portamenti, sulle attitudini dell'alunno — Indicazione dei premi e gastighi avuti 
troviamo delle diciture brevi, ma molto dirette: Di mediocre intelligenza ma as- 
siduo alla scuola; Di mente ottusa e distratto; Intelligente ma trascurante della scuo- 
la; Intelligente ed assiduo; Di debole intelligenza ma assiduo e docile; Di mediocre 
intelligenza e trascurato; Di mente ottusa e trascurato; Di mediocre intelligenza ma 
assiduo; Di mente ottusa ma assiduo; Di mente ottusa e trascurato. 

Nell’archivio non sono conservati i registri di tutti gli anni scolastici, diversi 
sono andati perduti; oltre a quelli citati se ne possono consultare alcuni relativi 
agli anni 1901/1902, 1902/1903, 1903/1904 e 1906/1907. 

I registri consultabili appaiono maggiormente curati, sono diventati ufficiali, 
infatti compare la firma originale dell'editore per evitare le contraffazioni; si nota 
anche la firma di un ispettore che evidentemente controlla il lavoro degli inse- 
gnanti, nell’ultima pagina di copertina compaiono i primi consigli circa l’adozio- 
ne dei libri di testo e vengono suggeriti dei titoli. 

Il numero degli alunni va ancora aumentando, soprattutto quello delle fem- 
mine, ma la maestra Elvira Mazzoni Giomi deve ancora osservare per qualche 
scolara: licenziatasi dalla scuola per accudire ai lavori campestri o licenziata dalla 
scuola per andare al lavoro. 

Le attività specificate per i padri, le madri non vengono mai nominate, risultano 
più varie: oltre ai coloni e ai braccianti, compaiono nuovi lavori come l’ortolano, 
il meccanico, il vinaio, il portalettere, il fornaio, il sarto, il vetturale, il bottegaio, 
il macellaro, il fornaio, il barbiere, il calzolaio, il fabbro e il muratore, aumentano 
anche quelli strettamente legati alle concerie come l’operaio, il raffinatore, il con- 
ciaio, il commerciante ed il possidente. Significa che la comunità sta crescendo e le 
necessità sono aumentate. Ponte a Egola sta diventando un paese più “moderno”, 
tanto che si parla di sostituire i lampioni a petrolio con la luce elettrica. 

La scuola funziona, mancano però molti arredi di cui viene fatta richiesta. Il 
Comune con vari provvedimenti cerca di supportare alcune impellenti necessità 
come la sostituzione dei cristalli delle finestre e l'acquisto di un cappellinaio, ma 
le carenze sono molte e altre spese vengono rinviate”. 

Il numero degli alunni per classe è ancora elevato. Nel 1903 vengono iscritti 
in prima maschile 80 alunni per cui si chiede lo sdoppiamento!’. 

Il tutto viene ribadito con una decisione di poco successiva, vista anche la 
sollecitazione del Provveditorato agli Studi, che fa riferimento al soverchio af- 
follamento di alunni in detta Scuola, nonché l'avanzata età e gl'incomodi di salute 
dell'attuale Maestro Giomi Enrico, che lo rendono insufficiente all'insegnamento in 





15. ASCSM, Delibera Giunta Comunale, 16 dicembre 1903, N° 439, Lavori alla Scuola del Ponte 
a Egola. 

16 ASCSM, Delibera Giunta Comunale, 2 Dicembre 1903, N° 418; Delibera Giunta Comunale 
30 Dicembre 1903, N°454. 


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detta Scuola. Il Comune si impegna a risolvere la situazione sollecitato anche dalle 
direttive statali.” 

In effetti la Legge elaborata da V. E. Orlando nel 1904 prevede il prolunga- 
mento dell’obbligo scolastico fino a dodici anni, con le classi quinta e sesta!*, 
in continuazione della scuola elementare. I Comuni, seguendo questa direttiva, 
devono istituire perlomeno la quarta classe e aiutare i bambini meno abbienti. Lo 
Stato, per questo, elargisce dei fondi ai Comuni. 

Inizia così una maggiore collaborazione fra Comuni e Stato, finchè si arriva, 
nel 1911, alla boni azione della Legge Daneo-Credaro!? con la quale viene 
stabilito il passaggio della scuola da comunale a statale, così da garantire l'obbligo 
scolastico che in molti Comuni non era rispettato per le difficoltà economiche. 

Vengono istituiti i Patronati scolastici di cui si parlava nel 1888 in un dal Re- 
gio Decreto, ma che di fatto non erano stati organizzati. Questa istituzione aveva 
il compito di sostenere i ragazzi poveri dispensando materiale scolastico, vestiti 
ed altro, affinché potessero frequentare la scuola assiduamente, visto il grave pro- 
blema dell’analfabetismo. 

La scuola diventa un servizio statale e lo Stato si addossa il pagamento degli 
stipendi dei docenti. 

In pratica si evidenzia un generale riordino della struttura della scuola di base 
che viene sottratta quasi per intero alla gestione dei Comuni con scarse dispo- 
nibilità economiche; praticamente con la Legge Credaro rimangono a gestione 
comunale i capoluoghi di provincia, mentre tutte le altre dipendono dal Provve- 
ditorato agli Studi legato direttamente dal Ministero della Pubblica Istruzione. 

Per risolvere il problema del sovraffollamento delle classi e delle pluriclassi, 
cioè “classi riunite con un unico maestro” nel titolo III, Riordinamento della scuo- 
la rurale unica e del corso popolare, viene stabilito che un docente della scuola ele- 
mentare possa insegnare in due sezioni della medesima classe in orari differenti. 

Viene anche fondato l'Ufficio Scolastico che dipende dal Provveditore agli 
Studi della provincia di appartenenza, sono costituiti i Circoli con la Direzione 
Didattica guidati da un direttore scelto tramite concorso. Vengono nominati, 
inoltre, gli Ispettori centrali che organizzano il lavoro di vigilanza degli Ispettori 
scolastici ed i docenti vengono scelti tramite concorso. 

Ormai l'obbligo scolastico è imprescindibile per cui sono diverse le delibere 
che stabiliscono la necessità di iscrivere un minor numero di alunni per ogni clas- 
se sia da parte del Consiglio Comunale, sia della Giunta. Durante la seduta del 
Consiglio Comunale del 20 Dicembre 1909 l'Assessore alla Pubblica Istruzione 
Cav. Avv. Annibale Pelleschi riferisce come sianvi delle classi che necessitano asso- 





17 ASCSM, Delibera Giunta Comunale, 15 Gennaio 1903, N° 24, Provvedimento circa linse- 
gnamento nella Scuola del Ponte a Egola; Delibera Giunta Comunale, 11 Marzo 1903, N° 94, Provve- 
dimenti per l'istruzione elementare. 

18 Delibere Giunta comunale, 28 Novembre 1908, N° 179, Ratifica di deliberazione 
della Giunta Sesta Elementare; 28 Novembre 1908, N°188, Sdoppiamento di classi elemen- 
tari con prolungamento d’orario consiglio. 

1 La Legge N° 487 porta questo nome perché venne presentata per la prima volta dal Ministro 
della Pubblica Istruzione Edoardo Danao nel 1910 e approvata l’anno seguente il 4 Giugno 1911, 
quando era diventato Ministro Luigi Credaro. 


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Antonella Bertini 





lutamente di uno sdoppiamento, ma che è impossibile effettuarlo durante l’anno 
scolastico in corso e si predispone la soluzione di provvisoriamente aumentare 
l'orario con i medesimi insegnanti e con le stesse aule con le spese soltanto dell'aumento 
di due quinti sullo stipendio minimo legale assegnato a ciascuno degli insegnanti. La 
proposta viene approvata Per alzata e seduta all'unanimità. In questo modo la 
scuola femminile di Ponte a Egola ottiene lo sdoppiamento con l'integrazione di 
L. 340 insieme a quasi tutte le altre scuole del Comune”. 

Nel 1909 lo stato comincia ad occuparsi più da vicino della scuola per unifor- 
marla. E anche il Comune di San Miniato deve sottostare a quanto scritto nella 
circolare prefettizia del 6 agosto 1909 relativa all'aumento dello stipendio A 
insegnanti elementari, al quale va subito provveduto” chiedendo l'ausilio dello 
Stato”. 

L’anno seguente viene approvato un importante provvedimento, come spiega 
l'Assessore Annibale Pelleschi non tanto per i/ collocamento a riposo del sotto- 
maestro Mannucci Salvatore incaricato dell insegnamento della prima maschile, 
quanto per il soverchio numero di alunne delle tre classi affidate alla medesima 
insegnante. La Giunta delibera di sottrarre agli attuali insegnanti la prima maschile 
e femminile e di formarne una classe mista con lo stipendio di lire 600 all'anno. 

L'obbligo orario è di sei ore, suddiviso in due momenti ciascuno di tre ore: 
uno per i maschi ed uno per le femmine e viene incaricata la signorina Duilia Gi- 
glioli a supplire il maestro Mannucci, il quale, malato, non può portare a termine 
il proprio incarico fino al pensionamento. 

Questa delibera”? viene approvata all'unanimità e firmata dal Sindaco Ron- 
doni, dall'Assessore anziano Pelleschi e dal Segretario Mannini. Viene affissa dal 
donzello*, all’albo comunale e, poiché nessuno ha fatto dei reclami, diventa ope- 
rativa. 

La maestra viene poi confermata nel suo incarico agli inizi dell’anno scolastico 
successivo” ma, al proposito, viene chiesta e ottenuta l'approvazione del Consi- 
glio Provinciale Scolastico di Firenze, in modo che la decisione possa risultare 
regolare e definitiva. 

La necessità di combattere l’analfabetismo diventa pressante e anche nel Co- 
mune di San Miniato si parla di vigilare con maggiore attenzione, tanto che viene 
rinnovata, con incarico Lic una Commissione per la vigilanza dell’adempi- 
mento dell’obbligo scolastico che è formata da una maestra, da un maestro e da 





2°. Delibera del Consiglio Comunale 20 Dicembre 1909, N°156, Sdoppiamento delle classi 

2! ASCSM Delibera Giunta comunale, 4 Ottobre 1909, N° 473, Stipendio degli Insegnanti 
Elementari. 

2 ASCSM Delibere della Giunta Comunale 28 Marzo 1909, N° 184, Aumento di stipendio di 
Insegnanti. Concorso dello Stato; 2 Aprile 1909, N° 188, Richiesta di concorso dello Stato sull’aumen- 
to di stipendio per lo sdoppiamento di classi elementari. 

23. ASCSM Delibera della Giunta Comunale, 10 Novembre 1910, N°130, Provvedimenti scola- 
stici; Estratto del Protocollo delle deliberazioni della Giunta Municipale 10 Novembre 1910; Ratifica 
del 30 Novembre 1910, N° 175. 

24 In Toscano, in particolare nei Comuni del contado fiorentino, significa usciere comunale. 

2 Delibera del Consiglio Comunale, 7 Ottobre 1911, N °91, Nomina della Sig. Giglioli a mae- 
stra della Scuola di P.Egola. 


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La Scuola Elementare Rurale di Ponte a Egola da Comunale a Statale 





due padri di famiglia residenti nel Comune”. 

Agli inizi dell’anno scolastico 1911 il Comune, seguendo le disposizioni con- 
tenute nella legge per l'Istruzione popolare elementare”, si adopera per riordinare 
le scuole obbligatorie del Comune istituendo la quarta elementare.‘ Inoltre, sol- 
levato dall’ impegno economico relativo allo stipendio degli insegnanti e ad altre 
necessità didattiche, tornerà più volte ad occuparsi della scuola del paese perché 
la costruzione, l'ampliamento, il mantenimento e la ristrutturazione delle scuole 
rimangono responsabilità comunali. 

Nei registri delle delibere ancora si evidenziano alcuni provvedimenti riguar- 
danti la nomina e lo spostamento di alcuni insegnanti nel territorio comunale, 
forse per il fatto che la nuova legge per essere pienamente attuata aveva bisogno 
di alcuni aggiustamenti pratici; comunque dal 1911 in poi, per studiare la storia 
dell'Istituzione scolastica dal punto di vista didattico ed organizzativo bisogna 
fare riferimento allo Stato. 


26 


Delibera del Consiglio Comunale, 12 Aprile 1911, N° 9, Commissione di vigilanza sull’adem- 
pimento dell’obbligo all Istruzione. 

7 Legge per ‘Istruzione Popolare Elementare, 4 Giugno 1911, N°487, Titolo III, Articolo 33. 
ASCSM Delibera Consiglio comunale, 7 ottobre 1911, N° 89, Istituzione della quarta elemen- 
tare al Ponte a Egola. 


28 


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Antonella Bertini 


La Scuola Elementare Rurale di Ponte a Egola da Comunale a Statale 








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della Città-n. 11, Aprile 2017. 


244 


IF. Ponte a Evola 


Registro Unico anno scolastico 1895/96 





245 


Antonella Bertini 


La Scuola Elementare Rurale di Ponte a Egola da Comunale a Statale 















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Antonella Bertini La Scuola Elementare Rurale di Ponte a Egola da Comunale a Statale 


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Registro Unico anno scolastico 1906/7 Estratto Delibera Giunta comunale, 10 Novembre 1910 


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250 


L'archivio della Fondazione Dramma Popolare 
di San Miniato: un patrimonio della comunità sanminiatese 





MARZIO GABBANINI, ALEXANDER DI BARTOLO 


Introduzione 

La seguente comunicazione nasce dalla volontà di presentare al pubblico del 
Bollettino dell’Accademia degli Euteleti e all'intera comunità degli studiosi la 
conclusione dei lavori di sistemazione e inventariazione dell'archivio della Fon- 
dazione Istituto del Dramma Popolare di San Miniato, iniziata nel luglio dello 
scorso anno con autorizzazione della Soprintendenza archivistica per la Toscana, 
e terminata nel mese di ottobre di quest'anno. Il lavoro di riordino e creazione 
ragionata dell’intera architettura dell'archivio sono stati concordati con la Fon- 
dazione e il suo Consiglio di amministrazione, al fine di creare non solo un uti- 
le strumento di lavoro per i collaboratori della struttura che quotidianamente 
operano sulla parte storica e corrente dell'archivio, ma anche per valorizzare un 
patrimonio documentale dell’intera comunità e favorire gli studiosi che annual- 
mente ne richiedono la consultazione a scopi di ricerca. Al termine dell’attività di 
sistemazione ragionata delle carte e creazione dell’inventario la Soprintendenza 
archivistica e e e per la Toscana ha riconosciuto il valore culturale della 
documentazione prodotta | e raccolta dall’ ente in 75 anni, ponendo sotto tutela 
l'archivio, riconosciuto di “interesse storico” per la comunità e per gli studiosi del 

teatro. 
li inizi degli anni Novanta l’euteleta Paolo Morelli (Processi informativi : 
1994) segnalava ai lettori, introducendo il volume del sacerdote Livio Tognetti 
che andava pubblicando per i tipi di questa Accademia il repertorio degli atti del 
Tribunale ecclesiastico di San Miniato, come nel contesto della cittadina pisana 
fossero stati inventariati importanti fondi conservati in città: l'archivio dell’O- 
spedale di San Miniato (CASINI : 1967), l’archivio del Conservatorio di Santa 
Chiara (CASINI : 1968), archivio della Misericordia (CASINI, 1972). Negli 
anni Novanta si erano poi aggiunti l’archivio storico comunale (Guida generale 
dell'archivio storico : 1992), l'archivio dell’Accademia (Inventario dell'archivio sto- 
rico : 1992), infine gli archivi capitolari e vescovili (Inventario dell'archivio capito- 
lare e Inventario dell l'archivio diocesano : 1995 e 1999) sui quali si stava lavorando 
proprio al tempo della pubblicazione del repertorio del Tribunale ecclesiastico. 
In quest'ottica di grande fervore per la sistemazione delle testimonianze laiche ed 
ecclesiastiche del contesto sanminiatese, che ha avuto due fasi (anni 1967-1972 
e anni 1992-1999), mancavano però all’appello — come ricordava il Morelli — 
l’Archivio del Seminario vescovile (ora solo parzialmente censito) e alcuni fondi 
dello stesso Archivio diocesano. Non si faceva però menzione dell'Archivio del 
Monastero di San Paolo (unico tra gli enti religiosi ad essere rimasto in città, per- 
ché i fondi dei Frati Minori e quello dei Domenicani erano stati trasferiti di sede) 
e nemmeno si rammentava il deposito documentale di uno dei più importanti 


251 


Marzio Gabbanini, Alexander Di Bartolo 





“enti” culturali della città: la Fondazione Istituto del Dramma Popolare di San 
Miniato, già Istituto del Dramma Popolare. 

Consapevoli dell'importanza che hanno gli archivi nell’ambito della ricerca 
storica, il Presidente e il Consiglio di amministrazione della Fondazione hanno 
così deciso di procedere alla sistemazione, riordino e censimento del proprio ar- 
chivio. Ricordo che l’attuale Fondazione Istituto del Dramma Popolare di 
San Miniato è l'evoluzione giuridica della precedente associazione culturale Isti- 
tuto del Dramma Popolare di San Miniato, ed è rappresentata da tre soci fonda- 
tori: comune di San Miniato, Fondazione Cassa di risparmio di San Miniato e 
Istituto del Dramma Popolare. Benché la natura giuridica sia cambiata nel 2002 
assumendo l’assetto attuale, l’attività del “Dramma Popolare” è rimasta sostan- 
zialmente immutata nei 75 anni di vita. Scopo principale resta infatti quello 
dell’organizzazione dell’annuale “Festa del Teatro”, con la produzione in prima 
assoluta di spettacoli vieppiù inediti e con temi riferibili al cosiddetto “teatro 
dello spirito”. 

È noto come a dare una spinta decisiva alla nascita dell’IDP siano stati proprio 
alcuni membri della nostra Accademia degli Euteleti che deliberano, nell’adu- 
nanza del 29 aprile 1947, «di dare il massimo appoggio all'Istituto del Dramma 
Popolare per l'esecuzione in San Miniato di una manifestazione di arte teatrale» 
(BAE : 1947). Sappiamo che a quel tempo l’Accademia era retta in via transitoria, 
a causa del periodo bellico e post bellico, da Don Nello Micheletti (1894-1969), e 
all’interno dell’associazione sedevano personalità come Dilvo Lotti (1914-2009) 
e Giuseppe Gazzini (1915-1962), nomi che evocano immediatamente la nascita 
dell’istituto teatrale sanminiatese. 

Anche negli anni successivi alla nascita formale dell Istituto l'Accademia era 
rimasta a fianco del Dramma, sia per ospitare nella propria sede associativa eventi 
legati alla Festa (si pensi nel 1947 alla visita dell’ambasciatore francese presso la 
S. Sede, il filosofo Jacques Maritain)?, sia per dare rilievo agli spettacoli messi in 
scena pubblicando resoconti critici sulle pagine del Bollettino, a firma del più 
importante critico teatrale di allora, Silvio D’Amico (D'AMICO: 1949, 1950, 
1952, 1955). Se alla nascita dell’associazione IDP gli sforzi erano concentrati 
sulla produzione e messa in scena di un solo spettacolo annuale (a fine agosto, 
poi spostato a fine luglio di ogni anno), con pochi eventi e attività culturali “col- 
laterali” che si sviluppavano in prossimità della festa principale (chiamata anche 
“Festa in onore di San Genesio” o “Sagra del Teatro”), oggi la Festa del Teatro ha 
assunto i connotati di un vero e proprio festival, con una serie di spettacoli pro- 
posti in tutto il mese di luglio e un'offerta culturale molto ampia, lungo l’intero 
anno. Tale cambiamento ha influito notevolmente sulla documentazione prodot- 





ABBREVIAZIONI USATE NEL TESTO: 

BAE = Bollettino dell’Accademia degli Euteleti 

IDP = Istituto del Dramma Popolare di San Miniato 

! La dizione, che è nata proprio per definire la particolare drammaturgia messa in scena a San 
Miniato dal 1947 in poi, pone l’attenzione proprio sui temi spirituali portati sul palco e vissuti dagli 
spettatori in platea. Dice D'Amico: «A niente, o a ben poco, serve la bruta materia, anche a teatro: oggi, 
come al tempo della tragedia greca e del “mistero” cristiano, il più sicuro richiamo per il gran pubblico 
è il soffio dello Spirito» (D'AMICO : 1955). 

2 Cfr. BAE : 1947 


252 


L'archivio della Fondazione Dramma Popolare 
di San Miniato: un patrimonio della comunità sanminiatese 





ta dall’ente, e di conseguenza sull’archivio che ne rappresenta l’attività. 

Quanto alla configurazione attuale della Fondazione, ricordiamo che lo Sta- 
tuto prevede l’esistenza di organi quali un’Assemblea dei soci, un Consiglio di 
amministrazione, un Collegio dei revisori, le figure del Presidente e del Direttore 
artistico. Questi organi assembleari e soggetti apicali hanno sostanzialmente le 
medesime funzioni e prerogative che avevano nella precedente organizzazione. 
L'IDP, sin dal 1950, anno del primo Statuto depositato, era dotato infatti di 
un’Assemblea, di un Consiglio direttivo, di un Collegio dei revisori, della figura 
del Presidente e del Direttore artistico. La verifica e i confronto dei due diversi 
statuti (1950 e 2002), e delle rispettive funzioni, hanno messo in evidenza una 
sostanziale identità operativa che ha indotto l’archivista a non prendere in con- 
siderazione la data topica del 2002 come spartiacque per una suddivisione netta 
dell'archivio, che avrebbe portato alla nascita di una sezione storica a serie chiuse 
— per il periodo dell’associazione IDP — e una sezione a serie aperte per gli ultimi 
ventuno anni. 

L'esistenza di un archivio, o per lo meno la volontà di raccogliere sistematica- 
mente incartamenti, materiali grafici e fotografici relativi all’attività dell’ente, è 
ascrivibile certamente ai primi anni di vita liti “Istituto del Dram- 
ma Popolare”, sorta formalmente il 3 agosto 1950 ma attiva e operante come 
“comitato provvisorio” dal 1947. Tale volo è ben evidenziata sia da prove ma- 
teriali, come la presenza del timbro a inchiostro con dicitura “archivio di rafico 
del Dramma Popolare” nel verso dei positivi a stampa degli anni ’50, che i rife- 
rimenti indiretti rinvenuti tra le carte di don Ruggini o in pubblicazioni relative 
all’attività dell’ Istituto. 

Il sacerdote Giancarlo Ruggini (1920-1973), che era stato Consigliere dele- 
gato, poi Direttore artistico e responsabile del Comitato di Lettura, stilò alcu- 
ni elenchi di consistenza con l'indicazione di buste e cartelle relative a rassegna 
stampa e articoli di giornale, recanti la scritta “da conservare” o la dicitura “archi- 
vio ritagli stampa”, che possiamo ancora leggere nelle camicie superstiti. Anche 
testimonianze orali di chi ha conosciuto vw Ruggini (Direttore artistico dal 
1948 al 1971) ci consentono di ricordare la presenza di un archivio all’interno 
del suo ufficio personale nella canonica di San Lorenzo a Nocicchio (San Minia- 
to) prima, e di Empoli dopo: si trattava dell’archivio “artistico” dell’Istituto e di 
parte dell’archivio privato, mentre la sezione propriamente amministrativa era 
conservata, fino al trasferimento di sede in Palazzo Roffia, presso lo studio legale 
dell'avvocato Giuseppe Gazzini — primo Presidente — sito in Piazza Buonaparte 
al civico 7. 

Al fine di conoscere la storia archivistica dell’ente è utile, inoltre, la lettura di 
alcune pubblicazioni curate da studiosi o edite dal Dramma popolare. Nel testo 
La maschera e la grazia (MANCINI : 1979) l’autore fa largo uso della docu- 
mentazione conservata nella sede legale identificando pezzi o singole carte trat- 
te dall’ “archivio”. Inoltre in un testo edito dall’IDP, è indicata esplicitamente 
l’esistenza di un “archivio” in aggiunta alla descrizione delle fasi di lavoro che 
caratterizzavano l’organizzazione interna dell’associazione. La pubblicazione for- 
nisce importanti indizi circa gli incartamenti prodotti a quel tempo, e quindi la 
primigenia struttura dell’archivio. Scrivono infatti i responsabili del “Gruppo di 
segreteria” di quel tempo (Gianfranco Rossi, Nicola La Caria, Luca Macchi) che 
un settore importante nella vita dell’Istituto era quello del disbrigo delle varie 


253 


Marzio Gabbanini, Alexander Di Bartolo 





pratiche e dell’organizzazione, i cui compiti precipui erano: affissioni di manifesti 
in ogni parte d’Italia, approntamento sala (tra cui pratica agibilità teatro), attività 
di segreteria (disbrigo pratiche burocratiche varie, spedizione di materiale pub- 
blicitario alla stampa e agli “amici”, inviti alla prima e all’anteprima, organizza- 
zione ricevimento attori, sistemazione per gli attori, organizzazione e prevendita 
biglietti, registrazione e consegna materiale agli amici del Dramma). E ancora, 
sottolineano gli autori: 

alla fine di ogni Festa, smontata l’ultima torretta luci ... quello che resta è un 
lavoro di aggiornamento dell’Archivio. Il corpo dell’archivio è formato da mate- 
riale editoriale dell’Istituto, per il resto la parola archivio va di volta in volta spe- 
cificata: esiste un “archivio fotografico” contenente le foto di scena dal ’47 a oggi; 
esiste un “archivio copioni” cioè tutti i dattiloscritti presentati alla commissione 
di lettura dell’Istituto del Dramma nel corso della sua attività, divisi in lavori 
rappresentati e lavori non rappresentati; esiste un “archivio bozzetti”, disegni di 
costumi e scenografie create per le rappresentazioni del Dramma di San Miniato; 
un lavoro costantemente presente è quello dell’ “archivio recensioni stampa”: gli 
articoli di giornale si può dire escono tutto l’arco dell’anno. (IDP : 1982) 

Da un'attenta analisi di tali affermazioni — risalenti al 1982, cioè dopo 35 anni 
di vita dell'ente, e di conseguente accumulo di materiale — e dopo un confronto 
con lo stato attuale delle collezioni conservate in sede è possibile affermare che la 
documentazione superstite, ad oggi, sia rappresentativa delle volontà conserva- 
tive di allora. Possiamo trovare infatti, nelle sezioni create in sede di inventario, 
l'ossatura fondamentale dichiarata oltre trent'anni fa: esiste tutt'ora la serie foto- 
grafica, esiste quella dei copioni, esiste la serie propriamente grafica con bozzetti, 
disegni e tavole xilografiche, esiste la serie recensioni e ritagli Ri stampa. Tali serie, 
riprodotte nell’inventario cercando di far fede il più possibile alla strutturazio- 
ne originaria, sono state inserite e ordinate logicamente nelle rispettive sezioni 
d’archivio tenendo conto di una macro suddivisione tra attività amministrativa 
e attività artistica. Questa suddivisione, approvata dagli organi competenti, su 
proposta degli uffici della Fondazione, è nata dall’esigenza di inquadrare logica- 
mente l’archivio in base alle due attività principali: quella d’ufficio (quindi tutti 
quei materiali prodottisi nel cosiddetto “disbrigo pratiche”, ovvero l’attività di 
segreteria descritta nel 1982 e che è quasi integralmente rinvenibile nei fascicoli 
e sottofascicoli che costituiscono oggi le buste del “Carteggio generale”), e quella 
propriamente artistica legata alla realizzazione della Festa o del Festival (che si 
può trovare descritta nella seconda e terza sezione dell’attuale inventario d’archi- 
vio). Appare chiaro che — nella realtà — le due diverse attività non siano disgiunte, 
ma dal punto di vista archivistico si è scelto di separarle per favorire lo studio 
anche di una sola delle due parti dell’attività propria della Fondazione. Un ricer- 
catore può in queste modo approfondire, per esempio, i corrispondenti dell’Isti- 
tuto senza necessariamente dover esplorare locandine, depliant, documenti visivi 
o filmografici di un determinato anno. 

La Fondazione è un ente funzionante e vitale dal punto di vista culturale, per 
tanto l’archivio si presenta a serie aperte. Tale soluzione consente di effettuare 
versamenti successivi senza la modifica del precedente ordinamento. Al momento 
di iniziare il lavoro di riordino e inventariazione non esistevano strumenti di cor- 
redo a disposizione degli operatori dell’ufficio o degli studiosi. Gli unici elenchi 
di consistenza, elaborati a scopo prettamente patrimoniale, erano stati disposti 


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L'archivio della Fondazione Dramma Popolare 
di San Miniato: un patrimonio della comunità sanminiatese 





tra il 2000 e il 2002 in occasione della trasformazione del Dramma Popolare da 
associazione culturale non riconosciuta a Fondazione di diritto, e poi nel 2017, 
come diremo poco sotto. L'elenco di consistenza del 2002 riporta dati mera- 
mente quantitativi delle varie unità archivistiche, registrati cronologicamente in 
maniera sommaria, ed è risultato utile per compiere una prima ricognizione e 
classificazione del materiale: buste (faldoni con penare , cassettiera con ma- 
nifesti delle Feste del teatro, manifesti e bozzetti di scena appesi e in cassettiera. 
Nell’occasione erano state inoltre realizzate accurate schede delle opere grafiche 
(disegni, bozzetti, manifesti) a cura della Soprintendenza di Pisa con la descrizio- 
ne degli oggetti in dettagliate schede “OA”. Tali schede ministeriali, insieme ad 
altri denchi rinvenuti durante le operazioni di riordino dell’archivio, sono oggi 
raccolte nella sezione amministrativa, serie “Amministrazione contabile - Inven- 
tari”. Va ricordato che nel 2017, poco tempo dopo il trasferimento nell’attuale 
sede di Piazza della Repubblica 7, veniva data alle stampe la pubblicazione La 
storia del Dramma pense nelle sue fasi organizzative, all’interno della quale è 
riportato un secondo “inventario” con l’elenco dei seguenti materiali descritti in 
base alla collocazione topografica nelle stanze: 

Collezione integrale di 68 manifesti ... più 3 extraordinarie in cornici di legno 

Una serie completa di contenitori con documenti e atti di tutti gli anni dal 
1947 a oggi nonché un contenitore con documenti inerenti la Fondazione (2002) 
e 2 di documenti selezionati relativi a don Ruggini 

Una serie di 115 raccoglitori contenenti È foto relative alle manifestazioni 
dell Istituto 

Collezioni delle pubblicazioni edite dall Istituto 

Libri e pubblicazioni (2000) idonei alla distribuzione 

Serie di bozzetti e scenografie in parte affissi e in parte contenuti nella casset- 
tiera 

Una serie di portafotografie con soggetti teatrali relativi ad alcune manifesta- 
zioni 

Una serie di zincografie su supporto di legno per la stampa relativa ad alcuni 
manifesti (ROSSI : 2017) 


Assetto attuale dell’archivio 

L'Archivio storico della Fondazione Istituto Dramma Popolare di San Miniato 
si presenta organizzato quindi in 3 sezioni per un totale di 17 serie. In totale lAr- 
chivio contiene ben 617 unità archivistiche, che si sviluppano in oltre 70 metri 
lineari. Ogni sezione d’archivio (Amministrazione, Produzione teatrale e attivi- 
tà culturali, Fondo fotografico e audiovisivi) ha una progressione autonoma nel 
numero di serie, indicata in caratteri romani (A.I, A.II, A.II poi B.I, B.II, B.II 
etc etc ). Le serie descritte nell'inventario sono costituite da buste di materiale 
omogeneo, ordinate cronologicamente. L'inventario dell'archivio della Fondazio- 
ne Istituto del Dramma Popolare di San Miniato è strutturato in serie aperte. 
Per ogni serie è stato indicato un titolo ed estremi cronologici generali. Di ogni 
busta/unità archivistica (faldoni, registri, volumi, scatole etc.) è stata indicata in- 
vece la data iniziale e terminale completa quando l’unità archivistica abbracciava 
documenti di più anni, o solamente l’anno nei casi in cui gli incartamenti della 
busta coincidessero precisamente con un solo anno di attività. I titoli delle buste 
e le intestazioni di volumi e registri sono quelli originari così come appaiono 


255 


Marzio Gabbanini, Alexander Di Bartolo 


L'archivio della Fondazione Dramma Popolare 
di San Miniato: un patrimonio della comunità sanminiatese 








manoscritti sulle costole esterne, sui frontespizi o sulle copertine. Questo vale 
anche per i sottofascicoli e gli inserti esistenti. Solo quando non è stato possibile 
recuperare la dicitura originaria ne è stata scelta una nuova sufficientemente pre- 
cisa e atta ad orientare i ricercatori, e sempre coerente con il contenuto interno. 
Per rendere evidente la distinzione tra titolo originario e titolo assegnato è stato 
indicato, nella terza colonna descrittiva, il titolo originario in corsivo. Le unità 
archivistiche, al momento di iniziare il lavoro di inventariazione, non presenta- 
vano segnature bensì solo indicazioni cronologiche sul dorso o titoli identificativi 
o cartellini provvisori (p.es. “2001” oppure “LXI Festa”). Tali indicazioni sono 
risultate utili a ricostruire storicamente l'assetto archivistico stratificato. Durante 
l'ordinamento molti dei fascicoli e sottofascicoli sono stati inseriti in nuove co- 
pertine (o camicie). Si è inoltre proceduto al cosiddetto “ricondizionamento” per 
quei faldoni, scatole o buste che si presentavano deteriorati. Per quanto riguarda 
la sezione amministrativa dell’archivio, problemi più complessi sono stati affron- 
tati per la più corposa e quantitativamente rilevante serie del “Carteggio gene- 
rale” che si pone come punto di riferimento di tutta la sezione amministrativa 
e che non raramente contiene elementi utili alla comprensione dell’attività arti- 
stica dell’ente, consultabile poi nelle serie “Copioni”, “Pubblicazioni e opusco- 
li”, “Attività culturali”. La serie “Carteggio generale” sostanzialmente mantenuta 
immutata nell’ordinamento ritrovato all’inizio del lavoro si presentava ordinata 
cronologicamente per anno e già strutturata, all’interno di ogni busta, secondo 
un criterio di suddivisione per inserti tematici, rispondenti a “classi” che i funzio- 
nari dell’associazione hanno cercato di mantenere e ripetere negli anni. Il modo 
di archiviare i documenti si è mantenuto pressoché costante nel periodo preso in 
esame. Temi e titoli dei fascicoli si ripetono con regolarità, con alcune eccezioni 
legate ad eventi straordinari o ad aggiunte. Alcuni esempi: il fascicolo Regia e 
compagnia, così denominato nel 1947 , è negli anni successivi sdoppiato in due 
fascicoli denominati Regia e compagnia e Materiale scenografico/allestimento. Il 
fascicolo Pratica contributi Stato ha inizio solo dal 1948 e cambia variamente de- 
nominazione in Contributi ministeriali, Pratica contributi ministero, Contributi 
statali. Il contenuto dei fascicoli e degli eventuali inserti interni è però sempre il 
medesimo: vi si trova la corrispondenza con lente ministeriale, l'eventuale mo- 
dulistica da presentare o la rendicontazione delle somme ricevute. Il progressivo 
aumento quantitativo della documentazione burocratica ha portato i bon: 
ri amministrativi della Fondazione a creare intere buste o faldoni solo per questo 
affare, che da una certa data in poi si troverà quindi separato e indipendente dal 
restante materiale del “Carteggio generale” per quello stesso anno. I riferimenti 
cronologici evidenziano il collegamento logico, benché topograficamente, da un 
certo anno in avanti, i documenti contabili siano disgiunti fisicamente dal “Car- 
teggio generale” e vanno quindi cercati in altro luogo dell’inventario. Inoltre, 
essendo spesso variati negli anni i titoli assegnati ai fascicoli, non è stato possibile 
associare rigidamente una classe (argomento) a un codice alfanumerico sempre 
identico. La descrizione di ogni fascicolo, presente nell Inventario consultabile in 
sede, rende in ogni caso facilitata, per il ricercatore, l’identificazione sommaria 
del contenuto. Inoltre, è caratteristica dell'archivio - rigorosamente mantenuta 
durante il riordino - conservare nella busta relativa all'anno conclusivo le carte 
prodotte per organizzare la più importante attività annuale, la “Festa del Teatro” 
(che è variamente chiamata nei primi anni “Sagra del Teatro” o “Festa in onore di 


256 


nl 


San Genesio”) che era collocata inizialmente a fine agosto (in concomitanza con 
la ricorrenza liturgica di San Genesio martire), poi a fine Luglio e, oggi, impegna 
quasi l’intero mese di Luglio. E noto che la corrispondenza con gli attori, i registi, 
le compagnie, le autorità competenti per i teatri poteva iniziare anche un anno 
prima. Ne consegue, per esempio, che parte della documentazione relativa alla 
VI Festa del teatro 1952, debba essere ricercata sia nella busta relativa all’anno 
1952, che nella busta precedente (V Festa del teatro 1951) nella quale si trovano 
le prime lettere relative alla scelta del testo e della compagnia. Ci piace segnalare 
infine, data l’onerosità dell’operazione, il buon risultato ottenuto con i documen- 
ti della sezione “Copioni”, della sezione “Attività culturali” e delle “Pubblicazioni 
e opuscoli”, la cui descrizione analitica favorisce notevolmente il ricercatore che 
vorrà esplorare queste serie. In particolare, nella sede legale della Fondazione, il 
ricercatore potrà ora consultare la serie completa di tutte le pubblicazioni edite 
dal Dramma, sin dal 1947. Sono state messe a disposizione anche le bozze di 
stampa, ricche di correzioni, annotazioni e proposte di modifica vergate dalla 
penna di don Ruggini o da don Luciano Marrucci. Infine è da notare la mole di 
materiali dagli e audiovisivi in genere in possesso della Fondazione. Con 
le sue oltre 9.000 fotografie (per lo più positivi fotografici a stampa, diapositive 
e fotografie digitali per gli ultimi 12 anni) il fondo fotografico e audiovisivi si 
conferma attualmente un ricchissimo archivio di immagini del 900 nel territorio 
della provincia pisana, secondo soltanto all’archivio fotografico della Soprinten- 
denza dei Beni Culturali per le province di Pisa, Livorno, Lucca e Massa Carrara. 


Struttura fondamentale dell’ Archivio 

Presentiamo ai lettori lo schema di classificazione generale del materiale, con 
l'indicazione delle diverse serie e le buste che contraddistinguono numericamente 
ogni serie. Gli estremi cronologici, ove non specificato, si intendono in conti- 
nuo incremento, per tanto non è stata indicata una data terminale. A breve la 
Fondazione Istituto del Dramma Popolare di San Miniato pubblicherà on-line 
l'inventario analitico della documentazione, mentre è già disponibile in sede lIn- 
ventario a stampa. 


SEZIONE “A” - AMMINISTRAZIONE 


I SERIE: STATUTI E DOCUMENTI FONDATIVI 1950-2003 
Faldone, 1 

II SERIE: ORGANI DIRETTIVI 1974- 
Faldoni e registri, 11 

III SERIE: ELENCO SOCI E LIBRI SOCI 1947- 
Buste e registri, da 1 a 4 

IV SERIE: CARTEGGIO GENERALE 1947- 
Faldoni, da 1 a 78 

V SERIE: CONTABILITA E CONTRIBUTI 1947- 
Buste, da 1 a 42 

VI SERIE: MISCELLANEA 1947-1980 


Buste e faldoni, da 1a 9 


257 


Ma 


rzio Gabbanini, Alexander Di Bartolo 


L'archivio della Fondazione Dramma Popolare 
di San Miniato: un patrimonio della comunità sanminiatese 








258 


SEZIONE “B” - PRODUZIONE TEATRALE E ATTIVITA’ CULTURALI 
I SERIE: COPIONI TEATRALI DI OPERE EDITE E INEDITE 1947- 
Faldoni, da 1 a 36 


II SERIE: LOCANDINE E CREDITI SPETTACOLI 1947- 
Buste, da 1 a 59 

III SERIE: MANIFESTI DELLE RAPPRESENTAZIONI 1947- 
Cassetti, da 1 a 5 

IV SERIE: PUBBLICAZIONI E OPUSCOLI 1947- 
Faldoni e stampe, da 1 a 92 

V SERIE: ATTIVITA CULTURALI 1947- 
Faldoni, da 1 a 3 

VI SERIE: RASSEGNA STAMPA 1947- 


Registri e faldoni, da 1 a 136 
SEZIONE “C” - FONDO FOTOGRAFICO e AUDIOVISIVI 


I SERIE: FOTOGRAFIE 1947- 
Scatole e album, da 1 a 115 

II SERIE: DIAPOSITIVE 1966-1999 
Scatola, 1 


II SERIE: REGISTRAZIONI FILMOGRAFICHE DI SPETTACOLI 1988- 
Scatole, da 1 a 20 


III SERIE: TECHE RAI 1960-2020 
Scatole, da 1 a 3 
IV SERIE: REGISTRAZIONI AUDIO CONVENGNI 1987- 


Scatole, da 1 a 2 


Bibliografia 


BAE (1947), “Cronache accademiche”, A. XIII, N. 24/DICEMBRE, p. 36. 

Casini B. (1967), Inventario dell'Archivio Storico degli Ospedali Riuniti di San 
Miniato, in BAE n.39. 

Casini B. (1968), Inventario dell'Archivio del Conservatorio di Santa Chiara in 
San Miniato, in BAE n.40. 

Casini B. (1972), Inventario dell'Archivio dell’Arciconfraternita di Misericordia di 
San Miniato, in BAE n. 42. 

D’amico S. (1949), Le rappresentazioni dell'Istituto del Dramma Popolare della 
città di San Miniato: a «Yo el Rey» di Bruno Cicognini, in BAE A. XIV, n.25, 
pp. 43-45. 

D’amico S. (1950), La rappresentazione del «Poverello» di Jacques Copeau, in BAE 
A. XV, n.26, pp. 46-48. 

D’amico S. (1951-52), La rappresentazione de «I dialoghi delle Carmelitane» di 
Georges Bernanos, in BAE A. XVI, n. 27 (stampa 1953), pp.55-56. 

D’amico S. (1954-55), Le ra A di «L'aiuola bruciata» di Ugo Betti e di 
«È mezzanotte, Dottor Schweiter!» di Gilbert Cesbron, in BAE A. XVIII, n.29 
(stampa 1956), pp. 42-48. 

D’amico S.(1955), Rinascita del Dramma Sacro, Istituto del Dramma Popolare, 
San Miniato, p. 106. 

Guida generale dell'archivio storico (1993), a cura di L. Carratori et alii, Ministero 
per i beni culturali e ambientali-Ufficio Centrale per i Beni archivistici, ETS, 
Pisa. 

Inventario dell'Archivio Storico (1992), a cura di S. Nannipieri e A. Orlandi, Ac- 
cademia degli Euteleti, San Miniato. 


IDP (1982), Quaderno 3, pp. 26-27, Tipografia Palagini, San Miniato. 

MANCINI A. (1979), La maschera e la grazia. La politica italiana dei cattolici attra- 
verso le Feste del teatro di S. Miniato, Patron, Bologna. 

MoreLLI P. (1994), “Introduzione”, in Processi informativi ed atti criminali dal 
1622 al 1707. Repertorio del Tribunale Ecclesiastico Diocesano di San Miniato, 
Accademia degli Euteleti, San Miniato, pp. 2-3. 

Processi informativi ed atti criminali dal 1622 al 1707. Repertorio del Tribunale 
Ecclesiastico Diocesano di San Miniato (1994) a cura di L. Tognetti, Accademia 
degli Euteleti, San Miniato. 

Rossi c. (2017), La storia del Dramma popolare nelle sue fasi organizzative, Bongi, 
San Miniato. 


259 


Pandolfo Reschi, Atanasio Bimbacci e 
Francesco Corallo al servizio del principe cardinale 
Francesco Maria de Medici: nuovi documenti 





RICCARDO SPINELLI 


Pandolfo Reschi 

Quando si analizzino gli inventari pertinenti alle residenze in uso al principe 
cardinale Francesco Maria de’ Medici, nato nel 1660 dall’unione del granduca 
di Toscana Ferdinando II con la principessa Vittoria della Rovere — così come i 
registri d'amministrazione del porporato —, si rimane colpiti dal numero d’opere 
assegnate al pittore d’origine polacca Pandolfo Reschi (nome italianizzato di Pan- 
doll Resch; Danzica 1643 - Firenze 1696). 

Oggetto di una suggestiva biografia dovuta a Francesco Saverio Baldinucci! 
e di una attenta e ben documentata monografia a firma di Novella Barbolani di 
Montauto — che ne ha fatto conoscere A l'ampio catalogo? — l'artista, dopo 
la giovanile permanenza a Roma, sul finire degli anni sessanta del Seicento si 
spostò a Firenze entrando in contatto con i Gerini, suoi primi committenti? e, 
di lì a qualche anno, dopo un soggiorno nel Nord della penisola, con la corte 
medicea. Soprattutto con il principe Francesco Maria‘ - che lo ebbe a ruolo come 
“Aiutante di Camera d'Onore”, con assegnamento mensile? -, nella cui contabi- 
lità l'artista venne registrato frequentemente con compensi corrispostigli per un 
quindicennio, scalati tra il maggio del 1681 e il giugno del 1696° (compreso il 
rimborso dell’affitto della casa di Firenze)”, alcuni dei quali anche per opere di 
genere meno consueto. 


! E S. Baldinucci, Vite di artisti dei secoli XVII-XVIII, a cura di A. Matteoli, Roma, 1975, pp. 
218-229. 

2 N. Barbolani di Montauto, Pandolfo Reschi, Firenze, 1996. Della stessa studiosa si veda anche Pae- 
saggio e battaglia a Firenze dopo Salvator Rosa, in Firenze Milleseicentoquaranta. Arti, lettere, musica, scienza, 
atti del convegno (Firenze, Kunsthistorisches Institut - Max-Planck Institut, 11-12 dicembre 2008) a cura 
di E. Fumagalli, A. Nova, M. Rossi, Venezia, 2010, pp. 325-348 (in particolare pp. 344-348). 
Baldinucci, op. cit., p. 220. 

Barbolani di Montauto, Pandolfo, cit., pp. 10-12, e Baldinucci, op. cit., p. 221. 

Baldinucci, op. cit., p. 222. 

Barbolani di Montauto, Pandolfo, cit., pp. 174-175, appendice III, n. 4. 

Questo almeno fino al novembre del 1693; cfr. Archivio di Stato di Firenze (ASFi), Congrega- 
zione di Carità di San Giovanni Battista (CCSGB), IV serie, 160, Mandati per l'uscita, 1° luglio 1692- 
30 giugno 1694, anno 1693, n. 80, 14 novembre 1693. Una ricevuta autografa del pittore relativa al 
pagamento dell’affitto di casa per opera del cardinale, datata 31 ottobre 1692, si veda in ivi, 248, Filza 
di ricevute diverse, segnata A, 1679-1692, carte non numerate (cnn), alla data. Alcuni pagamenti corri- 
sposti dal cardinale all'artista sono stati pubblicati anche da G. Palagi, La Villa di Lappeggi e il poeta Gio. 
Batt. Fagiuoli, Firenze, 1876, pp. 22-23 nota 1. 


A uu oa LU 


SI 


261 


Riccardo Spinelli 





Il pittore, per quanto fosse uno specialista di solenni vedute paesaggistiche 
e dinamiche battaglie - settori nei quali si perfezionò, avendo anche un conse- 
guente apprezzamento, al tempo? — non disdegnò di prodursi in opere diverse 
delle quali gli inventari come i referti archivistici danno notizia. Queste sono 
indicative dell’elasticità professionale del Reschi, tuttavia comune a molti degli 
artefici operanti per la corona medicea, spesso impegnati a soddisfare i capricci e 
le originalità della committenza granducale. In questo campo il Reschi non fu da 
meno d’altri artisti preferiti dal principe cardinale Francesco Maria — ad esempio 
Atanasio Bimbacci, di cui diremo in questo testo - alternando la realizzazione di 
dipinti su tela ad altro, come le ricevute autografe e gli inediti riscontri docu- 
mentari che si pubblicano in quest'occasione attestano, riscontri utili a precisare 
anche alcuni dei generici pagamenti già rintracciati ed editi da Barbolani di Mon- 
tauto nel suo volume sul pittore?. 

Dagli inventari della villa di Lappeggi, dal 1670 residenza preferita dal prin- 
cipe, e da quelli dei suoi appartamenti ubicati a Pitti!!, al Poggio Imperiale e 
nel palazzo granducale di Siena!?, siamo a conoscenza della varietà delle opere 
prodotte dall'artista, dunque non solo paesaggi e battaglie (come si diceva) ma 
anche numerose tele con animali”? - di questo specifico filone, ad oggi, sono stati 
rintracciati soltanto pochissimi dipinti certi!‘ -, oltre che paracamini, mostre d’o- 





8 Ne fanno fede le parole di Baldinucci, op. cit., passim. 


° Cfr. Barbolani di Montauto, Pandolfo, cit., pp. 174-175, appendice III, n. 4. 

10 Si vedano in ASFi, Mediceo del Principato (MdP), 5872, vol. 3, Inventario di tutti i mobili, 
che il Serenissimo, e Reverendissimo Signor Principe Cardinale Francesco Maria di Toscana tiene nella sua 
villa di Lappeggi (...) fatto nel mese di novembre 1696 (edito, per quanto attiene alle opere di Reschi, da 
Barbolani di Montauto, Pandolfo, cit., pp. 169-170, appendice II, n. 1/b); ivi, CCSGB, IV serie, 653, 
Inventario di tutte le robe ritrovate nella Villa di Lappeggio, Botteghe e Giardini, attenenti al già Serenis- 
simo Principe Francesco Maria di gloriosa memoria 1710 ab Inc; ivi, CCSGB, IV serie, 652, Inventario 
dell'infrascritte robe ritrovate nella villa di Lappeggi del Serenissimo Principe Francesco Maria di Toscana di 
gloriosa memoria il di 15 maggio prossimo passato. 

!! Esistono tre inventari dei beni del cardinale a Palazzo Pitti: un primo, parziale - ASFi, MdP 
5871, E Inventario Di Masserizie, e Mobili, e Suppellettili che si ritrovano nell’Appartamento del Serenissi- 
mo e Reverendissimo Signore Cardinale de Medici e prima —, ricorda un solo lavoro riferito al pennello del 
Reschi, “Quattro pezzi di indiana dipinti a tempera” (cfr. Barbolani di Montauto, Pandolfo, cit., p. 170, 
Appendice II, n. 2); un secondo, ugualmente poco indicativo (ASFi, CCSGB, IV serie, 654, Inventario 
delle masserizie e altro attinenti al Serenissimo Principe Francesco Maria di Toscana di gloriosa memoria 
ritrovate ne suoi appartamenti del Palazzo de Pitti, tanto a terreno, che sopra), rileva soltanto due orologi 
con la mostra dipinta da Pandolfo (ivi, c. 5v, nn. 62, 91, entrambi nella “camera da letto a terreno”); 
un terzo, più corposo, redatto nel maggio del 1711 — ivi, 655, Inventario dell’Appartamento del Palazzo 
de Pitti, e altro a cura del Guardaroba Faini, 15 maggio 1711 -, informa invece della presenza di ben 
venticinque opere riferite all’artista, divise tra mostre di orologi dipinte (tre; nn. 9, 152, 153), le tele 
con i “Quattro elementi” (n. 251), Battaglie (nn. 296, 306, 310, 314), Paesini (n. 303), acquerelli e tele 
con animali (nn. 431, 432, 433). 

12 Nell’inventario della residenza [ASFi, CCSGB, IV serie, 652, Inventario dell'infrascritte robe, 
cit., fascicoletto intitolato: Inventario delle robe attinenti al già Ser.mo Principe Francesco Maria di Tosca- 
na di gloriosa memoria, ritrovate in essere il di 15 maggio (1711) nel palazzo di Siena; cc. 10 numerate], 
avaro di attribuzioni, non compaiono opere assegnate al pittore a fronte delle tante che dai mandati di 
pagamento al Reschi sappiamo invece destinate a quell’edificio. 

13 Cfr. anche Baldinucci, op. cit., passim. 

14 Cfr. Barbolani di Montauto, Pandolfo, cit., p. 107, nn. 66-67. Dell’artista si ricorda anche Pin- 


262 


Pandolfo Reschi, Atanasio Bimbacci e Francesco Corallo 
al servizio del principe cardinale Francesco Maria de’ Medici: nuovi documenti 





rologi, soggetti allegorici, “indiane” (tele di lino, poi dipinte) e altro. 
Esaminando tali liste, infatti, veniamo a sapere — ad esempio da un inventario 
di Lappeggi del 1696, il primo stilato dopo il passaggio della residenza al principe 
cardinale — che le opere registrate al pennello di Pandolfo in villa come nella li- 
mitrofa fattoria erano ben cinquantanove, divise in quei ‘generi’ nei quali l'artista 
ebbe modo d’affermarsi. Sulle pareti di questa amena residenza presso Grassina 
facevano bella mostra numerose tele con “Paesi”, di varie dimensioni, alcune di 
formato rotondo; “Battaglie” , quattro delle quali copia da Borgognone!9; le 
celebri “Vedute di Lappeggi e di Fontebranda' oggi in collezione Terruzzi!” (ma- 
gnificate dal Baldinucci)!*; le raffigurazioni dei “Quattro Elementi”; due scene 
d’assassinio”® ma vi si censivano anche uno “stipo di pero” decorato con episodi di 
“battaglie”?! e una serie di “paracamini” dipinti, dislociti nei vari ambienti della 
villa. Nell’annessa fattoria, invece, si ricordavano di mano di Pandolfo undici 
tele con animali, una scena di caccia al lupo, due scene con “capre e uomini”. 
Nelle successive registrazioni del patrimonio artistico del principe conservato 
in questa villa predisposte nel febbraio del 1711, dopo la sua morte, dalla Con- 
gregazione di Carità di San Giovanni Battista - erede di buona parte delle sostan- 
ze del porporato”* -, in previsione della loro alienazione, le opere date a Pandolfo 





tervento operato sugli specchi dipinti nella Galleria di Luca Giordano in palazzo Medici Riccardi, per la 
parte spettante agli animali raffigurati; ivi, pp. 105-106, n. 65. Per le tele con questi soggetti conservate 
al Poggio a Caiano, cfr. S. Casciu, in Villa Medicea di Poggio a Caiano. Museo della Natura Morta. Ca- 
talogo dei dipinti, a cura di S. Casciu, Livorno, 2009, p. 344, n. 138, e C. Profeti, ivi, p. 346, n. 139. 

5 ASFi, MdP 5872, vol. 3, Inventario di tutti i mobili, cit., rispettivamente ai numeri 184-185, 
195-198, 411-412, 518-519, 543-544 (“Paesi”); 108-111 (“Paesini”); 91-95 (“Paesini” di formato ro- 
tondo). L’inventario, per la parte delle opere di Reschi, è pubblicato da Barbolani di Montauto, Pandol- 
fo, cit., pp. 169-170, appendice II/b. Per la probabile identificazione di uno di questi dipinti di formato 
rotondo, cfr. ivi, p. 104, n. 60. 

16 ASFi, MdP 5872, vol. 3, Inventario di tutti i mobili, cit., nn. 182-183; 285-288, queste “alte 
braccia 3 1⁄2 larghe braccia 4 2/3” (cm. 204 x 272 ca.). Il ricordo di tali opere è anche in Baldinucci, op. 
cit., p. 223, che le dice passate con la vendita della collezione alla famiglia Riccardi. Su queste cfr. anche 
Barbolani di Montauto, Paesaggio e battaglia, cit., p. 346 e la nota 30 in questo mio testo. 

1 ASFi, MdP 58772, vol. 3, Inventario di tutti i mobili, cit., nn. 106-107; su queste, cfr. Barbolani 
di Montauto, Pandolfo, cit., pp. 79-80, nn. 27-28; Barbolani di Montauto, in Paesaggio e battaglia, cit., 
p. 348. 

18. Baldinucci, op. cit., p. 221. 

1 ASFi, MdP 5872, vol. 3, Inventario di tutti i mobili, cit., nn. 178-181. 

20. Ivi, n. 264, alte “braccia 1 4, largo braccia 1 è” (cm. 71 x 85,5 ca., una delle quali ricordata 
dal Baldinucci (op. cit., p. 222), passata con la vendita alla famiglia Marsuppini. 

2! Ivi, c. 10r (senza numero d’inventario). 

2 Ivi, cc. 2v n. 21, 16r n. 192, 22r-23v n. 264, 34v n. 480, 39v n. 571. 

2. Ivi, Fattoria (da c. 82), nn. 6-13, 53-59. 

Dai documenti d’archivio sappiamo che gli eredi principali delle sostanze del principe cardinale 
furono due: il nipote Giovanni Gastone, futuro e ultimo granduca di Toscana, e la Congregazione di 
Carità di San Giovanni Battista di Firenze. Si veda la documentazione relativa, con le clausole testa- 
mentarie, in Archivio Storico del Comune di Firenze (ASCFi), Ente Comunale Assistenza (ECA), n. 3, 
Congregazione di Carità di San Giovanni Battista, Libro dei Decreti dal 1709 al 1712 della Congrega- 
zione generale e dei dodici deputati, cc. 82-85. Su questo, per una disamina più dettagliata, cfr. anche R. 
Spinelli, Nascita d'una collezione: il principe cardinale Francesco Maria de Medici tra Lappeggi, Firenze, 
Siena e Roma (1672-1700), in corso di pubblicazione. Al granduca regnante, il fratello maggiore Co- 


263 


Riccardo Spinelli 





risultavano quasi dimezzate”, ridotte in conseguenza di spostamenti operati in 
primavera in altre sedi”, ad esempio in Palazzo Pitti. Con certezza nel febbraio e, 
per alcune opere, ancora nel maggio di quell’anno, si ricordavano presenti nella 
villa di Grassina le vedute di Fontebranda e di Lappeggi””, le due tele con scene di 
assassinio”, la coppia con mandria di cavalli, capre e uomini già nella fattoria”, 
alcuni ‘Paesi’ - tuttavia generici nella descrizione per essere identificati con certez- 
za - le quattro ‘Battaglie’ di grandi dimensioni, copia da Courtois”. 

Anche nella reggia fiorentina si censivano numerose opere di Pandolfo, nello 
specifico due spettacolari orologi con mostra dipinta dall’artista?! e otto acquarel- 
li con “Vedute di più grandezze”? tra i quali è suggestivo pensare vi fossero le due 
superbe tempere su tela con la ‘Pescaia di Rovezzano' e l'Abbazia di San Galgano” 
— tra i capolavori del Nostro - oggi nella collezione della Banca Popolare di Vicen- 
za, già in casa Guadagni, passate a questa famiglia (secondo la buona intuizione 





simo II, andarono per legato solo alcuni dipinti della collezione del principe, elencati nell'inventario 
di Lappeggi del febbraio 1711: si vedano in ASFi, CCSGB, IV serie, 653, Inventario di tutte le robe 
ritrovate, cit., nn. 481 (‘Autoritratto di Leonardo da Vinci), 482 (‘San Girolamo’ dello Spagnoletto), 
483 (‘Ritratto di Paolo III’ di Raffaello), 511 (‘Duca d’Urbino in culla di Barocci), 529 (‘San Pietro in 
carcere di Federico Zuccari), 660 (Madonna, miniatura di padre Ippolito Galantini), 745 (‘Sposalizio 
mistico di Santa Caterina del Gherardini), 747 (‘San Ranieri’ del Morandi), 770 (‘Vergine Santissima 
con Gesù Bambino in collo’ di Carlo Dolci). Su questa donazione cfr. adesso R. Spinelli, Cosimo II e 
l'eredità del cardinale Francesco Maria de’ Medici: nuovi documenti e riflessioni sulla donazione del prin- 
cipe al fratello, granduca di Toscana, in corso di pubblicazione in un volume di scritti in onore di Lucia 
Tongiorgi Tomasi. 

25 Nell’inventario del febbraio 1711 ne sono ricordate, nel complesso, trentuno: ASFi, CCSGB, 
IV serie, 653, Inventario di tutte le robe ritrovate, cit., nn. 11 (Stipo con “oriolo in mezzo” e “mostra di 
paesino”), 37 (Paracamino dipinto a tempera con “una seggiola e una bertuccia”), 39 (Gallina gottarda), 
56 (Caccia al lupo), 75 (Paesino con figure), 214-217 (i Quattro Elementi), 618-619 (Assassinamenti), 
624 (Mandria a cavallo), 625 (Capre con alcune figurine), 628 (Veduta della villa di Lappeggi, in anti- 
co), 629 (Veduta di Fontebranda), 631 (Veduta di un paese con una chiesa e alcune figurine), 632 (San 
Girolamo nel deserto con due leoni), 652, 653 (Due “orologi grandi di pero nero a cassettone”, con 
mostra dipinta), 687, 688 (Paesi con figurine e animali), 755 (Paese e una donna che fila), 756 (Paese 
con un uomo a cavallo), 758-761 (Battaglie), 785 (Paracamino dipinto con una Veduta di Nettuno, fat- 
to a tempera), 836 (Diversi uccelli), 863 (Quattro indiane a libro, in ventidue pezzi, dipinte a guazzo), 
1025 (Veduta di Nettuno, a tempera). 

26 Nel successivo inventario della villa, del maggio del 1711, le opere assegnate all’artista risul- 
tavano ancora ridotte; cfr. ivi, 652, Inventario dell’infrascritte robe ritrovate, cit., nn. 585, 586 (Assassi- 
namento; vecchio numero 618, 619), 590 (Mandria di cavalle, v.n. 624), 591 (Mandria di capre, v.n. 
625), 594 (Veduta della villa di Lappeggi, in antico, v.n. 628), 594 (Veduta di Fontebranda, v.n. 629), 
596 (Paese con veduta di una chiesa, v.n. 631), 597 (San Girolamo nel deserto con due leoni, v.n. 632), 
640 (Due paesi con figurine e animali, v.n. 687, 688), 866 (Veduta di Nettuno, a tempera, v.n. 1025). 

27 Ivi, 653, Inventario di tutte le robe ritrovate, cit., nn. 628, 629 (cfr. anche ivi, 652, Inventario 
dell'infrascritte robe ritrovate, cit., n. 594). 

28. Ivi, 653, Inventario di tutte le robe ritrovate, cit., nn. 618, 619 (cfr. anche ivi, 652, Inventario 
dell'infrascritte robe ritrovate, cit., nn. 585, 586). 

2 Ivi, 653, Inventario di tutte le robe ritrovate, cit., nn. 624, 625 (cfr. anche ivi, 652, Inventario 
dell'infrascritte robe ritrovate, cit., nn. 590, 591). 

30. Ivi, 653, Inventario di tutte le robe ritrovate, cit., c. 58v, nn. 758-761; cfr anche nota 16 in 
questo testo. 

31 Ivi, 654, Inventario delle masserizie e altro, cit., c. 5v, nn. 62, 91. 

32 Ivi, c. 38v (in Guardaroba), n. 526. 


264 


Pandolfo Reschi, Atanasio Bimbacci e Francesco Corallo 
al servizio del principe cardinale Francesco Maria de’ Medici: nuovi documenti 





di Novella Barbolani di Montauto) con la vendita di gran parte della raccolta 
del principe”: l'ipotesi avanzata a suo tempo dalla studiosa è più che probabile, 
dal momento che altri acquisti operati da questa casata di beni già di proprietà 
del cardinale sono oggi documentati nella persona di Donato Maria Guadagni 
che nel luglio del 1711 comprava opere di pittura (antica come contemporanea: 
nello specifico due tele di Livio Mehus, la ‘Maddalena nel deserto’ e ‘San Ranieri 
piangente al sepolcro di Cristo’, e una di Volterrano con ‘San Giovanni Battista 
nel deserto’), stipi e mobiletti intarsiati in avorio e tartaruga, piani di tavolo in 
marmi policromi, “segreterie d’ebano fiorite di madreperla”, disegni, vasi in por- 
cellana, armi turche, archibugi, orologi, sei “indiane di Pandolfo Reschi, fattone 
quadri” , come in quella di Ottavio di Pierantonio che nei primi anni venti del 
secolo s'assicurava sette quadretti “con figure, cavati dall’Olandese” provenienti 
dalla collezione del cardinale”. 

Sempre a Pitti, nella più circostanziata registrazione dell’arredo artistico con- 
servato nell’appartamento del porporato, Ti 15 maggio 1711%, le opere riferite 
al Reschi erano ben più numerose (ventuno) e tra queste figuravano ancora i due 
orologi sopra detti, uno dei quali, quello con “figurine a piedi, e a cavallo” dipin- 
te nella mostra”, inventariato, in precedenza, anche a Lappeggi*, e le tele con i 
“Quattro Elementi”, già in villa e poi trasferite a Pitti. Dipinti, quest'ultimi, 
che inediti riscontri documentari consentono di datare oggi ai mesi compresi 
tra il luglio del 1691 e il novembre del 1692, e di precisarne meglio i soggetti di 
almeno due, segnatamente raffigurazioni dell'Aria’ (figurata per un “accampa- 
mento”) e del ‘Fuoco’ (evocato invece da una scena di “saccheggiamento”), tele di 
notevoli dimensioni (braccia 3 e a; cm. 204 ca.) per le quali Toi aveva avuto 
anticipi già a partire dal luglio del ‘91%. Sembra dunque appurato che i due di- 
pinti siano quelli ricordati da Francesco Saverio Baldinucci in casa Riccardi (oggi 
a Philadelphia e in una collezione privata), lì transitati con la vendita dei beni del 
principe cardinale, facendo fede sia la descrizione inventariale — per quanto tele- 
grafica — sia, soprattutto, le misure indicate dall’inventario (cm. 204 di larghezza) 
proprie delle due opere sopra citate’. 





8. Sulle due tele, cfr. Barbolani di Montauto, Pandolfo, cit., pp. 80-82, nn. 29-30; N. Barbolani 
di Montauto, in Palazzo degli Alberti. Le collezioni d’arte della Cariprato, a cura di A. Paolucci, Ginevra- 
Milano, 2004, p. 134, nn. 58-59. 

8 Su questo, cfr. R. Spinelli, La committenza artistica e il collezionismo di Donato Maria Guadagni 
(1641-1718) nella Firenze di fine Seicento: il Volterrano, Giovan Battista Foggini, Francesco Corallo, Pietro 
Dandini e altri, in “Bollettino della Accademia degli Euteleti della città di San Miniato”, n. 81, 2014, 
pp. 211, 234-235. 

8. Su questo, cfr. R. Spinelli, 7 Guadagni di Firenze. Mecenatismo e committenza artistica del ramo 
della famiglia detto “della Nunziata” (1620 -1770), in corso di pubblicazione. 

36 ASFi, CCSGB, IV serie, 655, Inventario dell’Appartamento del Palazzo de Pitti, cit., passim. 

9 Ivi, c. 13v, n. 152. 

Ivi, 653, Inventario di tutte le robe ritrovate, cit., camera n. 37, c. 52v, n. 652. 

Ivi, 655, Inventario dell’Appartamento del Palazzo de Pitti, cit., c. 21v, n. 251. 

Ivi, 653, Inventario di tutte le robe ritrovate, cit., camera n. 15, c. 11v, nn. 214-217. 

Ivi, 160, Mandati per l'uscita, cit., anno 1692, n. 104, 20 novembre 1692, con acconti registrati 
anche in data 1° luglio, 10 ottobre, 22 dicembre 1691 e il saldo di 150 ducati il 28 novembre 1692, 
come da ricevuta autografa di Reschi. 

4 La proposta, già avanzata da Novella Barbolani di Montauto, Paesaggio e battaglia, cit., p. 346, 


265 


Riccardo Spinelli 





Altri dipinti del maestro polacco trasferiti nella reggia fiorentina dalla villa 
presso Grassina e lì collocati furono poi le quattro ‘Battaglie’ già ricordate, che 
oggi sappiamo essere state realizzate a tempera, corredate di cornici intagliate con 
trofei e armi, dorate dal Santini nell'ottobre del 16878; due con “Paesini”, uno 
con “donna che fila”, il secondo con ‘uomo a cavallo” due tele, la prima con 
una “Canina”, la seconda con un “Uccello”. 

Infine, nel ‘Casino’ di Lilliano, la depandance della villa fatta edificare e de- 
corare da Francesco Maria, usata sia come ritiro privato, sia utilizzata per il rice- 
vimento e l’ospitalità di personaggi rilevanti, si trovavano altre opere del Reschi 
inserite in un contesto che vedeva la presenza, soprattutto, di tele a soggetto flo- 
reale o animale, quest'ultime evocative, stando alle descrizioni che ne sono date, 
di analoghi dipinti di Bartolomeo Bimbi ben presenti nella collezione del fratello, 
il granduca Cosimo III". 

AI pennello di Pandolfo si registravano infatti sette tele con animali“: due, di 
notevoli dimensioni (“alte braccia 4 in circa”; cm. 235 ca.), con dei “Cervi” (pa- 
gate al pittore nel giugno del 1693); una con un “Grotto marino” (una specie di 
pellicano) e altri uccelli acquatici - oggi documentata al giugno del 1688” -; due 
con un “Fagiano e una starna” e con “Due germani” (per questa Giuseppe Man- 
giacani aveva fornito il supporto all’artista nel mese di marzo di quell’anno)”; 
altri due con un Germano volante tra le canne e un altro uccello “da acqua”, il 
secondo con un germano posato in acqua e altri volatili alle quali non è escluso 
si possano riferire dei pagamenti rilasciati dalla contabilità di Francesco Maria al 
pittore negli anni 1687 e 1693. 

In questa si rintracciano poi altri compensi per opere di committenza princi- 
pesca, non facilmente collegabili a dipinti ricordati negli inventari del porporato, 
tanto più che i rapporti tra Francesco Maria e il Reschi ebbero inizio, come 





trova oggi riscontro anche nell’identità di misure. 

4. ASFi, CCSGB, IV serie, 158, Filza di mandati per l'uscita, segnata C/2, 1° luglio 1686-30 giu- 
gno 1689, anno 1688, n. 26. 

4 Ivi, 655, Inventario dell’Appartamento del Palazzo de Pitti, cit., c. 25r, n. 303 (ivi, 653, Inventa- 
rio di tutte le robe ritrovate, cit., cc. 58r-v, nn. 755-756). 

5. Ivi, 655 Inventario dell’Appartamento del Palazzo de Pitti, cit., c. 37v, n. 432. 

46 Molti dei quali conservati nel Museo della Natura Morta della Villa di Poggio a Caiano; su 
questi, cfr. Villa Medicea di Poggio a Caiano, cit., pp. 56, 68, 100, 102, 112, 116-122, 126-138, 142- 
148, 156-164 (con bibliografia precedente). 

4. ASFi, MdP 5872, vol. 3, Inventario di tutti i mobili, cit., cc. 14r-15v; cfr. Barbolani di Montau- 
to, Pandolfo, cit., p. 170, appendice II, n. 1/c. 

48 Ivi, CCSGB, IV serie, 160, Mandati per l'uscita, cit., anno 1692, n. 221, 2 giugno 1693, conto 
di Pandolfo Reschi per “due quadri di braccia 4 e 2 dipintovi alcuni cervi” (ricevuta autografa del 9 
giugno 1693, per 60 ducati). Le tele compaiono negli inventari della residenza; ivi, MdP, 5872, vol. 3, 
Inventario di tutti i mobili, cit., c. 85r, n. 55; cfr. Barbolani di Montauto, Pandolfo, cit., p. 170, appen- 
dice II, n. 1/b. 

4 ASFi, CCSGB, IV serie, 158, Filza di mandati per l'uscita, cit., anno 1687, n. 261, 3 giugno 
1688, con distinta autografa e ricevuta del compenso di 45 ducati. 

50 Ivi, 159, Filza di mandati per l'uscita, segnata D/1, luglio 1689 — giugno 1692, anno 1689, n. 
100, 5 novembre 1689, conto del Mangiacani per vari lavori, tra i quali, 4 marzo 1688 “una tela data al 
Reschi per fare animali, una simile per dipingere due germani”; 18 giugno 1688 “una tela per dipingere 
animali acquatici grandi al Reschi”. 


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Pandolfo Reschi, Atanasio Bimbacci e Francesco Corallo 
al servizio del principe cardinale Francesco Maria de’ Medici: nuovi documenti 





certificato, ben presto, già nella primavera del 1681 con l’acquisto, da parte del 
cadetto mediceo - allora poco più che ventenne, ancora sotto la tutela mater- 
na: era infatti Vittoria ad anticipare le sue spese, vidimando le fatture rimesse 
dall’amministrazione del secondogenito -, d'un primo “quadretto” di soggetto 
non meglio specificato?!. A questo seguiva, il 28 maggio 1685, il pagamento, per 
la codda cifra di 150 ducati, per la “valuta di quattro quadri”, anch'essi 
non precisati nel soggetto ma identificabili, quasi sicuramente, con le “Quattro 
battaglie” di cui si è detto, incorniciate nell’ottobre del 1687°, che sappiamo 
presenti nell'inventario della villa del 1696, ancora a Lappeggi nel 1711% e poi in 
Palazzo Pitti”, in previsione della vendita. 

Nel mese di aprile del 1686 l’amministrazione del principe corrispondeva 
all’artista un pagamento di trenta ducati? che oggi siamo in grado di collegare 
alla fornitura di “quattro paesini” mandati a Siena, di due tele “di braccia dae” 
inviate a Pisa, di altre due tele di “braccia tre”, d’un libro di stampe”, mentre nel 
settembre di quell’anno il compenso d’altri trentacinque ducati riguardava tre 
dipinti con ‘Paesini’ destinati sempre a Siena”. Un conto del doratore Santini 
dell'ottobre di quell’anno documenta poi la fattura d’alcune cornici per altre 
“Battaglie” dovute al pittore polacco, questa volta destinate alla Fonderia? ma 
non facili da rintracciare negli inventari della villa. 

Nel corso del 1687 alcuni compensi documentano poi altre opere del Reschi 
eseguite per il cardinale: nel mese di marzo, il giorno 18, Pandolfo rilasciava una 
ricevuta autografa di trentanove scudi per aver dipinto a Siena (nell’arco di venti 
giorni) un quadro con uccelli “di braccia 1 e ⁄2°%; al febbraio di quell’anno si 
registrava invece il pagamento corrisposto a Giuseppe Mangiacani per la forni- 
tura d'un “telaio grande” per un disegno di Pandolfo raffigurante una “Veduta 





51 


Cfr. Barbolani di Montauto, Pandolfo, cit., p. 174, appendice III, 4/a. Lo stesso anche in uni- 
nedita registrazione: ASFi, CCSGB, IV serie, 155, Uscite, 1680 - 1681, anno 1681, n. 76, 17 maggio 
1681 (con ricevuta autografa del pittore del pagamento di 12 ducati). 

5. ASFi, CCSGB, IV serie, 157, Filza di mandati per l'uscita, 1° luglio 1683 - 30 giugno 1686, 
anno 1684 (pacco secondo), n. 195, 28 maggio 1685, 150 ducati a “Pandolfo Reschi pittore per valuta 
di quattro quadri comprati per nostro servizio” (con ricevuta autografa del pittore, datata 29 maggio). 

5. Cfr. nota 16. 

54 Cfr. nota 30. 

5. Ivi, 655, Inventario dell’Appartamento del Palazzo de Pitti, cit., cc. 24v, n. 296; 25r, n. 306; 25v, 
nn. 310, 314. 

5% Cfr. Barbolani di Montauto, Pandolfo, cit., p, 174, appendice III, n. 4/b. 

97 ASFi, CCSGB, IV serie, 157, Filza di mandati per l'uscita, cit., anno 1685, n. 165, 12 aprile 
1686. 

5. Barbolani di Montauto, Pandolfo, cit., p. 174. Il pagamento, con la specifica dei soggetti e con 
la firma autografa dell'artista, si veda anche in ASFi, CCSGB, IV serie, 158, Filza di mandati per l'uscita, 
cit., anno 1686, n. 84, 20 settembre 1686. 

9. ASFi, CCSGB, IV serie, 158, Filza di mandati per l'uscita, cit., anno 1687, n. 166, 19 ottobre 
1686. Sulla fonderia e sul suo allestimento si veda adesso R. Spinelli, 7 giardini di Lappeggi, di Lilliano 
e la pittura di fiori’ nelle collezioni del principe cardinale Francesco Maria de Medici, in “Bollettino della 
Accademia degli Euteleti della città di San Miniato”, n. 86, 2019, pp. 291-319. 

© ASFIi, CCSGB, IV serie, 248, Filza di ricevute diverse, cit., cnn, alla data 18 marzo 1687. 


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Riccardo Spinelli 


Pandolfo Reschi, Atanasio Bimbacci e Francesco Corallo 
al servizio del principe cardinale Francesco Maria de’ Medici: nuovi documenti 








del palazzo di Nettuno”, ricordato in villa‘ e pagato al pittore il 3 giugno 1688 
assieme ad altre tele, nello specifico, come attesta l’inedita ricevuta di pagamen- 
to, un “quadro con due Germani” e un secondo con un “Grotto marino e una 
Cicogna” - dipinti per i quali il ricordato Mangiacani aveva servito delle tele 
all'artista nel mese di marzo -, il primo dei quali forse ricordato nell’inventario 
di Lappeggi del 171166. 

Un successivo documento dell’ottobre ‘87, vidimato dal Reschi, c'informa 
inoltre che il generico pagamento - già noto - corrispostogli l’ultimo giorno di 
quel mese” era relativo a dei lavori fatti in villa, nello specifico per A pittura 
di camini in sei stanze di Lappeggi e per un “quadretto tondo” mandato a Sie- 
na, mentre nell’agosto del 1688 l'artista si produceva ancora nel decoro della 
residenza presso Grassina, stavolta della Libreria per la quale riceveva delle tele 
dal Mangiacani® - poi dipinte e saldategli centododici ducati il 9 novembre di 
quell’anno” - sulle quali Pandolfo realizzava un fregio con una “Veduta del pa- 
lazzo e Castello di Nettuno” e due soprapporte”!. 

Alcuni anni dopo, nel corso del 1692, si registrano ulteriori, importanti com- 
missioni cardinalizie al pittore, oggi attestate da riscontri documentari più spe- 
cifici a fronte di quelli generici già pubblicati”?: nel settembre di quell’anno, ad 
esempio, l'artista consegnava un quadretto raffigurante il “Paretaio di Lappeggi” 
— una zona della tenuta attrezzata per la caccia agli uccelli con le reti - che Fran- 
cesco Maria inviava a Diisseldorf, alla nipote Anna Maria Luisa; una tela con 
“un’anatra turca e altri due uccelli”; una mostra d'orologio e alcuni vetri dipinti 
per una “lanterna magica”. 


6! Ivi, 158, Filza di mandati, cit., anno 1687, n. 162, 4 novembre 1687, conto di Giuseppe Man- 
giacani per mesticatura di più tele servite per dei dipinti; ivi, 3 marzo 1687 “un telaio grande per un 
disegno di Pandolfo Reschi con il palazzo di Nettuno”. 

6 Ivi, 652, Inventario dell’infrascritte robe, cit., c. 60r, n. 866. 

& Barbolani di Montauto, Pandolfo, cit., p. 174, appendice NI, 4/c, alla data. La ‘Veduta di 
Nettuno’ è probabilmente quella ricordata dal Baldinucci (op. cit., p. 222), fatta in conseguenza della 
trasferta romana di Pandolfo nell’occasione della concessione del galero cardinalizio a Francesco Maria, 
dipinto poi passato — con il suo pendant, la 'Villa Costaguti' — ai Marsuppini. 

6 ASFi, CCSGB, IV serie, 158, Filza di mandati per l'uscita, cit., anno 1688, n. 261, 3 giugno 
1688. 

6. Ivi, 159, Filza di mandati per l'uscita, cit., anno 1689, n. 100, 5 novembre 1689, conto del 
Mangiacani per vari lavori, tra i quali, 4 marzo 1688 “una tela data al Reschi per fare animali, una simile 
per dipingere due germani”; 18 giugno 1688 “una tela per dipingere animali acquatici grandi al Reschi”, 
“due tele per Paesaggi al Reschi”; al “Reschi, per tele per la libreria”. 

6 Una tela con “Due germani”, tuttavia attribuita a “un pisano”, di “braccia 1 e 5/6 x 2 e 1/6”, la 
si veda in ivi, 653, Inventario di tutte le robe ritrovate, cit., c. 4r, prima camera sul salotto n. 5, n. 77. 

4. Barbolani di Montauto, Pandolfo, cit., p. 174, appendice III n. 4/c. 

68 ASFi, CCSGB, IV serie, 158, Filza di mandati per l'uscita, cit., anno 1687, n. 133. 

© Ivi, anno 1688, n. 51, 28 agosto 1688. 

7° Barbolani di Montauto, Pandolfo, cit., p. 174, appendice III, n. 4/d. 

7! ASFi, CCSGB, IV serie, 158, Filza di mandati per l'uscita, cit., anno 1688, n. 155, 9 novembre 
1688. 

72 Cfr. Barbolani di Montauto, Pandolfo, cit., p. 174, appendice III, n. 4/d. 

73 ASFi, CCSGB, IV serie, 160, Mandati per l'uscita, cit., anno 1692, n. 58, per un compenso 
globale di 30 ducati. Una seconda tela con la “Caccia del Paretaio”, data alla “scuola del Dandini”, è 
ricordata in ivi, 653, Inventario di tutte le robe ritrovate, cit., c. 4r, n. 78, a pendant con una “Caccia della 


268 


Gli anni a seguire vedono l'artista prodursi ancora in dipinti con animali ri- 
chiestigli da Francesco Maria: nel luglio del 1693 si licenziavano un dipinto con 
un “Piviere e un germano in volo” e un altro raffigurante un “Grotto marino” — 
una seconda tela con questo particolare volatile, dopo quella prodotta nel 16887 
-, ma anche opere quali quella con uno “Sbarco trattenuto da terrazzani” di gran- 
di dimensioni” - evidentemente una marina con bastimento - per le quali i pit- 
tore aveva ricevuti i supporti dal già ricordato Mangiacani nel marzo del 16937. 

L'ultimo pagamento noto corrisposto dalla contabilità del cardinale al pit- 
tore per delle opere è, a mia conoscenza, quello dell’8 giugno del 1694 relativo 
al compenso per un “Paese con pastori che guardano il bestiame” e per un San 
Girolamo, uno dei pochi dipinti a tema sacro prodotto dal polacco per il suo più 
illustre committente?8. 

Tuttavia, anche in seguito si rintracciano altre citazioni dell’artista nella con- 
tabilità cardinalizia: ad esempio, nel 1695 si procedeva alla doratura d’un suo 
gruppo di dipinti (ben dodici), di piccole dimensioni”, mentre nel 1697 i do- 
ratori Casetti e Santini intervenivano su altre opere del maestro, nello specifico 
dorando la cornice d’un acquarello con una “Veduta di Lappeggi”, di due “Paesi” 
e di altri sei acquerelli destinati alla Fonderia che il principe cardinale andava or- 
ganizzando presso la villa®, una struttura a lui particolarmente cara, edificata per 
dare sfogo alla sua passione per la manipolazione delle specie vegetali*!. 


Atanasio Bimbacci 

Un altro pittore particolarmente versatile, attivo per il cardinale in quegli 
anni, fu Atanasio Bimbacci (1650-1734), artista mediceo impiegato ripetuta- 
mente da Vittoria della Rovere come dal Gran Principe Ferdinando, responsabile, 
a Lappeggi come a Lilliano, del decoro d’interi ambienti alcuni dei quali a sogget- 
to floreale. Il Bimbacci, personalità oggi poco nota, ben presente nella contabilità 





civetta” (ivi, c. 4v, n. 79). 

7 Ivi, 160, Mandati per l'uscita, cit., anno 1693, n. 12, 16 luglio 1693, conto di Pandolfo Reschi 
per aver dipinto una tela con un Piviere e un germano che vola e per aver finito in quadro grande con 
un “Grotto marino” (con ricevuta autografa, alla data). Il pagamento, tuttavia generico, è anche in 
Barbolani di Montauto, Pandolfo, cit., p. 174, appendice III, n. 4/d, alla data. 

Cfr. nota 49. 

76 ASFi, CCSGB, IV serie, 160, Mandati per l'uscita, anno 1693, cit., n. 97, 15 dicembre 1693, 
conto di Pandolfo Reschi pittore per un quadro “di braccia 3 e 12” che rappresenta uno “Sbarco trat- 
tenuto da Terrazzani” (ducati 80, con ricevuta autografa, alla data). Il pagamento, tuttavia generico, è 
anche in Barbolani di Montauto, Pandolfo, cit., p. 174, appendice III, n. 4/d, alla data. 

7 ASFi, CCSGB, IV serie, 160, Mandati per l'uscita, cit., anno 1694, n. 159, 20 marzo 1694, 
conto del Mangiacani per vari lavori tra i quali, il 21 aprile, una tela per il Reschi; il 18 maggio una tela 
al Reschi “lunga cinque braccia e larga tre”; il 18 luglio per due tele al Reschi. 

78 Ivi, 290, Giornale della Dispensa del Serenissimo Principe Francesco Maria di Toscana, segnato B, 
1686-1693, 8 giugno 1694, ricevuta del Reschi per due quadri fatti per Lappeggi, un “Paese con pastori 
che guardano il bestiame”, un “San Girolamo”, con 32 scudi di compenso, come da ricevuta autografa. 
Il pagamento, tuttavia generico, è anche in Barbolani di Montauto, Pandolfo, cit., p. 175, appendice III, 
n. 4/d, alla data. 

7. Ivi, 247, Ricevute diverse, 1679-1692, inserto 263 (conti del doratore Giovanni Santini), n. 2. 

80 Ivi, inserto 331, conti dei doratori Casetti e Santini, anno 1697. 


8! Su questo si veda R. Spinelli, 7 giardini di Lappeggi, di Lilliano, cit., pp. 303-305. 
269 


Riccardo Spinelli 





del principe cardinale, fu in grado di soddisfare appieno i capricci dei commit- 
tenti medicei producendosi nei campi più disparati, alternando, ad esempio per 
Vittoria e Ferdinando, pittura monumentale o su tela* a lavori minori, ma in- 
dubbiamente originali e qualificanti la sua notevole manualità quali furono - nel 
caso del delfino toscano — una buona parte degli spettacolari stemmi miniati d’un 
‘Priorista’ (un albo figurato delle armi della nobiltà toscana) da questi voluto, poi 
completato per iniziativa di Cosimo III e dell’Elettrice Palatina”. 

E anche per Francesco Maria il Bimbacci non fece eccezioni, evidenziandosi 
già nel 1681 con dei decori alla libreria di Lappeggi** e, poco dopo, con la pittura 
di “quattro pezzi di indiane con paesi”, di una mostra d'orologio su rame decora- 
ta con il ‘Tempo scopre la Verità’, d'una seconda con ‘Borea rapisce Orizia’, d'un 
quadretto con ‘San Pantaleone di Nicomedia", medico, patrono di quell’arte e, 
al pari di Cosma e Damiano, santo di riferimento della famiglia granducale. 

Alla mano del Bimbacci, negli inventari della villa, è A anche il ritratto 
d’un noto esponente della colorita corte del cardinale, il nano Bortolino®°, realiz- 
zato in serie con altre effigi d’alcuni dei curiosi personaggi del seguito principesco 
dovuti invece al pennello di Giovanni Antonio Ugolini e ricordati negli inventari 
della villa”, mentre realizzata da un certo “Berti” — non meglio specificato — si 
vedeva l’effige di un secondo nano, il Minnelli88, 





82 R. Spinelli, Vittoria della Rovere: passione collezionistica e mecenatismo della granduchessa madre, 


in Fasto di corte. La decorazione murale nelle residenze dei Medici e dei Lorena, volume III, L'età di Cosimo 
III de Medici e la fine della dinastia (1670-1743), a cura di M. Gregori, Firenze, 2007, pp. 23-24; R. 
Spinelli, La villa del Poggio Imperiale, “buen retiro” della granduchessa madre Vittoria della Rovere (1670- 
1694), ivi, pp. 38-39. 

8. Cfr. R. Spinelli, X Priorista Mariani’ dell'Archivio di Stato di Firenze: gli stemmi miniati da 
Atanasio Bimbacci, in Ferdinando di Cosimo II de Medici, Gran Principe di Toscana, e Violante Beatrice 
di Baviera, atti del Seminario di studi (Firenze, Biblioteca degli Uffizi, 25 gennaio 2014) a cura di R. 
Spinelli, in “Valori tattili”, nn. 3/4, 2014, pp. 40-51. Per altri lavori del Bimbacci realizzati su comando 
del Gran Principe Ferdinando cfr. R. Spinelli, Profilo di un principe-mecenate: Ferdinando di Cosimo II 
de Medici, in Fasto di corte, cit., pp. 177-194. 

84 ASFi, CCSGB, IV serie, 155, Uscite, cit., anno 1681, n. 37, 21 marzo 1681. 

85 Ivi, 156, Mandati per l'uscita. segnato C/1, 1681-1682, anno 1683, n. 289, 20 febbraio 1683. Il 
pagamento è vidimato dal Marmi e sottoscritto, per ricevuta, dal Bimbacci. Una tela con questo sogget- 
to venne richiesta da Francesco Maria anche ad Antonio Ugolini, il maestro parmigiano ripetutamente 
impiegato dal principe che gli commissionò un numero veramente notevole di opere; su questo, cfr. 
Spinelli, Note sul collezionismo del principe-cardinale, cit., pp. 89-90. 

8 ASFi, MdP, 5872, vol 3, Inventario di tutti i mobili, cit., c. 12r, camera n. 12, n. 142: “Un 
ritratto di Bortolino nano del Bimbacci, con adornamento liscio nero, e oro, alto braccia 2 1/3, largo 
braccia 3 1/3”. 

#7 La maggior parte dei quali già presente nell'inventario del 1696 (ivi, passim, dove si ricordano 
le effigi di Bista di Spaurito e di Michele Fratini, del Menabuoni e del Vacuato, del Lungo e del Panone, 
di Boraccino e di Catastino, dell Armeno intento a fare il caffè, del Filosofo, di Cecchino, Selim e d’altri 
amici, del Lucchi cacciatore e altri, di Maso, di Teo e d’altri cacciatori, della Cianciuca con i figli, del 
Riccio seduto, del Turco in atto di mangiare, dell’ Armeno seduto, di Girone; su questi cfr. Spinelli, Pro- 
filo di un principe-mecenate, cit., pp. 89-90 e, adesso, R. Spinelli, “Lappeggio è bello e buono: è il centro, è 
il soglio Delle delizie: e dirlo un paradiso”. Famigli e familiari nella quadreria del cardinale Francesco Maria 
de Medici, in “Bollettino della Accademia degli Euteleti della città di San Miniato”, n. 87, 2020, pp. 
394-400. 

88. ASFi, CCSGB, IV serie, 653, Inventario di tutte le robe ritrovate, cit., c. 3v, nn. 57, 58. La 


270 


Pandolfo Reschi, Atanasio Bimbacci e Francesco Corallo 
al servizio del principe cardinale Francesco Maria de’ Medici: nuovi documenti 





Nel marzo del 1683, e anche in seguito, era poi cura di Atanasio fornire sce- 
nografie dipinte per gli spettacoli patrocinati dal principe nel Casino Mediceo 
a San Marco”: in questo, nell’estate del 1686, si rappresentò il dramma in tre 
atti Gneo Marzio Coriolano di Giovanni Andrea Moniglia su musica di Lorenzo 
Cattani — come mi precisa gentilmente Leonardo Spinelli? - che vide la parteci- 
pazione, oltre che dell’artista (nell’occasione il Bimbacci fornì alcune “pitture”)?!, 
dei musici Gaetano Solini, Piero Salvetti — che si produsse al “violone”?? -, il ge- 
novese Martino Bitti al violino (musicisti attivi in quel periodo anche per il Gran 
Principe Ferdinando, gli ultimi due rappresentati nei celebri ‘concerti’ dovuti al 
pennello di Anton Domenico Gabbiani)? nonché d’una squadra specializzata di 
legnaioli, merciai e sarti, intagliatori e doratori impegnati a produrre al meglio le 
scene e i costumi”. 

L’anno successivo Atanasio tornava a lavorare in villa, realizzando ad affresco 
la “tavola dell’altare” nella cappella interna — poi modificata - raffigurante la 'Ver- 
gine offre il Bambino Gesù a Maria Maddalena de’ Pazzi' alla presenza di angeli 
sorreggenti i simboli iconografici della santa, il giglio e il libro”. In quest'edificio 
il Bimbacci dipingeva poi, nel febbraio del 1689, una “galleria a fresco”, un fre- 
gio su tela con “fiori e arpie”, un “festone di frutta” sempre su tela “lumeggiato 
a oro”, due soprapporte simulanti arazzi da sistemare nella stanza rivestita di tali 
panni, infine un fregio “sull'asse” per il parato della camera del cardinale”. 


presenza di nani (almeno sette) e di personaggi quanto meno grotteschi (stando ai loro soprannomi), 
organici alla spensierata corte del cardinale Francesco Maria de’ Medici, non è stata rilevata nel pur 
circostanziato catalogo della mostra Buffoni, villani e giocatori alla corte dei Medici (Firenze, Palazzo 
Pitti, 19 maggio-11 settembre 2016) a cura di A. Bisceglia, M. Ceriana, S. Mammana, Livorno, 2016. 

89. ASFi, CCSGB, IV serie, 156, Mandati per l'uscita, cit., anno 1683, n. 314, 6 marzo 1683; in 
questa data s'era rappresentata la commedia “delle Case nuove”. L'interesse di Francesco Maria per gli 
spettacoli tenuti dall'Accademia, solita riunirsi a San Marco, era attivo da alcuni anni, almeno dagli inizi 
del 1679 (ivi, 155, Uscite, cit., anno 1679, n. 14). Su questo si veda adesso anche L. Spinelli, Cantar 
fuori porta. Storia, spettacoli e protagonisti del teatro mediceo di Pratolino 1679-1710, Firenze, 2020, ad 
vocem. 

% L'opera fu rappresentata al Casino di San Marco il 3 giugno 1686; seguirono dodici repliche. 
Su Moniglia si veda la voce compilata da Marco Catucci in Dizionario Biografico degli Italiani, vol. 75, 
Roma, 2011, pp. 685-691 (con bibliografia precedente). 

% ASFi, CCSGB, IV serie, 158, Filza di mandati per l'uscita, anno 1686, n. 2, 20 giugno 1686. 

9 Ivi, anno 1686, nn. 15 (21 luglio), 26 (27 luglio). 

93. Il Salvetti compare nella tela che vede presente anche lerede al trono, databile 1685-1686; 
il Bitti nell’altra con tre musicisti e un servo moro con pappagallo, del 1687. Le due opere sono oggi 
presso la Galleria dell’Accademia di Firenze, inv. 1890, nn. 2808, 2802; su queste si veda R. Spinelli, 
in M Gran Principe Ferdinando de Medici, cit., pp. 148-151, nn. 6, 7 (con bibliografia precedente). 
L'interesse del Gran Principe per la musica e gli spettacoli, così come quello dei familiari più stretti, la 
moglie Violante di Baviera e lo zio cardinale Francesco Maria, è stato oggetto delle circostanziate inda- 
gini archivistiche di Leonardo Spinelli, edite in M principe in fuga e la principessa straniera. Vita e teatro 
alla corte di Ferdinando de Medici e Violante Beatrice di Baviera (1675-1731), Firenze, 2010 e in Cantar 
fuori porta, cit., passim (con bibliografia precedente). 

% ASFi, CCSGB, IV serie, 158, Filza di mandati per l'uscita, cit., anno 1686, nn. 28 (il legnaiolo 
Bechelli, poi Piero Botticelli, il merciaio Brison, il sarto Castelli, il doratore Melletti, il magnano Lepri), 
49 (il doratore Giuseppe Picchi), 

5 Ivi, anno 1686, n. 335, 6 giugno 1687, con ricevuta autografa del pittore di 20 ducati. 

% Ivi, anno 1688, n. 153, con distinta dettagliata dei lavori. 


271 


Riccardo Spinelli 





L'elastica professionalità dell’artista lo portava poi ad eseguire, nel settembre 
del 1692, due quadri a tempera con vedute di due giardini romani, quello di Vil- 
la Medici a Trinità dei Monti, l’altro del principe Ludovisi al Pincio”, alternati, 
l’anno successivo, alla pittura dei cristalli per una lanterna magica, lavoro che 
impegnò l'artista per undici giorni”. 

Ai mesi compresi tra l'agosto del 1694 e il dicembre dell’anno successivo si 
registrano gl’interventi decorativamente più significativi tra quelli realizzati dal 

ittore in villa: il 13 agosto del 94 una ricevuta autografa di Atanasio attesta 
ii di altri lavori tra i quali un secondo fregio fatto in una “camera di 
sopra” a Lappeggi — dove si dipingevano anche le imposte — e, soprattutto, i 
decori della ‘Stanza delle Porcellane’, ambiente mirabolante per la presenza di 
tanti raffinatissimi oggetti (nei tre armadi e nelle quattro scansie erano presenti 
ben 1605 pezzi divisi tra contenitori per sorbire le moderne bevande — thè, caftè, 
cioccolata — ma anche vasellame da tavola, descritti con cura dagli inventari)”, 
nella quale l’artista affrescava festoni di fiori e il fregio parietale, producendosi poi 
nelle imposte e nella porta di questo locale!” 

L’anno successivo, nel dicembre del ’95, l’artista veniva invece compensato 
per dei lavori al Casino di Lilliano, nella fattispecie la “stuoia” (il soffitto) di 
una camera parata “all’indiana”!° — non più esistente! - nella quale eseguiva “a 
tempera pappagalli et altri uccelli al indiana come rame di vasi alberi et erbe che 
fanno in quelle parti per accompagnare il parato”, nonché il “parapetto et archi- 
trave e spallette dipintovi varie figure al indiana” e le “imposte della finestra cioè 
da una banda entrovi figure al Indiana”!, qualificandosi così precoce interprete 
di quella cino-mania che interesserà, in quegli anni, anche altri esponenti della 


famiglia granducale”. 


Francesco Corallo 
Il terzo artefice considerato in questa occasione e presente nei registri del car- 
dinale fu il romano Francesco Corallo (1643 - 1707)!®, al tempo apprezzato an- 





9 Ivi, 160, Mandati per l'uscita, cit., anno 1692, n. 59, 22 settembre 1692, conto di Atanasio 
Bimbacci, con ricevuta autografa dell’artista e indicazione delle misure dei due dipinti: “alti braccia 1 e 
5/6, larghi braccia 4” (cm. 107x233 ca.). 

° Ivi, n. 138, 15 gennaio 1693, pagamento con distinta e ricevuta autografa del 21 gennaio. 

Si vedano in ivi, 653, Inventario di tutte le robe ritrovate cc. 59r-63v. 

100 Ivi, 161, Filza di mandati per l'uscita, luglio 1694-giugno 1696, anno 1694, n. 34, 13 agosto 
1694, conto del Bimbacci (58 ducati) con ricevuta autografa e distinta dei lavori. 

10I Su questa, con altra documentazione archivistica, si veda P. Maccioni, M Ritiro di Lilliano, in 
Fasto di corte, cit., pp. 163, 169. 

12 In villa si segnala, per la qualità dell’invenzione e l'originalità del soggetto, una stanza che 
affaccia sul giardino a valle interamente decorata con soggetti e scene ispirate all’oriente, attribuita 
al pennello di Marino Benaglia e realizzata nel 1702; su questa e sul suo arredo si vedano le puntuali 
riflessioni di Maccioni, // Ritiro, cit., pp. 168-175. 

103 ASFi, CCSGB, IV serie, 161, Filza di mandati, cit., anno 1695, n. 91, con ricevuta autografa 
del 18 giugno 1695. 

104 Cfr. Maccioni, I Ritiro, cit., p. 168; più in generale, cfr. F. Morena, Cineseria. Evoluzione del 
gusto per l'Oriente in Italia dal XIV al XIX secolo, Firenze, 2009, pp. 263-266. 

105 Sul pittore manca, ad oggi, uno studio monografico: si vedano, per la biografia e una prima 


99 


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Pandolfo Reschi, Atanasio Bimbacci e Francesco Corallo 
al servizio del principe cardinale Francesco Maria de’ Medici: nuovi documenti 





che dalla madre Vittoria la quale, nella diletta residenza del Poggio Imperiale, lo 
aveva incaricato dell’affrescatura dell’ addenda da lei fatta alla villa medicea, della 
quale su suo comando s'era notevolmente ampliata la parte a monte. In questa 
Vittoria aveva voluto due grandi saloni, il primo al piano terreno, la “Galleria 
di sculture” — ancora esistente e oggi refettorio dell’Educandato — il secondo, 
perfettamente corrispondente, ubicato invece al piano nobile e cancellato dalle 
modifiche apportate a quella zona al tempo di Pietro Leopoldo. In entrambe le 
gallerie ebbe a operare il Corallo, che fu anche artefice del decoro affrescato delle 
cinque stanze che ‘incernieravano’ il salone al primo piano — un appartamento 
allora in uso alla principessa Anna Maria Luisa, nipote di Vittoria -, impresa di 
notevole vastità che vide l’artista impegnato per alcuni mesi, già nell’autunno del 
1685 - stante il primo pagamento erogato il 24 ottobre di quell’anno - e fino al 
17 settembre dell’86. 

Dai dettagliati registri di spesa della granduchessa si viene a conoscenza anche 
del compenso percepito dal maestro romano che lavorava “a giornata”: 600 scudi 
per ciascuno dei due saloni (con 50 scudi per il vitto “nel tempo che vi dipinge- 
rà”), 100 scudi per ciascuna delle cinque camere (con 10 scudi di vitto per ognu- 
na), infine 100 scudi per le “spese di viaggio in venire di Roma e ritornarsene”. Al 
consistente pagamento versatogli nel 1686 seguì poi il saldo, corrisposto al Co- 
rallo il 25 dicembre del 1693, comprensivo anche di una seconda opera realizzata 
per la principessa, documentata da un compenso rilasciato il 24 dicembre dell’88, 
vale a dire l’affrescatura della “Camera della Serenissima” nel palazzo granducale 
di Pisa per la quale l'artista ebbe a ricevere 230 scudi. Nell’impresa dell Imperiale 
ebbero parte attiva anche il legnaiolo Socci che eresse i palchi necessari a dipinge- 
re i nuovi ambienti, e il mettiloro Santini che operò nelle nuove stanze a terreno 
e nelle cinque al piano nobile, responsabile anche della fornitura al Corallo di 
“biacca macinata, colori e tempere” e dell’esecuzione, su suo ordine, di ben 938 
“borchie” che andavano a decorare il distrutto salone al primo piano!°. 

Nell’anno trascorso a Firenze il pittore si vide fornire un alloggio - forse allin- 
terno della stessa villa dell’Imperiale, in locali di servizio —, rimborsare le spese 
“di fuoco”, gli fu consentito di avere con sè la famiglia” e ebbe modo di operare 
anche per il figlio secondogenito di Vittoria, il cardinale Francesco Maria. Nella 





sintesi delle opere, M. Bencivenni, Corallo, Francesco, voce in Dizionario Biografico degli Italiani, 28, 
Roma, 1983, pp. 693-695 e S.C. Martin, Coralli (Corallo), Francesco, voce, in SAUR, Allgemeines Kün- 
ster-Lexikon, 21, Miinchen-Leipzig, 1999, p. 137. Un profilo ben più articolato della vita e della carriera 
dell'artista, tra i protagonisti del barocco romano, si deve a M.C. Cola, / Ruspoli l'ascesa di una famiglia 
a Roma e la creazione artistica tra Barocco e Neoclassicismo, Roma, 2018, pp. 176-189. Della studiosa è 
annunciata l’imminente pubblicazione del carteggio intercorso tra il pittore e uno dei suoi principali 
committenti, Francesco Maria Ruspoli (ivi, p. 15). 

106 Su tutto questo cfr. R. Spinelli, La villa del Poggio Imperiale, “buen retiro”, cit., p. 36, con 
indicazione e trascrizione dei principali documenti relativi al lavoro dell’artista (con bibliografia prece- 
dente). Altre considerazioni sul decoro di questi ambienti dell’Imperiale si vedano in R. Spinelli, Note 
sul collezionismo del principe-cardinale, cit., pp. 90-91 e in R. Spinelli, 7 decori pittorici e gli arredi della 
villa di Poggio Imperiale, in A. Ragazzini - R. Spinelli, La Villa di Poggio Imperiale. Una reggia fiorentina 
nel patrimonio UNESCO, Firenze, 2018, pp. 76-86. 

17 R, Spinelli, La villa del Poggio Imperiale, “buen retiro”, cit., p. 36. La richiesta di alloggio per 
sè e la famiglia era prassi consueta, peculiare dei contratti sottoscritti dal pittore con i committenti; su 
questo aspetto, cfr. anche Cola, / Ruspoli, cit., p. 178. 


273 


Riccardo Spinelli 





villa di Lappeggi il Corallo fu attivo nella primavera dell’86'°, realizzando anche 
cinque tele con “paesi”, ricordate nell’inventario delle stanze occupate dal princi- 
pe a Palazzo Pitti', un genere praticato con successo dall’artista come dimostra 
anche la grande ‘Veduta della tenuta e del castello di Porto’, del 1690, conservata 
nel Palazzo Chigi ad Ariccia!!°. 

Ma l’interesse del cardinale Medici per il Corallo ebbe, in quell’anno e nei 
successivi, anche altri importanti esiti, documentati da inediti ritrovamenti d’ar- 
chivio. Questi ci informano che l'artista realizzò, nell'estate del 1687, alcuni de- 
cori nel palazzo mediceo di Siena!!!, città della quale Francesco Maria era gover- 
natore dal 1683!!. Questi interventi che interessarono i mezzanini dell’edificio 
— già documentati nel luglio dell’86, al tempo della loro doratura ad opera di un 
certo Ferrini!!3 -, videro l’entrata in scena del Corallo nell'agosto dell’ 87, affian- 
cato da senese Giuseppe Nicola Nasini, altro artista ila apprezzato 
dai Medici, dal granduca Cosimo III in particolare!!*. Al maestro romano i do- 
cumenti assegnano, nello specifico, l’affrescatura della “loggetta sul giardino”!!5 
mentre poco prima, nel mese di aprile di quell’anno, l'artista era intervento negli 
“anditi del palazzo”!!° - che vedevano il Corallo nuovamente impegnato nel corso 
della primavera dell’88 -; mentre il Nasini, nell'agosto del 1687, ebbe l’incarico 
di dipingere una “indiana”!!. 

La concessione del cappello cardinalizio al principe, seguita nel settembre 
1686 per iniziativa di papa Innocenzo XI Odescalchi, fece arrivare in palazzo 





198 N. Barbolani di Montauto, // principe cardinale Francesco Maria, in Fasto di corte, cit., p. 137; 


N. Barbolani di Montauto, La villa di Lappeggi: il Tempo e la Fama nelle stanze del cardinale, ivi, p. 147. 
I pagamenti relativi si vedano in ASFi, CCSGB, IV serie, 157, Filza di mandati per l'uscita, cit., anno 
1685, n. 151, 3 aprile 1686, si pagano 115 ducati al pittore Francesco Corallo per saldo di lavori fatti a 
Lappeggi; nella ricevuta autografa, datata 6 aprile, tali interventi non vengono tuttavia specificati. 

10 ASFi, CCSGB, IV serie, 655, Inventario dell’Appartamento del Palazzo de Pitti, cit., c. 37v, n. 
434: “Cinque quadri grandi dipintovi Paesi, del Corallo, n. 1172”. 

!!° Sul dipinto, cfr. Cola, Z Ruspoli, cit., p. 180 (con bibliografia precedente). 

Ivi, p. 177 (con bibliografia precedente). 
Cfr. M.P. Paoli, Medici, Francesco Maria, voce in Dizionario Biografico degli Italiani, 73, Roma, 
2009, p. 53. 

113 ASFi, CCSGB, IV serie, 290, Giornale della Dispensa, cit., c. 11, settembre 1686, si paga il mu- 
sico Gaetano Golini che ha recitato nelle commedie al Casino; 19 luglio il giardiniere che ha lavorato 
al giardino di Siena; 31 luglio il Ferrini doratore che ha lavorato “nei mezzanini del palazzo di Siena”; 2 
agosto il pittore Masini “per lavori che va facendo per S.A.$.”; il 4 agosto ancora pagamenti ai manifat- 
tori che lavorano ai mezzanini del palazzo di Siena; 14 agosto per le commedie al Casino di San Marco. 

114 Su questo si veda adesso anche R. Spinelli, Cosimo II de Medici, Giuseppe Nicola Nasini e le 
tele con Storie di San Francesco per il Sacro Convento d'Assisi, 1695, in San Francesco con Angeli riceve le 
Stimmate di Giuseppe Nicola Nasini. Un restauro per il Sacro Convento di Assisi, Genova, 2018, pp. 28- 
39; R. Spinelli, Le committenze sacre di Cosimo INI de Medici. Episodi poco noti o sconosciuti (1677-1723), 
Firenze, 2019, pp. 69-78 

115 ASFi, CCSGB, IV serie, n. 290, Giornale della dispensa, cit., c. 21, 31 agosto 1687. 

16 Ibidem, si paga il “Nasini pittore per lavori a Mezzanini” e Francesco Corallo “per aver dipinto 
la Loggetta sul Giardino di Siena”; 2 settembre si compensa il Ferrini per “dorature ai mezzanini e per 
colori per dipingere la loggetta”; 13 novembre ancora per lavori ai pittori che hanno lavorato ai mezza- 
nini di Siena; 6 aprile 1688 si paga il Corallo che ha dipinto “gli Anditi del Palazzo di Siena”. 

!!7 Ivi, c. 23, 23 agosto 1687, si fanno tavolini per Siena; 29 agosto, si salda il Nasini per “una 
indiana”; 27 marzo 1687, altro compenso al Nasini per l’indiana. 


111 
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Pandolfo Reschi, Atanasio Bimbacci e Francesco Corallo 
al servizio del principe cardinale Francesco Maria de’ Medici: nuovi documenti 





anche un ritratto di questo pontefice, documentato dalla fattura della cornice 
nel dicembre del 1687!!8, anno nel quale il neo cardinale, nel mese di ottobre, 
dovette recarsi a Roma a prendere il galero cardinalizio, rientrando in Toscana 
nell’agosto dell’88!!9, 

Non sappiamo se nel corso del soggiorno romano il porporato abbia avuto 
l'occasione di rivedere il Corallo — sappiamo che il pittore fece rientro nell Urbe 
nell’ottobre dell’87!°° -, ma è più che probabile dal momento che nel marzo del 
1688 l’amministrazione del principe provvedeva a pagare all'artista “scudi 70 
per valuta e spese di tre tavole d’altare mandate a Pisa per servizio di S.A.R?” -, 
mentre nel novembre successivo lo si compensava per “opere di pittura e “d’in- 
doratura” d'una nuova carrozza allora in costruzione per Francesco Maria, poi 
saldatagli nell’aprile del 1689 assieme ad altri lavori non meglio specificati!’ Nel 
novembre di quell’anno il Corallo faceva nuovamente capo a Siena, a ritoccare “le 
Pitture de Corridori del Palazzo” e a dipingere “in tela due stanze del medesimo, 
col passare, che è fra la loggetta sul Giardino, e la Stanza del Trucco, e per aver 
dato il colore al Cortile”, ricevendo anche il rimborso delle spese di viaggio per 
sé e per i “suoi huomini”!?, 

Nell’occasione il pittore — duttile ed elastico nelle sue prestazioni professio- 
nali, in questo affiancato da una capace bottega -, ebbe modo di dipingere anche 
“tutti li stipiti delli usci delli appartamenti del palazzo, i parapetti delle finestre 
del medesimo, e altro”!°*. Infine, in quel ristretto giro di mesi Francesco Maria 
lo impiegò nuovamente a Firenze, a Palazzo Pitti, negli ambienti da lui occupati, 
incaricandolo della fattura dei “fregi nella stanza della libreria” !”. 

Il cardinale ricorse al maestro romano anche in altre occasioni, tutte connesse 
ai soggiorni nell’Urbe, nella circostanza dei suoi impegni in Curia o dei conclavi 


18 Ivi, c. 24, dicembre 1687, si pagano le cornici al ritratto del papa fatto fare “per il palazzo di 


Siena”. 

19 Ivi, c. 29, 14 ottobre 1687, si registrano le spese sostenute per andare a Roma a prendere il 
cappello cardinalizio. Il rientro a Firenze del neo-cardinale avvenne nel mese di agosto del 1688; il costo 
della ‘trasferta romana fu di 4692 scudi, comprensiva del pagamento degli alloggi e delle spedizioni di 
materiali e arredi. 

120 Cfr. Cola, 7 Ruspoli, cit., p. 178. 

121 ASFi, CCSGB, IV serie, 180, Quaderno di Tratte e rimesse, 1686-1690, c. 21r, 16 marzo 1688 
(stile comune), si pagano a Francesco Corallo pittore “scudi 70 per valuta e spese di tre tavole d’altare 
mandate a Pisa per servizio di S.A.R.” Sconosciuta, al momento, la destinazione delle opere; tuttavia si 
ricorda che il principe, già nel 1667, era stato insignito del priorato dell'Ordine di San Giovanni Gero- 
solimitano di quella città (cfr. Paoli, Medici, Francesco Maria, cit., p. 53). 

122 ASFi, CCSGB, IV serie, 180, Quaderno di Tratte e rimesse, cit., cc. 32v, 3 novembre 1688, si 
pagano 100 scudi a “Francesco Corallo per acconto dell’indorature della carrozza di S.A.R.”; 34v, 7 di- 
cembre 1688, altro pagamento di 50 scudi a “Francesco Corallo e per esso a Giuseppe Bocci per aconto 
de lavori che fa per S.A.R.”; 40v, 5 aprile 1689, si pagano 140 scudi a “Francesco Corallo per saldo di 
indorature e pitture e d’ogni altro lavoro fatto per S.A.” (in quest'occasione si salda anche la carrozza). 

123 ASFi, CCSGB, IV serie, 290, Giornale della Dispensa, cit., c. 43, 15 novembre 1689, si paga 
acqua ragia per i pittori che lavorano al palazzo di Siena; 17 novembre 1689, “a Francesco Corallo di 
Roma per aver ritocco, e per il viaggio di detto Corallo co’ suoi huomini da Roma a Siena, e loro ritorno 
scudi 384”. 

124 Ibidem, 17 novembre 1689. 

125 Ivi, c. 66, 7 novembre 1689. 


275 


Riccardo Spinelli 





ai quali il principe prese parte: quello del 1689 che elesse Alessandro VIII Ottobo- 
ni — in quell’occasione il Corallo, definito nei documenti “doratore”, ebbe modo 
di lavorare alle carrozze predisposte per l'occasione, dipingendo anche le armi dei 
Medici e della casata del papa da esporre sulla facciata del palazzo Madama -; quello 
di Innocenzo XII Pignatelli salito al soglio nel 1691 — il pittore fu impegnato anche 
in questa occasione nel decoro d’alcune carrozze -; l’altro di Clemente XI Albani e 
nella circostanza il Corallo ebbe l’incarico di dipingere l’arme medicea da sistemare 
sulla facciata della chiesa della quale il cardinale era titolare!?9, la basilica di Santa 
Maria in Domnica, diaconia d'appannaggio della quasi totalità dei porporati di 
Casa Medici a partire da Giovanni, poi papa Leone X. 


Fonti d’archivio: 


ArcHIVvIO DI STATO DI FIRENZE (ASFI) 
1 - Congregazione di Carità di San Giovanni Battista (CCSGB), IV serie 


155, Uscite, 1680-1681 

156, Mandati per l'uscita, segnato C/1, 1681 - 1682 

157, Filza di mandati per l'uscita, 1° luglio 1683 - 30 giugno 1686 

158, Filza di Mandati per l'uscita, segnata C/2, 1° luglio 1686 - 30 giugno 1689 
159, Filza di Mandati per l'uscita, segnata D/1, luglio 1689 - giugno 1692 

160, Mandati per l’Uscita, 1° luglio 1692 - 30 giugno 1694 

161, Filza di Mandati per l’Uscita, luglio 1694 - giugno 1696 

165, Filza di Giustificazioni dell Uscita de Pagatori di S.A. Rev.ma segnato B2 XV, dal 
16 ottobre 1700 al 1702 

180, Quaderno di Tratte e rimesse, 1686 - 1690 

247, Ricevute diverse, 1679 - 1692 

248, Filza di ricevute diverse, segnata A, 1679 - 1692 

652, Adi 22 giugno 1711. Inventario dell'infrascritte robe ritrovate nella villa di 
Lappeggi del Serenissimo Principe Francesco Maria di Toscana di gloriosa memoria il di 
15 maggio prossimo passato 

652, fascicoletto all’interno, intitolato: Inventario delle robe attinenti al già Ser.mo 
Principe Francesco Maria di Toscana di gloriosa memoria, ritrovate in essere il di 15 
maggio (1711) nel palazzo di Siena 

653, Inventario di tutte le robe ritrovate nella Villa di Lappeggio, Botteghe e Giardini, 
attenenti al già Serenissimo Principe Francesco Maria di gloriosa memoria 1710 ab Inc. 
654, Inventario delle masserizie e altro attinenti al Serenissimo Principe Francesco Maria 
di Toscana di gloriosa memoria ritrovate ne suoi appartamenti del Palazzo de Pitti, tanto 
a terreno, che sopra 





126. ASFi, CCSGB, IV serie, 165, Filza di Giustificazioni dell’Uscita de Pagatori di S.A. Rev.ma 
segnato B2 XV, dal 16 ottobre 1700 al 1702, n. 28, 1699, conto di Francesco Corallo per aver dipinto 
umarme che va alla porta della chiesa titolare e per lavori a una carrozza di campagna. 


276 





655, Inventario dell’Appartamento del Palazzo de Pitti, e altro a cura del Guardaroba 
Faini, 15 maggio 1711 


2 — Mediceo del Principato (MdP) 


5871, F, Inventario Di Masserizie, e Mobili, e Supellettili che si ritrovano 
nell’Appartamento del Ser.mo e Rev.mo Sig.re Card.le de Medici 

5872, vol. 3, Inventario di tutti i mobili, che il Serenissimo, e Reverendissimo Signor 
Principe Cardinale Francesco Maria di Toscana tiene nella sua villa di Lappeggi [...] 
fatto nel mese di novembre 1696 


ARCHIVIO STORICO DEL COMUNE DI FIRENZE (ASCFI) 
Ente Comunale di Assistenza (ECA) 


3 - Congregazione di Carità di San Giovanni Battista, Libro dei Decreti dal 1709 al 
1712 della Congregazione generale e dei dodici deputati 


Bibliografia 


BaLpinucci ES., Vite di artisti dei secoli XVII-XVIII (1725-1730 ca), ed. a cura 
di A. Matteoli, Roma, 1975. 


BarBoLANI DI Montauto N., Paesaggio e battaglia a Firenze dopo Salvator Rosa, 
in Firenze Milleseicentoquaranta. Arti, lettere, musica, scienza, atti del Conve- 
gno di studi (Firenze, Kunsthistorisches Institut - Max-Planck Institut, 11-12 
dicembre 2008) a cura di E. Fumagalli, A. Nova, M. Rossi, Venezia, 2010, 
pp. 325-348. 

BarsoLAnI DI MontautO N., Pandolfo Reschi, Firenze, 1996. 


BarsoLanI DI Montauro N., // principe cardinale Francesco Maria, in Fasto di 
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al servizio del principe cardinale Francesco Maria de’ Medici: nuovi documenti 





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scana. 

SrinELLI R., I Guadagni di Firenze. Mecenatismo e committenza artistica del ramo 
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SPINELLI R., Nascita d'una collezione: il principe cardinale Francesco Maria de Me- 
dici tra Lappeggi, Firenze, Siena e Roma (1672-1700). 


279 


280 


Elena Fondra, artista poliedrica tra ‘Novecento’ e Fellini 





FABIO SOTTILI 


Elena Fondra, “pittrice penetrante e precisa, allo stesso tempo cantante e don- 
na di spirito goldoniana, diventata internazionale per le sei o sette lingue che 
parla e per la e vita vissuta all’estero”: così venne presentata nel 1956 in una 
sua mostra milanese!. 

Totalmente ignorata dalla manualistica novecentesca, invece fra gli anni ’30 e 
gli anni ’60 fu attiva in molti ambiti artistici (pittura, architettura, arti applicate, 
arredamento, grafica pubblicitaria, scenografia, lirica, cinema) e vicina a impor- 
tanti personaggi della cultura ii uali Leonor Fini, Alberto Savinio, 
Gustavo Pulitzer Finali, Gio Ponti, Anton Giulio Bragaglia, e Gillo Dorfles, non- 
ché del mondo politico e della vita mondana. 

Secondo quanto riportano i testi? nacque nel 1910 a Dardanelli (in Turchia) 
o a Smirne da un'antica e nobile famiglia lombarda in rapporti secolari con la 
repubblica di Venezia; studiò a Trieste e a Parigi, ma nell’arte fu autodidatta. In 
realtà, attraverso ricerche enealogiche da me effettuate, si tratta di Elena Maria 
Luisa Fondra, nata a Dardanelli l'8 Settembre 1907, figlia minore del commer- 
ciante Enrico di Giovanni Fondra (1864-?) e di Teresa de Caravel (1884-?), ap- 
partenenti all'alta borghesia di origine italiana’. 

Non sappiamo quale sia stato il momento e la ragione che portò la sua fami- 

lia a trasferirsi a Trieste, così come ignoriamo con quali modalità sia avvenuto 
ap roccio di Elena Fondra col mondo dell’arte, se veramente la sua formazione 
fu di autodidatta. 

Quel che è certo è che tutti ammiravano la sua bellezza, veniva chiamata col 


! Elena Fondra 1956. 

2? D'Agostino 1935, ad vocem; Martelli 1996, pp. 97-98; Vatta 2000, pp. 130-131. 

3. Proviene da un’aristocratica famiglia lombarda, legata nei secoli alla Repubblica della Serenis- 
sima, alcuni esponenti della quale nel secondo Ottocento erano andati ad abitare sulle coste turche. Il 
padre Giovanni Fondra si occupava principalmente di esportazione di vallonea e cereali, ed era segreta- 
rio della Società Dante Alighieri a Smirne. La sorella maggiore fu Silvia Maria Eugenia Fondra (1904-?), 
primo amore dello scrittore francese Henri Bosco. Il nonno paterno Giovanni Fondra (1829-1908), 
nato a Como - figlio di Innocenzo Fondra e Teresa Venini -, dopo che nel 1856 si era trasferito a Smir- 
ne, si era unito in matrimonio con Luisa Boretti (1845-1923) - figlia di Fortunato Boretti e di Anna 
Missir -, da cui nacquero, oltre a Enrico, anche Gioacchino (1865-1926) e Adolfo Fondra (1867-1924). 
Il nonno materno Agide Giuseppe Emilio de Caravel (1846-1926) fu console italiano a Dardanelli, ed 
ebbe in moglie Maria Guerrier (1853-1924). Cfr. Stoppani 1888, pp. 86-87, 288; Frangini 1903, pp. 
8, 20. Che la pittrice fosse figlia di Enrico Fondra e di Teresa de Caravel lo conferma la rivista “Lidel” 
del Febbraio 1930 (anno XI, 1930, 2, p. 16), nella quale si cita l'artista col nome di “Elena Fondra de 
Caravel”, che aveva eseguito un “quadro vivente” intitolato Mannequin Siegel, in occasione del Gran 
Ballo del Consiglio Nazionale delle Dame Italiane chiamato “Primavera fiorita”, allestito a Trieste in 
quell’anno. 


281 


Fabio Sottili 





titolo di ‘baronessa’, e a partire dall’età fascista fino agli anni del boom economico 
fu una delle poche donne a partecipare alle maggiori manifestazioni espositive 
italiane e a tenere mostre in vari paesi europei nonché in America (fig. 1). 

Per tutta la vita fu amica di Leonor Fini”, e affine allo stile di Achille Funi, ma 
venne influenzata soprattutto dagli artisti d'avanguardia che animavano il milieu 
culturale di Trieste nel primo dopoguerra, una città all’epoca cosmopolita, la cui 
colta borghesia intellettuale frequentava Saba, Svevo e Joyce, in un'atmosfera so- 
spesa fra mondo mitteleuropeo e pensiero italiano. La cerchia artistica triestina 

la fine degli anni ’20 era molto attiva e dominata dalle figure di Carlo Sbisà e 
Arturo Nathan’, che contribuirono in modo decisivo alla sua formazione. 

Sergio Vatta la considera un'artista che “presenta in una città come Trieste 
opere che risentono nei modi delle influenze fra le più significative delle avan- 
guardie presenti in Italia negli anni Venti, in opposizione al Novecentismo uff- 
ciale. [...] E una pittura che, pur nell’evidente semplificazione formale e in una 
certa ricerca cromatica antinaturalistica, mantiene intatta una grazia e un gu- 
sto decorativo non comuni”. Ritengo invece che non la si debba valutare come 
un'artista collocata “in opposizione” allo stile di ‘Novecento’, quanto piuttosto 
caratterizzata da uno spirito che attenua il monumentalismo classicheggiante - 
comunque presente nelle sue composizioni - attraverso una sognante leggerezza 
di stampo metafisico, talmente d’avanguardia che fu spesso oggetto di aspre cri- 
tiche negli anni d’esordio. 

Condivise i suoi debutti artistici con l’amica Leonor Fini, una pittrice al mo- 
mento ancora ‘sarfattiana’ e lontana dall’immaginario surrealista con il quale si 
affermerà a livello internazionale. Insieme parteciparono alle loro prime esposi- 
zioni e adottarono un linguaggio monumentale e classicheggiante ‘alla Funi’, che 
però la Fondra condì con misteri più spiccatamente mitteleuropei. 

La sua attività artistica espositiva è testimoniata fin dal 1929 quando prese 
parte alle Mostre Sindacali di Trieste, dopo essere tornata da Parigi ed aver ammi- 
rato soprattutto le opere metafisiche di Giorgio De Chirico e il ritorno all’ordine 
di Pablo Picasso”. 

Sulle pagine del settimanale “Marameo”, il critico satirico noto con lo pseu- 
donimo “Strazzacavei” in occasione dell’esposizione di Giugno la distrusse: “En- 
triamo col cappello in mano per non mostrarci incivili. E ci soffermiamo tuttavia 
a bocca aperta dinanzi a una nuova CIVILTA contrassegnata col N.36 e della 
quale è aralda la signorina Elena Fondra. In Elena Fondra havvi un singolare 
contrasto: ella è giovane e bella e li suoi quadri sono barbogi e brutti. E ritornata 
da poco da Parigi, dove studiò e dipinse per quattro o cinque mesi ed eccola a 
portarci un saggio di quella: «Civiltà» ballerina. Un'altra sua pittura (N. 38) è 
registrata nel catalogo col titolo MALINCONIA e infatti sono ben malinconici 
quel piatto, quel paio di limoni, quello scatolin del pèvere e quella fiasca de l’oio, 





4 Questo è documentato dalle lettere di Leonor Fini trascritte in Fini/Pieyre de Mandiargues 


2010, pp. 28-30, 89, 310, 322, 328-329, 331-333, 335, 338, 341, 353, 359, 379, 430. 

5 Carlo Sbisà 2014; Il mondo è là 2015. 

6 Vatta 2000, p. 130. 

7. Fasolato 1997; Elenco degli artisti 1997, p. 254. Nel 1929 risulta risiedere a Trieste in Via Do- 
menico Rossetti 59. 


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Elena Fondra, artista poliedrica tra Novecento’ e Fellini 





grande come la porta socchiusa che sta a poca distanza nel fondo. «Malinconia» 
a una «natura morta»? Ma uno degli allestitori dell’ Esposizione ci informa che 
quello era il nome di un’altra opera della Fondra, un nudo che fu trovato dalla 
commissione troppo... faceto rispetto al titolo e rifiutato. Un terzo lavoro della 
Fondra, dallo sfondo... sfondato e con un frammento di testa di terracotta, «u/- 
timo avanzo d'una stirpe infelice» nel primo piano ha per titolo EVOCAZIONE. 
Evocazione di che? Dello spirito folletto che ha sconvolto le facoltà intellettuali 
dei pittori ultramoderni?”*. E continua definendo le sue opere come “tele aggro- 
tescate che insaccano i «bacoli» artistici della pittrice Elena Fondra”?. 

Viceversa il critico del giornale “Il Piccolo di Trieste” in quell'occasione la 
ritenne un'interessante innovatrice: “Al polo opposto, o meglio all’equatore pit- 
torico, dove tutte le tinte sono aspre e violente come invettive, stanno i quadri 
del Cernigoi e della signorina Fondra. Il Cernigoi ha una specie di scarica nervosa 
in tinte strillanti: ma non si può contestare un impeto di dinamismo dionisia- 
co al suo brutale «Idillio», che si esprime tutto d’un pezzo; mentre l'umorismo 
delle sue scenette suburbane ha pure un'innegabile forza d’accento. La signorina 
Fondra adopera anch'essa una tavolozza cruda e veemente: vi s'imposta con rude 
efficacia nella natura morta: mentre gli altri quadri sono a loro modo simbolici, e 
attestano l’origine nell’officina parigina del De Chirico”. 

La critica continuò a it anche nella mostra regionale autunnale del 
1929: “Con la macchio pittura // parco dei divertimenti (op. N.1) la signorina 
Elena Fondra vuol dimostrare anzitutto ch'ella possiede molta forza nel colore 
e...che ghe gira le carozzete”!!. E ancora: “La signorina Elena Fondra mostrandoci 
il suo Nudo (9) con tocchi pieni, diremo cosi, di pariginità, presenta il caso clini- 
co di una donna che ga perso el late”??. Ma ci fu chi la pensava diversamente: ” Nel- 
la sala seconda abbiamo le «avanguardie», ossia gli artisti che battono loro strade, 
per lo più avventurose, e sui quali è difficile una Giuria si pronunci nettamente 
per il sì e per il no. Si veggono opere strambe e paradossali, ma anche talune pit- 
ture molto serie. Qui troviamo in marcia due signorine, Eleonora Fini ed Elena 
Fondra, con taluni cavalieri, lo Sbisà, il Nathan, il Lannes, il Cernigoi, e due 
nuovi scudieri, C. Godina e L. Posar”!. E ancora: “«Il parco dei divertimenti» 
della signorina Fondra, con un disordine vivace di figurette grottesche nei chias- 
sosi colori della cromolitografia popolare, è lavoro di un genere in cui ella riesce 
animata e giocosa”. Il suo “Nudo” tuttavia non convinse: “La signorina Fond[r] 
a prova quanto sia dura cosa il nudo, e considerandola giovane e principiante, si 
può anche ripromettersi meglio dai suoi saggi futuri”!. 


8 ‘Trascrizione del settimanale triestino “Marameo!” del 14 Giugno 1929, presente in Grassi 


2013-2014, pp. 144-145. Su “Marameo!” si veda De Grassi 2014, pp. 21-22. 

° Trascrizione del settimanale triestino “Marameo!” del 21 Giugno 1929, presente in Grassi 
2013-2014, p. 146. 

10 “I Piccolo di Trieste”, 11 Giugno 1929, p. 5. 

!! Trascrizione del settimanale triestino “Marameo!” dell'’11 Ottobre 1929, presente in Grassi 
2013-2014, p. 149. 

2° Ivi, p. 150. 

13 “Il Piccolo di Trieste”, 6 Ottobre 1929, p. 6. 

14 “Il Piccolo di Trieste”, 12 Ottobre 1929, p. 6. 

15 “I Piccolo di Trieste”, 13 Ottobre 1929, p. 6. 


283 


Fabio Sottili 


Elena Fondra, artista poliedrica tra ‘Novecento’ e Fellini 








Inoltre nella IV Esposizione d’Arte al Giardino Pubblico di Trieste nel Settem- 
bre 1930 lo stesso “Strazzacavei” sulle pagine di “Marameo” così la apostrofava: 
“Elena Fondra ha rifatto col suo «Suonatore di fisarmonica» un capolavoro delle- 
tà dei calcoli della pietra, degno appena di fare il paio con quell’altro «Suonatore 
della fisa» esposto dal Claris alla Permanente in via della Borsa, piena di tutto un 
po’... Ma la Fondra dimostra pure di saper disegnare quando può esprimere cosi 
bene il senso del riposo nella sua Dormiente”!°. Anche sulla rivista “Giovinezza 
ed Arte” da Guido Sambo venne denigrata la sua opera e quella di Leonor Fini, 
tanto che il critico invitava le due pittrici a rinunciare a ogni velleità artistica”. 

Il suo Suonatore di fisarmonica presentato nel 1930 all'esposizione sindacale 
di Trieste dimostra quella predilezione per la figurazione compatta e per la re- 
visione dell’ideale formale del corpo umano promosso dai pittori ai di 
‘Novecento’, ma contaminato dallo spirito parigino del Picasso ‘neoclassico’ e 
dai misteri metafisici dechirichiani, molto apprezzati dal clima artistico triestino 
del momento (fig. 2). Anche Gio Ponti alla fine degli anni Venti aveva trattato il 
soggetto del Suonatore di fisarmonica per Richard-Ginori, vedendolo alla stregua 
di una bella marionetta. Elena Fondra invece fa assumere un aspetto sognante alla 
scena, con il malinconico protagonista bloccato in masse volumetriche e forme 
geometricamente semplificate, all’interno di un contesto paesaggistico dominato 
da un cielo plumbeo, dal ramo secco di un albero e da architetture appena evo- 
cate; l’altra presenza viva è costituita da due piccoli personaggi che camminano 
in secondo piano, chiara citazione delle figure in coppia che spesso appaiono nei 
dipinti metafisici di Giorgio De Chirico, e che riappariranno sullo sfondo dell’ A- 
rianna presentata dalla Fondra nella Triennale del 1936 (fig. 15). 

Il suo stile iniziale è inoltre ben esemplificato dall’olio intitolato Térra vergine 
(fig. 3), che raffigura un paesaggio lacustre alla stregua di uno spazio onirico, 
caratterizzato da una “raffinata si un po’ pigramente sognante poesia, come è la 
natura di questa artista”!8. 

Dalla giuria venne ammessa alla XVII Biennale di Venezia del 1930 con un 
quadro raffigurante La bella addormentata, purtroppo ancora non riemerso, del 
quale Ugo Nebbia affermava che, rispetto allo “pseudo-classicismo di Leonora 
Fini”, la nostra pittrice si caratterizzava con “quel nudo ritagliato sopra un fondo 
picassiano”!. 

Elena Fondra è nota soprattutto per aver partecipato all’arredo dei più mo- 
derni transatlantici, diventando una delle decoratrici predilette dall’architetto 
Gustavo Pulitzer Finali”, insieme a nomi molto affermati (Gio Ponti, Libero 
Andreotti, Pietro Chiesa, Antonio Maraini, Massimo Campigli, Gino Severini), 
e a giovani artisti (Augusto Cernigoj, Marcello Mascherini, Maryla Lednicka, 
Giulio Rosso) “attenti alle novità formali, provenienti non soltanto dall’area mi- 
lanese, e capaci anche di proporre originali interpretazioni artistiche, rielaborate 





16 ‘Trascrizione del settimanale triestino “Marameo!” del 26 Settembre 1930, presente in Grassi 


2013-2014, p. 156. 

17 Sambo 1930, p. 34. 

18 “Domus”, VIII, 1930, 16, p. 38. 

9 Nebbia 1930, p. 289. 
Pulitzer Finali 1935; Riccesi 1985; Fochessati 2009; Fochessati 2017, a cui si rimanda per ogni 
ulteriore bibliografia. 


284 


comunque su basi formali novecentiste, talvolta ispirate al Secondo Futurismo di 
Prampolini”. Gio Ponti era un ammiratore di tale gruppo, infatti sulle pagine 
di “Domus” dichiarò che dalle “decorazioni, dai ricami, dalle pitture, dai metalli, 
dai disegni, dagli arredamenti di questi artisti è palese la testimonianza di un cli- 
ma estetico moderno caratteristicamente elevato e che costituirà uno dei termini 
del rinnovamento delle arti decorative nostre”??. 

Nei dipinti parietali che Elena Fondra ideò per gli arredi navali si riscontrano 
tangenze formali con lo stile déco di Gio Ponti e con quello di Giulio Rossi, 
un altro dei più interessanti decoratori italiani dell’epoca, inserito a pieno titolo 
nell’opera di Ponti; ma anche il triestino Guido Andlovitz deve essere stato un 
riferimento per la nostra artista. 

Iniziò questa attività nel 1928 con il varo del Conte Grande”, per poi prose- 
guire con il Victoria nel 1931”, e con il Conte di Savoia nel 1932”. 

Sono gli anni d’oro della cantieristica giuliana di anteguerra. I cantieri nava- 
li triestini, a partire dalla fine degli anni Venti, nella progettazione degli arredi 
vennero dominati dallo studio STUARD, diretto dal suo fondatore, l'architetto 
Gustavo Pulitzer Finali, che fu saldamente legato alla famiglia Cosulich, proprie- 
taria, oltre che di molteplici imprese industriali marittime e finanziarie, anche 
del Lloyd Triestino, la gloriosa compagnia di navigazione di Trieste. Con Pulitzer 
l'arredamento navale portò una ventata di modernità, lontano dal linguaggio 
eclettico e scenografico del primo dopoguerra promosso dalla casa Ducrot di 
Palermo e dallo studio Coppedè di Firenze; ispirandosi alle soluzioni funzionali 
del Bremen (1929), Pulitzer adottò soluzioni decorative di gusto novecentista 
di immediata lettura, stilisticamente armoniose fra interni ed esterni, concepite 
per avvolgere il passeggero in un'atmosfera pittoresca e rassicurante, allietata da 
tutti i comfort. Fu con la motonave Victoria che il Pulitzer riuscì a realizzare un 
armonico progetto di arredo, adeguandosi all’assetto tecnologico che, seguendo 
postulati modernisti, non veniva nascosto. 

Lunica fonte che documenti l’attività della nostra pittrice nell’ambito della 
decorazione navale sono gli articoli della rivista “Domus”, con le poche immagini 
fotografiche che vi si trovano pubblicate. 

Elena Fondra nel Conte Grande dipinse le pareti della sala dei giochi con 
soggetti esotici e marini in uno stile spensierato e stilizzato che guardava ai con- 
temporanei esiti dell'art déco francese (fig. 4), mentre nella motonave Victoria fu 
autrice della decorazione con soggetti circensi alle pareti della sala giochi destina- 
ta all’infanzia e dipinse un Paesaggio veneziano su uno specchio “con tecnica ori- 
ginalissima” (figg. 5-6). Invece per il Conte di Savoia creò i pannelli con paesaggi 
italiani per la sala da pranzo di prima classe (almeno nove, fra cui Trieste, Lago di 
Como, Bogliasco, Bologna, Napoli) e i pannelli decorativi per la saletta da pranzo 


21 Vatta 1998, p. 84. 

2 “Domus”, VIII, 1930, 16, p. 38. 

3 Felice 1929, p. 27. Probabilmente Gio Ponti (“Domus”, VIII, 1930, 16, p. 38) ha confuso 
il Conte Grande con il Vulcania, poiché l’unico articolo di “Domus” che prima di questa data aveva 
illustrato decorazioni parietali eseguite per un transatlantico da Elena Fondra era quello del Novembre 
1929 (Felice 1929, p. 27) dove si illustrava la sala giochi per bambini del Conte Grande. 

% Ponti 1931; Pulitzer Finali 1935, pp. 1-23; Staccioli 1979. 

2. Ponti 1933; Pulitzer Finali 1935, pp. 25-111. 


285 


Fabio Sottili 





dei bambini (figg. 7-11). 

Il Conte Grande compì il suo viaggio inaugurale il 13 Aprile 1928 sulla rotta 
Genova — Napoli — New York, in seguito però destinato "i servizio di linea col 
Sud America. Diversamente il Victoria venne ideato per la linea Trieste — Ales- 
sandria d'Egitto, rotta che seguì a partire dal 27 Giugno 1931, ma poi estesa fino 
all Estremo Oriente. Invece il Conte di Savoia fu un gigante di 48000 tonnellate, 
gemello del più famoso Rex, che prese il mare il 30 Ottobre 1932 con lo scopo di 
traversare l’oceano fino agli Stati Uniti. 

Alcune opere di Elena Fondra vennero esposte anche alla Triennale di Milano 
del 1930°°, così come nella Triennale del 19337, quando realizzò la Dormien- 
te (fig. 12) e uno degli “affreschi fra i più significativi della Mostra milanese”?8 
intitolato Invito al viaggio (fig. 13), ottenendo due medaglie d’oro e il diploma 
d’onore: qui sicuramente il successo era dovuto alla leggerezza ed estraniamento 
che le sue schematiche figure proponevano, apparendo da un fondo evanescente 
che unificava luoghi diversi come in un sogno. 

Tornò ad esporre nuovamente alla Triennale del 1936 con un pannello deco- 
rativo raffigurante Arianna (fig. 14). Il soggetto di Arianna, caro alla sensibilità 
metafisica”, è stato più volte presente E sue opere e diventa protagonista di 
quest'olio su tavola in origine quadrato” (fig. 15), la cui composizione è domi- 
nata da un’inerzia fatata, vagamente opprimente, che ricorda le spiagge incantate 
di Arturo Nathan. La posa riecheggia quella della figura di fondo di Serenata ese- 

uito verso il 1934 (fig. 16), e lo stile pittorico è vicino a quello di Achille Funi 
fig. 17), ai pannelli i dipinti per il transatlantico Conte di Savoia e a 
quelli eseguiti nel 1933 per la Triennale di Milano. La figura, il cui volto sembra 
modellato su quello della stessa pittrice, è seduta come molti personaggi classi- 
cheggianti di De Chirico, tiene in mano il filo che consegnerà a Teseo e indossa 
un abito punteggiato di stelle, allusivo alla sua futura incoronazione in occasione 
delle nozze con Dioniso. Al corteo del dio dell'ebrezza appartiene il suonatore di 
aulos posto in secondo piano fra delle colonne, mentre sulla sinistra due piccole 
figure metafisiche ammantate conversano sulla costa di quella che si ritiene essere 
l’isola di Naxos, dove Arianna venne trovata in lacrime da Dioniso. Il quadro 


26 Si trattava di bozzetti di scene e di costumi e un paravento laccato da lei decorato. Cfr. Catalogo 


ufficiale della IV Esposizione Triennale 1930, pp. 62, 226. 

7 Catalogo ufficiale della V Triennale 1933, p. 348. 

28 “Il secolo illustrato”, 10 Giugno 1933, anno XXII, n. 23, s. n. 

2 De Sanna 2004. 

3 Guida della VI Triennale 1936, p. 134; Arte decorativa italiana 1936, p. 65; Silvestri 1936 (qui 
intitolato erroneamente come Penelope, perché non si spiegherebbero le stelle dipinte sull’abito della 
donna, evidente riferimento ad Arianna che venne incoronata di stelle dopo il matrimonio con Dioni- 
so). Attualmente misura 99,5x79 cm, ed è firmato in basso a destra e sul retro. Era un pannello deco- 
rativo che fu esposto nella Triennale di Milano del 1936 all’interno della Galleria delle arti decorative 
e industriali, e che è stato tagliato sia a destra che a sinistra, come attesta la foto presente nell Archivio 
della Triennale. In origine era quadrato: infatti entrambe le firme sono prive delle ultime tre lettere, e 
nei lati superiore ed inferiore sono presenti dei fori di vite con i quali doveva essere stato fissato ad una 
parete. Proviene da una collezione privata bolognese, ed è stato venduto all’asta Farsetti del 27 Ottobre 
2018 (lotto 532), dove era indicato come “Ignoto del XX secolo, Figura allegorica”. Cfr. Guida della VI 
Triennale 1936, p. 134; Arte decorativa italiana 1936, p. 65; Silvestri 1936 (qui intitolato Penelope in 
modo erroneo). 


286 


Elena Fondra, artista poliedrica tra ‘Novecento’ e Fellini 





venne esposto nella Galleria delle arti decorative e industriali della Triennale, e 
sulle pagine dei Quaderni della Triennale fu preso come esempio per smentire 
“l'accusa di una preconcetta ostilità da parte RA moderna contro la 
decorazione pittorica”?! 

Nel 1934 Elena Fondra realizzò un grande pannello statistico sullo sviluppo 
della Marina Mercantile Italiana esposto nella Seconda Mostra del Mare di Trie- 
ste (fig. 18), e, anche se col 1933 terminò il suo lavoro sui transatlantici, il soda- 
lizio con Gustavo Pulitzer continuò anche nel 1935, infatti quest’ultimo scelse la 
pittrice per l'esecuzione del fregio che avvolgeva l’ufficio della Compagnia Italia- 
na del Turismo a Londra” (fig. 19), nel quale una semplice linea ondulata veniva 
utilizzata per evocare il variegato profilo del paesaggio italiano e per raccordare le 
forme schematiche delle maggiori emergenze beni x] artistiche della 
nostra penisola. 

Fu una raffinata illustratrice (fig. 20), infatti col Lloyd Triestino la collabora- 
zione si protrasse almeno fino al 1938 disegnando a più riprese le copertine della 
rivista di viaggi di quella compagnia intitolata “Sul Mare” (figg. 21-22, 24-25), 
progettò allestimenti espositivi, e produsse manifesti pubblicitari”: esemplare è 
il bozzetto per un Manifesto del gruppo armatoriale Italia-Cosulich Lloyd Triestino- 
Adria del 1935 (fig. 26), dove “domina la potenza delle prore italiche, la lumino- 
sità dei ponti, [...] la velocità sicura che fa delle navi italiane altrettante vertebre 
di urala portentosa, spaziante su tutti i mari del mondo”*. Le varie copertine 
propongono immagini seducenti e pittoresche dominate da figure che il viag- 

iatore avrebbe incontrato nei suoi percorsi, come la donna africana (fig. 21) o 
Afrodite di Rodi” (fig. 23), realizzate a silhouette con una grafica sintetica ed 
elegante; talvolta riprendono composizioni già create dalla Fondra per la sala da 
pranzo del Conte di Savoia, come il pannello dedicato a Bogliasco (figg. 10, 25). 

L'apprezzamento nei suoi confronti già prima del 1935 portò alla commissio- 
ne di “affreschi” (forse solo dei dipinti murali o dei pannelli) nel Casinò Muni- 
cipale di Levanto, sulla costa del levante ligure, e una sua opera (non sappiamo 
quale) si trovava all’interno del Castello Sforzesco di Milano. 

Nel 1937 disegnò le scene per Nel suo candore ingenuo di Jacques Deval con la 
regia di Renzo Ricci, portato nei teatri dell'America latina per volontà di Anton 
Giulio Bragaglia’: non è la prima volta che la Fondra dimostrava di interessarsi al 
mondo del teatro, infatti già nella Triennale del 1930 aveva esposto sette bozzetti 
di scena e dei figurini teatrali. 

Alla fine degli anni Trenta (prima del 1939) la pittrice si sposò, ma del marito 


Arte decorativa italiana 1936, p. 26. 
82 Pulitzer Finali 1935, pp. 205-211; Riccesi 1985, pp. 162-164. 
Furono cinque le copertine da lei ideate, progettò pannelli per la Mostra del Mare, e parte- 
cipò nel 1935 al concorso per il Manifesto del gruppo armatoriale Italia-Cosulich Lloyd Triestino-Adria 
raggiungendo il secondo posto, ex aequo con altri tre artisti: è interessante segnalare che in quest’ultimo 
caso il vincitore del concorso risultò Lucio Fontana. Cfr. Il Duce visita la Mostra 1934; Il successo del 
grande Concorso 1935; Vatta 2000, pp. 64, 70, 76, 89, 130-131, 153. 

34 Il successo del grande Concorso nazionale 1935. 

8... L'Afrodite di Rodi, inserita dalla Fondra in una delle sue copertine per la rivista del Lloyd 
Triestino, era già stata copiata verso il 1930 da Carlo Sbisà in un disegno ora in collezione privata. 


36. Bragaglia 1937, p. 35. 


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Fabio Sottili 





sappiamo soltanto che portava il cognome degli Asti ed era possessore di miniere 
in Toscana. Andò a risiedere a Roma e il suo legame col regime fascista divenne 
molto stretto, tanto che fece costruire una propria residenza ad Asmara in Eri- 
trea, allora colonia italiana, ed ebbe l’incarico di arredare le residenze africane di 
Francesco Canero Medici, governatore di Addis Abeba, e di Amedeo di Savoia, 
duca d'Aosta e viceré di Etiopia. Fu il periodo in cui si occupò di architettura e 
di disegno d’interni, diventando una delle poche donne impegnate nella proget- 
tazione architettonica in età fascista e apprezzate da Gio Ponti”, vate del gusto 
decò italiano nel design e nelle arti applicate, e in tale veste da lui presentata sulle 
pagine di “Domus”, dopo che insieme avevano partecipato all’arredo delle più 
moderne navi da crociera agli inizi di quel decennio. 

Sulla stessa rivista “Domus” tuttavia nel 1941 venne criticata aspramente da 
Carlo Enrico Rava’? proprio per il modo con cui aveva arredato le residenze del 
viceré di Etiopia e del governatore di Addis Abeba nel 1939”. In quello stes- 
so anno si occupò anche degli interni di Villa Celestina a Castiglioncello, un 
edificio razionalista progettato dall'architetto romano Vittorio iù nel 1931 
per Attilio Teruzzi, Capo di Stato Maggiore della Milizia e Ministro dell’Africa 
Italiana“ (fig. 27). Tutte queste residenze vennero abbellite dalla nostra artista 
anche con pitture murali: nella villa toscana sopra il camino del salotto dipinse 
una Veduta di Villa Celestina dal mare secondo quello stile pittoresco e sognante 
che aveva espresso per tutto il precedente decennio, mentre nella villa del viceré 
di Etiopia propose una Natura morta con pesci (fig. 28) vicina alle contemporanee 
composizioni di Gino Severini, tese ad esaltare i valori tradizionali della cultura 
classica attraverso forme desunte dalla realtà quotidiana, esaltate dai caldi colori 
mediterranei (fig. 29). 

La sua attività nel campo dell’architettura si espresse principalmente nella rea- 
lizzazione della propria casa ad Asmara”! (fig. 30), che trovò un deciso detrattore 
in Rava, il quale la vedeva “sbandare verso le più inimmaginabili incongruità: 
prova ne siano (tanta è l’impreparazione in questo settore) gli allestimenti creati 
da Elena Fondra nella capitale dell’ Impero, per le abitazioni di alcune altissime 
personalità, allestimenti nei quali (cf. «Domus» di giugno 1939) essa ha riunito, 
in piena Africa, un’anticamera del più banale novecento da mobilificio di Cantù, 
un «boudoir», tutto stoffe, di gusto viennese, una camera da letto «parigina», un 
«soggiorno», infine, che accosta un camino di marmo giallo a mobili di palissan- 
dro lucidissimo e zebrano ed a porte rivestite di specchi, mentre un tappeto di 
scimmia, bianco e nero, ed alcuni trofei d’armi dimenticati a casaccio sole pareti, 
vorrebbero dare, suppongo, il «tocco coloniale». Ahinoi! E vero che in compen- 
so, nella sua già menzionata villetta all’Asmara, la stessa Fondra ha collocato un 





87. L'arredamento della villa del viceré era stato apprezzato perché il “tono preziosamente evoca- 


tivo e nello stesso tempo lontano da ogni retorica, è quello che segna l’opera di Elena Fondra: il gusto 
pronto e fresco, chiaro e moderno in cui gli ambienti sono creati, il loro sapore semplice di casa s'accor- 
dano con precisione in un tono più vasto di allusiva nobiltà” (cfr. Due significativi arredamenti, 1939, 
pp. 63-64). 

38 Rava 1941, p. 63. 

9 Due significativi arredamenti, 1939. 

‘0 Villa Celestina, 1939. 

41 Una casetta all’Asmara 1940; Teklé 2008, p. 63. 


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Elena Fondra, artista poliedrica tra ‘Novecento’ e Fellini 





caminetto in mattoni rossi che, come stile, starebbe bene a Cortina: forse perché 
l’Asmara è in montagna...”*?. 

Altrove invece il suo impegno in architettura è stato apprezzato poiché “the 
plain and rational small house built in 1940 in Asmara by Elena Fondra Asti can 
be regarded as the singular event of women’s involvement in the modernisation 
of Eritrea fostered by the Fascist regime”. 

La villetta di Asmara si ispira al progetto di ‘casa coloniale’ presentato da Luigi 
Piccinato alla V Triennale del 1933, ma non raggiunge esiti di tale modernità, 
infatti la purezza dei volumi che la compongono viene annullata dal cornicione 
di copertura, e le finestre non sono a nastro. Inoltre il modello di Piccinato si 
fondava sulla tradizione residenziale araba della corte interna, adattata affinché 
gli ambienti fossero confortevoli e moderni‘, mentre la costruzione della Fon- 
dra non risultava aderente all’architettura mediterranea. Rava addirittura bollava 
l’‘anonima e correttissima sciatteria pseudo-moderna di tante casette, tutte somi- 
glianti, e tutte, da Tripoli all Asmara, ad Addis Abeba, ugualmente impersonali 
ed amorfe”, fra quali naturalmente inseriva anche la casa di Elena Fondra”. 

Durante la guerra l’artista risultava risiedere a Roma, proprio quando la città 
subì il pesante Ra americano, e Leonor Fini attesta che la sua amica 
ebbe un figlio nel 1945, ma affermando malignamente che era rimasta incinta di 
un alleato. 

Anche dopo il secondo conflitto mondiale la carriera artistica di Elena Fondra 
fu prolifica e poliedrica, divenne internazionale, e anzi si arricchì di impegni nella 
lirica e nella cinematografia. Con uno studio ai Parioli di Roma dove riceveva ari- 
stocratici e attrici a cui eseguiva i ritratti, fu protagonista del jet-set internazionale 
del secondo dopoguerra fra Roma, Milano, Parigi, Atene, New York, Palermo, 
Catania, e Ischia: qui nel 1955 “Elena Fondra, la baronessa pittrice e bellissima 
donna, tiene corte aperta. Le gravitano attorno belle donne e esponenti dell’in- 
dustria in attesa di farsi ritrarre per la mostra che la Fondra terrà prossimamente 
a Nuova York”. 

Oltre alla mostra personale a New York, in quello stesso anno partecipò alla 
VII Quadriennale di Roma con Oltre il sogno, manifestazione alla quale tornò nel 
1959 con un Nudo, entrambi non riemersi. 

A partire dagli anni ’50 il suo stile pittorico cambiò, e Anton Giulio Bragaglia 
puntualmente lo descrisse nella mostra che tenne a Milano nel 1956% e in quella 
di Catania nel 19628: “Per lei — come per me — l’Astrattismo è una esumazione, 
non certo una via nuova. In questa sua seconda vita, Elena Fondra s'è rimessa 
a fare la pittura dal vero con scrupolo, come uno che ricomincia, mirando allo 
spirito proprio degli uomini e delle cose. Dopo essere passata attraverso espe- 





4 Rava 1941, p. 63. 
4. Franchini 2016, pp. 250-251. 
Alle pareti di un soggiorno aveva appeso alcune tavole di Alexandre Iacovleff della serie Croi- 
sière noire del 1926. 

5 Rava 1941, p. 61. 

46 “La rassegna d'Ischia”, XVI, 1955, 6, p. 46, nel quale è stata trascritta una lettera del 17 Set- 
tembre 1955. 

4 Elena Fondra 1956. 

48 Elena Fondra 1962. 


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Fabio Sottili 





rienze astratte e surrealiste, con amoroso impegno essa riprende oggi contatto 
con la realtà, e la sua spiccata personalità affronta il supremo metro dell’arte: il 
personaggio umano.” Infatti si concentrò principalmente sul tema del ritratto 
(fig. 31), soprattutto di persone che frequentava. Tali “ritratti hanno pregio per 
la felice analisi psicologica del soggetto — ciò ch'è fondamento del ritratto. Nelle 
altre sue composizioni [paesaggi, nature morte, soggetti mitologici] affiorano, 
costanti, lucide memorie dell’infanzia da lei trascorsa in un paese dove gli dei 
sono familiari ed il mito è realtà. Un vero fantastico e poetico. Elena fonda mi 
pare esempio di onestà senza letteratura e senza presunzione. Bella cosa, per uno 
che ritorna daccapo, cercare l’umile silenzio dentro di sé, nel grande frastuono di 
questa Babele dalle mille lingue, ch'è il mondo della pittura”. 

In queste mostre, oltre a rimanere ancora legata a temi della classicità (Didone, 
Dafne, Arianna, Leda, L'Ellesponto, Il Tempio di Sunion, Delfi e il Peloponneso) o 
ad echi metafisici (Le amanti di pietra, Malinconia, La bella addormentata), dimo- 
strava la sua predilezione per la natura morta, per il paesaggio, ma soprattutto per 
il ritratto, immortalando i volti di coloro che la circondavano, a partire dal figlio, 
fino a delineare le fattezze di artisti (Leonor Fini e lo scultore Assen Peikov), di 
attrici in voga (Sofia Loren, Daniela Rocca e Tamara Lees), di nobili italiani (qua- 
li Rosanna Romeo Del Castello, la contessa Silvia Piscicelli, il principe Roland 
Brancaccio, la duchessa Carmela di Misterbianco, e il conte Filippo Canaletti 
Gaudenti). 

Anche Diego Calcagno apprezzò i lavori che lei portò a termine in questa 
fase: “Elena Fondra, per grazia di Dio, non mi ha fatto il ritratto. Sono io che ho 
guardato a lungo, e con ammirata emozione, le sue tele. Ritratti, paesaggi, nature 
morte, queste tele mi sono apparse cariche e fiammanti. Esse sprigionano una 
accesa personalità. Si tratta di una pittrice che, pur essendo donna bella e affasci- 
nante, possiede una forte virilità artistica. Un’anima che, tra Giorgio De Chirico 
e il Tintoretto, sa dire con forza, con irruenza, con ricchezza, con baldanza, il 
fatto suo. Il disegno, nei quadri di Elena Fondra, ha quella robustezza che manca 
a tanti «effettisti» dai vaghi e misteriosi ghirigori”*. L’amabile prosa di Diego 
Calcagno pubblicata su “Il Tempo” vedeva nei quadri della Fondra un sapiente 
uso del colore perché “ha una essenzialità, un benessere, un volume, un peso che 
fa impressione. Non è piano, è profondo, sembra entrare nel sangue delle donne, 
degli uomini, delle frutta, delle case e delle pietre. Ho insomma la sensazione di 
trovarmi di fronte a una vera pittrice. Il vecchio dubbio, dinanzi al caso Fondra, 
scompare. Le donne non debbono dipingere, le donne non sanno dipingere? 
Non è così. Ecco una donna che dipinge meglio di tanti uomini. Essa vendica 
dunque il suo sesso e gli assegna, tra le tante altre universalmente accettate, una 
nuova interessante vittoria”, 

Rimase legata artisticamente ad Alberto Savinio e a Giorgio De Chirico, come 
dimostrano i suoi Autoritratti degli anni Cinquanta (figg. 31-32), nei quali leco 
della fase barocca del pittore della Metafisica si fa forte too. 33). Carlo Tridenti, 
l'autorevole critico d’arte che scriveva sul Giornale d’Italia”, esprimeva la sua ap- 
provazione nei confronti dei ritratti di Elena Fondra: “Parla del resto per la Fon- 


4 Elena Fondra 1956. 
50. Idem. 


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Elena Fondra, artista poliedrica tra ‘Novecento’ e Fellini 





dra, a testimonianza delle qualità che la caratterizzano, l’Autoritratto, un’opera da 
non dimenticare, un’opera di notevole bellezza e indovinate un po’, somigliante; 
infine la forza espressiva, il rigore di tratto, la finezza psicologica e l’intimo calore 
degli «inchiostri» provano a chi abbia occhi, che ci si trova di fronte ad un'artista 
ricca di doti alquanto rare, la cui fresca istintività appare, grazie a Dio, sostenuta 
da una lunga e fruttuosa esperienza”. Così come una costante rimase l'amicizia 
con Leonor Fini (fig. 34). 

Stefano Terra Ai secolo Giulio Tavernari), giornalista corrispondente RAI dai 
Balcani e dal Medio Oriente, conobbe la pittrice ad Atene alla fine degli anni 
Cinquanta, quando con le sue opere aveva conquistato l’alta società greca, tanto 
da avere l’onore di ritrarre la regina Federica. Di lei scrisse che aveva “la lucidità 
dei De Chirico e l’amorosa cattiveria di un Tommaseo. Questo riconoscimento 
totale e generoso della Grecia moderna per la sua pittura non è certo casuale”??. 

I rapporti con Gio Ponti continuarono anche nel dopoguerra, com'è attestato 
da cinque lettere degli anni 1950-51 conservate presso l'archivio dell’architetto 
a Milano. 

Fu interprete musicale come mezzo soprano nei primi anni Cinquanta, tenen- 
do concerti in teatri prestigiosi e alla radio nazionale”. Ebbe anche una carriera 
da attrice interpretando la contessa Von Marstrand (fig. 35) nel film Vacanze 
romane del 1953 (in verità poco più di una comparsata), e soprattutto nella veste 
di Elena (amica di Giulietta) in Giulietta degli Spiriti di Federico Fellini nel 1965, 
probabilmente una figura autobiografica - ricalcava il carattere e i modi della 
nostra artista, congeniali aaa onirica e surreale del film che a Fellini valse 
il Golden Globe come miglior film straniero nel 1966 (figg. 36-37). 

Gli Stati Uniti spesso la accolsero benevolmente, infatti prima del 1962 re- 
alizzò “affreschi” nella chiesa di Our Lady of Lourdes a New York, vi tornò nel 
1964 per un tour di mostre personali allestite in varie città, e nel Febbraio 1966 
fu di nuovo a New York, come testimonia un veloce profilo fattole dallo scultore 
William Zorach, quando lei lo andò a trovare nel suo studio?‘ (fig. 38). 

Morì il 1 Ottobre 1968, e la sua tomba si trova a Roma nel Cimitero Flami- 
nio. 





9 Elena Fondra 1962. 

2 Idem. 

53. L8 Agosto 1952 partecipò ad un concerto per radio col chitarrista Mario Gangi (“Avanti”, 
8 Agosto 1952, p. 4), mentre il 13 e 14 Febbraio 1955 fu una dei solisti del concerto “L Enfant et les 
Sortileges” di Ravel al Teatro Argentina di Roma (“L'Unità”, 12 Febbraio 1955, p. 5). 

5 Il disegno è dedicato “To Elena Fondra. Remembering a very pleasant visit to my studio. Feb. 
6th 1966”. È stato realizzato a inchiostro su carta (29,5x22 cm), ed è contenuto in un volume di John I. 


H. Baur rilegato con numerose illustrazioni a penna a sfera e disegni a inchiostro blu del 1959, passato 
a New York, nell’asta Swann Galleries del 22 Giugno 2006, lotto 278. 


291 


Fabio Sottili 





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TexLé L., La casa in colonia: il modello Asmara, in Asmara. Architettura e pianifica- 
zione urbana nei fondi dell’ISIAO, a cura di G. Barrera, A. Triulzi, G. Tzeggai, 
Roma 2008, pp. 60-67. 

VatTA S., Le gallerie galleggianti. Cernigoj decoratore, in Augusto Cernigoj (1898- 
1985): la poetica del mutamento, catalogo della mostra (Trieste, 1998-1999), a 
cura di M. Masau Dan, F. De Vecchi, Irieste 1998, pp. 79-95. 

Varta S., Sul Mare. Grafica pubblicitaria ed editoriale attraverso le copertine della 
rivista di viaggi del Lloyd Triestino dal 1925 al 1944, Trieste 2000. 


293 


Fabio Sottili 





Appendice: 


Elenco delle opere di Elena Fondra” 


1928 


1929 


1930 


1931 


Decorazione con soggetti esotici e marini alle pareti della sala dei 
giochi del transatlantico “Conte Grande”, progettato dall’architetto 
Gustavo Pulitzer Finali - distrutto 


Opere esposte nella ZI Esposizione del Sindacato Regionale Fascista delle 
Belle se presso la Galleria Michelazzi di Piazza Unità a Trieste (giugno 
1929): 

Civiltà 

Natura morta con limoni 

Evocazione 

Malinconia — dipinto rifiutato 


Opere esposte nella ZII Esposizione del Sindacato Regionale Fascista degli 
artisti presso il Padiglione Municipale del Giardino Pubblico a Trieste 
(ottobre 1929): 

Il parco dei divertimenti 

Nudo 

Verso il 1929 realizza il quadro Terra vergine, olio, ubicazione scono- 
sciuta 


Opere esposte nella IV Esposizione d'arte del Sindacato Regionale Fascista 
Belle Arti della Venezia Giulia presso il Padiglione Municipale del Giar- 
dino Pubblico a Trieste (15-30 settembre 1930): 

Suonatore di fisarmonica?, ubicazione sconosciuta 

Dormiente 


Opere esposte alla XVII Biennale di Venezia: 
La bella addormentata 


Spe esposte alla Triennale di Milano: 
7 bozzetti di scene e figurini teatrali 
paravento laccato da lei decorato 


Decorazione con soggetti circensi alle pareti della sala giochi per 
bamnini e uno specchio dipinto con una veduta di Venezia nella mo- 
tonave “Victoria”, progettata dall’architetto Gustavo Pulitzer Finali - 
distrutta 





55 


Tale elenco è stato realizzato attraverso la consultazione di monografie, cataloghi, e articoli 


pubblicati su riviste e giornali. 


56 


294 


Opera riprodotta nel catalogo dell'esposizione triestina. 


Elena Fondra, artista poliedrica tra Novecento e Fellini 





1932 


1933 


1934 


1935 


1936 


Realizza pannelli con paesaggi italiani per la sala da pranzo di prima 
classe e pannelli decorativi per la saletta dei bambini del transatlan- 
tico “Conte di Savoia”, progettato da Gustavo Pulitzer Finali (almeno 
nove quelli della sala da pranzo di prima classe, fra cui Trieste, Lago di 
Como, Bogliasco, Bologna, Napoli) - dispersi 


Opere esposte alla Triennale di Milano: 

Invito al viaggio, pittura murale realizzata nel vestibolo per un ufficio 
viaggi a Trieste, allestito nell'’ammezzato della Mostra Internazionale dei 
Trasporti su progetto dell’architetto Gustavo Pulitzer Finali - distrutta 
Dormiente, pittura murale realizzata nel vestibolo per un ufficio viaggi 
a Trieste, allestito nell'’ammezzato della Mostra Internazionale dei Tra- 
sporti su progetto dell’architetto Gustavo Pulitzer Finali - distrutta 


Opere esposte alla II Mostra del Mare di Trieste e alla V Mostra del Le- 
vante a Bari: 

almeno due grandi pannelli statistici sullo sviluppo della marina 
mercantile italiana realizzati nel padiglione del gruppo “Italia, Cosu- 
lich, Lloyd Triestino, Adria” - dispersi 


Copertina della rivista “Sul Mare” (anno X, n.1, gennaio-febbraio 
1934), rivista di viaggi del Lloyd triestino 


Nel 1934 ca. realizza il quadro Serenata, ubicazione sconosciuta 
Prima del 1935 realizza “affireschi” nel Casinò Municipale di Levanto 


Prima del 1935 una sua opera si trovava all’interno del Castello Sfor- 
zesco di Milano 


Fregio esaltatorio dell’Italia nell’ufficio della Compagnia Italiana 
Turismo a Londra su progetto dell’architetto Gustavo Pulitzer Finali - 
distrutto 


Italia mediterranea, Copertina della rivista “Sul Mare” (anno XI, n.1, 
gennaio 1935), rivista di viaggi del Lloyd triestino 


Terra di Gesù, tempera, 1935, ubicazione ignota 


Bozzetto per concorso di un manifesto pubblicitario per il gruppo 
armatoriale Italia-Cosulich-Lloyd Triestino-Adria 


Opere esposte alla Triennale di Milano: 
Arianna, olio su tavola, 99,5x79 cm, Firenze, collezione privata (già asta 
Farsetti 27 Ottobre 2018, lotto 532, dove era ritenuto di “Ignoto del XX 
secolo”; già Bologna, collezione privata) 


Copertina della rivista “Sul Mare” (anno XII, n.3, marzo 1936), rivi- 
sta di viaggi del Lloyd triestino 


295 


Fabio Sottili 


Elena Fondra, artista poliedrica tra ‘Novecento’ e Fellini 








1937 


1938 


1939 


1955 


1956 


296 


Disegna le scene per “Nel suo candore ingenuo” di J. Deval, per la 
regia di Renzo Ricci 


Alcune sue illustrazioni in b/n vengono riprodotte nella rivista “Sul 
Mare”, 1937, n. 2 


Copertina della rivista “Sul Mare” (anno XIV, n.7-8, luglio-agosto 
1938), rivista di viaggi del Lloyd triestino 


Dipinto murale con la Veduta di Villa Celestina dal mare sopra il ca- 
mino del salotto di Villa Celestina a Castiglioncello su commissione di 
Attilio Teruzzi - distrutto 


1959 
Arredamento della residenza del viceré di Etiopia, dove dipinge una 

Natura morta nella sala da pranzo - distrutta 

Arredamento della residenza del governatore di Addis Abeba 

Progettazione della sua casa ad Asmara 

Mostra personale a New York 


Opere esposte alla VII Quadriennale di Roma: 
Oltre il sogno 


1962 


Opere esposte nella Mostra presso la Galleria Montenapoleone di Milano: 
Autoritratto, olio, ubicazione sconosciuta 
Didone, olio 

Dafne 1955, olio 

Contessa Silvia Piscicelli, olio 
Principe Roland Brancaccio, olio 
Scultore Assen Peikov, olio 
Signora Anna Grossi, olio 

Mio figlio, olio 

Giovanella, olio 

Gian Leone Suzzi, olio 

Giovanna Suzzi, olio 

Intimità, olio 

Concerto, olio 

Conchiglie al tramonto, olio 
Cocomero e uva a Ischia, olio 
Ricordo di Siracusa, olio 

Frutta al mattino, olio 

Il faro abbandonato, tempera 

Le amanti di pietra, tempera 
L'Ellesponto, tempera 

Arianna, tempera 

Il borgo, tempera 

Un mondo perduto, tempera 


1964 
1966 


La gioia di vivere, tempera 
La collana di capelli, disegno 
L’adolescente, disegno 
Malinconia, disegno 

Leda, disegno 

La modella, disegno 

Studio di nudo, disegno 
Studio di nudo, disegno 
Accademia, disegno 


Opere esposte alla VIII Quadriennale di Roma: 
Nudo 


Prima del 1962 ha eseguito affreschi nella chiesa di “Our Lady of Lou- 
rdes” a New York 


Prima del 1962 ha realizzato il Ritratto della regina Federica di Grecia, 
ubicazione ignota 


Prima del 1962 ha allestito mostre personali a Parigi, Roma, Milano, 
New York, Atene, Palermo 


Mostra all Hotel Excelsior di Catania: 
Duchessa Carmela di Misterbianco 
Rosanna Romeo Del Castello 
Autoritratto, ubicazione sconosciuta 
Sofia Loren 

Conte Filippo Canaletti Gaudenti 
Daniela Rocca 

Tamara Lees 

La pittrice Leonor Fini, ubicazione sconosciuta 
Autoritratto al vento 

Il Tempio di Sunion (Grecia) 

Delfi e il Peloponneso (Grecia) 

La brasiliana 

Frutta e farfalle 

Conchiglie al tramonto 

Tulipani 

La bella addormentata 

Cocomero e tempesta 

La principessa orientale 

Il guanto nero 

Il bouquet 

Uva e melagrane 


Tour di mostre personali negli Stati Uniti 


Nel Febbraio è a New York nello studio dello scultore William Zorach 


297 


Fabio Sottili Elena Fondra, artista poliedrica tra ‘Novecento’ e Fellini 











Fig. 1: Elena Fondra nel 1934 circa Fig. 2: Elena Fondra, Suonatore di fisarmonica, 1930, ubicazione ignota 


298 299 


Fabio Sottili Elena Fondra, artista poliedrica tra ‘Novecento’ e Fellini 











Fig. 3: Elena Fondra, Terra vergine, olio su tela, 1930 ca., ubicazione ignota Fig. 4: La sala dei bambini con le pareti decorate da Elena Fondra nel 1929. Transatlantico “Conte Grande” 


300 301 


Fabio Sottili Elena Fondra, artista poliedrica tra ‘Novecento’ e Fellini 











Fig. 6: Specchio dipinto da Elena Fondra nel 1931 con una Veduta di Venezia. Motonave “Victoria”, 
Fig. 5: La sala giochi per bambini con le pareti decorate da Elena Fondra nel 1931. Motonave “Victoria” sala da fumo 


302 303 


Fabio Sottili Elena Fondra, artista poliedrica tra ‘Novecento’ e Fellini 











Fig. 7: Vedute della sala da pranzo di prima classe abbellita dai pannelli con Paesaggi italiani realizzati Fig. 8: Elena Fondra, Trieste, pannello, 1932. Transatlantico “Conte di Savoia”, sala da pranzo di prima 
da Elena Fondra nel 1932. Transatlantico “Conte di Savoia” classe 


304 305 


Fabio Sottili Elena Fondra, artista poliedrica tra ‘Novecento’ e Fellini 











Fig. 9: Elena Fondra, Lago di Como, pannello, 1932. Transatlantico “Conte di Savoia”, sala da pranzo Fig. 10: Elena Fondra, Bogliasco, pannello, 1932. Transatlantico “Conte di Savoia”, sala da pranzo di 
di prima classe prima classe 


306 307 


Fabio Sottili Elena Fondra, artista poliedrica tra ‘Novecento’ e Fellini 











Fig. 12: Elena Fondra, Dormiente, pittura murale. Triennale di Milano del 1933, vestibolo per un ufficio 
viaggi a Trieste, allestito nell’ammezzato della Mostra Internazionale dei Trasporti 





Fig. 11: Elena Fondra, Bologna, pannello, 1932. Transatlantico “Conte di Savoia”, sala da pranzo di 
prima classe 


308 309 


Fabio Sottili Elena Fondra, artista poliedrica tra ‘Novecento’ e Fellini 











Fig 13: Elena Fondra, Invito al viaggio, pittura murale. Triennale di Milano del 1933, vestibolo per un Fig. 14: Elena Fondra, Arianna, olio su tavola, 1936, collezione privata, già Prato Asta Farsetti 27 
ufficio viaggi a Trieste, allestito nell'ammezzato della Mostra Internazionale dei Trasporti Ottobre 2018 (lotto 532) 


310 311 


Fabio Sottili Elena Fondra, artista poliedrica tra ‘Novecento’ e Fellini 











Fig 15: Elena Fondra, Arianna, olio su tavola. Foto realizzata quando l’opera fu esposta alla VI Trien- 
nale di Milano del 1936 Fig. 16: Elena Fondra, Serenata, 1934 ca., ubicazione sconosciuta 


312 313 


Fabio Sottili Elena Fondra, artista poliedrica tra ‘Novecento’ e Fellini 








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Fig. 18: Elena Fondra, Particolari di un grande pannello statistico sullo sviluppo della Marina Mercan- 
Fig. 17: Achille Funi, Donna e fiori, olio su tela, 1930, Venezia Asta Fidesarte 27 Ottobre 2018 (lotto 72) tile Italiana esposto nella Seconda Mostra del Mare di Trieste, 1934 


314 315 


Fabio Sottili Elena Fondra, artista poliedrica tra ‘Novecento’ e Fellini 

















Fig. 19: Elena Fondra, Fregio esaltatorio dell'Italia nell'ufficio della Compagnia Italiana Turismo a Londra, 1935 Fig. 20: Elena Fondra, Terra di Gesù, tempera, 1935, ubicazione ignota 


316 317 


Fabio Sottili Elena Fondra, artista poliedrica tra ‘Novecento’ e Fellini 








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SUL MARE 


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Fig. 21: Elena Fondra, Bozzetto per copertina della rivista “Sul Mare”, Gennaio-Febbraio 1934, tempera Fig. 22: Elena Fondra, /talia mediterranea, Copertina della rivista “Sul Mare”, Gennaio 1935. Trieste, 
su carta. Trieste, Archivio Storico del Lloyd Triestino Archivio Storico del Lloyd Triestino 


318 319 


Fabio Sottili Elena Fondra, artista poliedrica tra ‘Novecento’ e Fellini 


SUL MARE" 











Fig. 23: Venere accovacciata, copia romana da un originale in bronzo della seconda metà del III sec a.C. Fig. 24: Elena Fondra, Copertina della rivista “Sul Mare”, Marzo 1936, anno XII, n. 3. Trieste, Archivio 
Rodi, Museo Archeologico Storico del Lloyd Triestino 


320 321 


Fabio Sottili Elena Fondra, artista poliedrica tra ‘Novecento’ e Fellini 








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PER TUTTO IL MONDO 


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Fig. 25: Elena Fondra, Copertina della rivista “Sul Mare”, Luglio-Agosto 1938, anno XIV, n. 7-8. Trieste, Fig. 26: Elena Fondra, Bozzetto per manifesto del gruppo armatoriale Italia-Cosulich Lloyd Triestino-Adria, 
Archivio Storico del Lloyd Triestino 1935. Trieste, Archivio Storico del Lloyd Triestino 


322 323 


Fabio Sottili Elena Fondra, artista poliedrica tra ‘Novecento’ e Fellini 








dedi? vi noia a i 
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Fig. 28: = Fondra, Natura morta con pesci, pittura murale, 1939. Addis Abeba, Villa del Viceré 
d'Etiopia, sala da pranzo 





Fig. 27: Elena Fondra, Arredamento del soggiorno e della sala da pranzo di Villa Celestina a Casti- 
glioncello, 1939. Sopra il camino della sala da pranzo è visibile il dipinto murale con la Veduta di Villa 
Celestina dal mare realizzato da Elena Fondra. Fig. 29: Gino Severini, Natura morta con pesci, affresco intelato, 1936, collezione privata 


324 325 


Fabio Sottili Elena Fondra, artista poliedrica tra ‘Novecento’ e Fellini 











Fig. 30: Elena Fondra, Casa dell’artista ad Asmara, 1940 Fig. 31: Elena Fondra, Autoritratto I, olio su tela, 1955, ubicazione ignota 


326 327 


Fabio Sottili Elena Fondra, artista poliedrica tra ‘Novecento’ e Fellini 











Fig. 33: Giorgio De Chirico, Autoritratto, 1955, olio su tela, collezione privata, già Milano Asta 
Fig. 32: Elena Fondra, Autoritratto II, olio su tela, 1955, ubicazione ignota Christie's 29 Maggio 2012 (lotto 40) 


328 329 


Fabio Sottili Elena Fondra, artista poliedrica tra ‘Novecento’ e Fellini 














Fig. 35: Elena Fondra nelle vesti della contessa Von Marstrand nel film Vacanze romane di William 
Fig. 34: Elena Fondra, Ritratto presunto di Leonor Fini, ante 1962, ubicazione ignota Wyler, 1953 


330 331 


Fabio Sottili Elena Fondra, artista poliedrica tra ‘Novecento’ e Fellini 











Fig. 36: Elena Fondra e Federico Fellini sul set del film Giulietta degli Spiriti, 1965 Fig. 37: Valentina Cortese ed Elena Fondra nel film Giulietta degli Spiriti di Federico Fellini, 1965 


332 333 


Fabio Sottili 





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38: William Zorach, Profilo di Elena Fondra, inchiostro su carta, 1966. Contenuto in un volume di 
KE I. H. Baur passato a New York nell’Asta Swann Galleries del 22 Giugno 2006 (lotto 278) 


334 


Quasi un diario. I “Ricordi artistici” di Ferdinando Folchi 





STEFANO RENZONI 


Siamo un po’ tutti schiavi di una visione almeno parzialmente romantica 
dell’arte: l'artista di fronte al tormento della creazione, al rovello di un’espres- 
sione artistica dove s'intrecciava il talento e la volontà comunicativa. Certo, fu 
anche così, ma fino almeno al XIX secolo bisognerebbe ricordarsi che l’arte spesso 
fu anche ben altro: l’atelier, insomma un luogo dove poter lavorare. Qualcuno 
che veniva a mettere ordine. Una modella incauta che s'intratteneva anche dopo 
l'orario d'ufficio (come nei formidabili disegni di Hayez). Un posto dove lavorare 
dalla mattina alla sera, e pensare innanzi tutto a mettere su il pranzo con la cena. 
L'arte era innanzi tutto un mestiere, a volte anche arte, ma prima di tutto un 
mestiere, magari noioso, magari polveroso. 

Ferdinando Folchi è uno di quei pittori ottocenteschi che molto lavorarono, 
pur senza riscattare la propria carriera da un profilo ritenuto medio-basso. Fu 
assai prolifico, dipinse in tutta la Toscana e anche altrove, e come un ragioniere 
tenne un quaderno assai preciso di tutto quello che fece. Soggetto, committente, 
dimensioni, soldi. Una sorta di computisteria artistica che in effetti contrasta 
con i voli di chi crede ai poeti assetati di luce e di serti vegetali. Non è certo que- 
sto il luogo dove ricostruire la carriera del Folchi, ma i suoi “Ricordi artistici”, 
messi in bella poi, come un documento che per il suo autore aveva un valore 
memoriale, sono la base necessaria per chi lo vorrà fare. Si sono studiati pittori 
ben peggiori". 

Disciplinato allievo dell’Accademia fiorentina (dove entrò nel 1834), e dun- 
que di Bezzuoli, Benvenuti e Sabatelli, Ferdinando Folchi (Firenze 2 maggio 
1822 - 20 agosto 1883) fu così bravo da vincere dei premi, compreso quello per 
il pensionato romano (1843). La sua carriera si svolse comunque in gran parte nel 
Mugello, e fu assai vasta e diramata e così dignitosamente accetta, da trovar posto 
anche in luoghi di prestigio, come ad esempio nel quartiere della Meridiana di 
palazzo Pitti. La sua pittura raramente si sollevò da un tono medio di discreta 
persuasività, con una propensione per i toni sucré, lievi, e una costruzione dida- 
scalica e spesso narrativa delle scene. Fu insomma un abile divulgatore di idee e 
propensioni nate altrove, e questo fece la sua fortuna. 

Ripercorrere il suo diario di lavoro (da sempre noto agli studiosi, ma mai pub- 





1 Per un orientamento biografico sul pittore cfr. almeno due testi, con ampia bibliogra- 
fia precedente: E, BIANCHI, Folchi Ferdinando, in “Dizionario Biografico degli Italiani”, vol. 
48, 1997, ad vocem; I fatti gloriosi compiuti da donne italiana. Un episodio di Romanticismo 
storico in Palazzo Trombetta a Pontassieve, a c. di M. Bietti, Firenze 2009.V. anche S. BIETO- 
LETTI, La Scuola di pittura all'Accademia di Firenze 1815-1860, in Accademia di Belle Arti di Firenze. 
Pittura 1784-1915, a cura di S. Bellesi, vol. I, Firenze 2017, pp.120 e 137 n. 166. 


335 


Stefano Renzoni 





blicato) significa dunque non solo favorire qualche attribuzione per tele sperdute 
nella campagna toscana, ma anche misurare l'identità di un pittore di seconda 
fila, e cosa voleva dire fare l'attore non protagonista in un secolo come il XIX. 


La presente trascrizione è stata redatta al solo scopo di fornire alla lettura degli 
studiosi e degli appassionati un testo di riferimento di facile consultazione, senza 
però alcun intento filologico. E’ un inizio, che spero possa servire da traccia per 
ricerche più approfondite. 


Ricordi artistici di Ferdinando Folchi 
c. lr. Lavori eseguiti da me Ferdinando Folchi pittore e prezzi dei medesimi 


dall’anno 1844 a tutto 
Luglio 20. Quadro a olio rappresentante la Incoronazione della Madonna per la cappella 
della villa del signor Ferdinando Ristori a Monte Reggi Alto m. 2 largo m. 2. 168. 


Novembre 14. Da Granduca Leopoldo II per due quadretti uno rappresentante unor- 
fanella, l’altro una festa religiosa per i bambini degli asili infantili. 224. 


Dicembre 11 . Dalla Granduchessa Maria Antonia per un piccolo quadro rappresentante 
una scena dell’Inondazione di Firenze per il suo album. 


c. lv. [Dicembre] 16. Dal Granduca Leopoldo II per un quadro rappresentante 
l’Inondazione avvenuta in Firenze in quell’anno. 84. 


Anno 1845 
Gennaio 9. Dal conte Maletti per una piccola riproduzione del Inondazione. 56. 


Aprile 18. Per una Madonna fatta per la chiesa di Sant Antonio in Dicomano. 28. 


Agosto 19. Per uno sfondo fatto alla cappella del signor Ferdinando Ristori a Mon- 
te Reggi rappresentante la Vergine Assunta 33, 60. 


Settembre 15. Dalla marchesa Vettori per pittura fatta nel suo palazzo in vicolo de 
Tintori. 42. 


2 Il manoscritto è conservato a Firenze, presso la Biblioteca degli Uffizi, Manoscritti, 320. Si 


tratta di un registro manoscritto privo di cartulazione originale, successivamente numerato da c. 1 a c. 
46 con coperta in cartone decorato, verosimilmente una bella copia, realizzata su un quaderno comune 
a righe ad uso scolastico. Ogni pagina è suddivisa in quattro colonne: la prima colonna indica la riscos- 
sione; la seconda soggetto e committente; la terza le lire, la quarta i centesimi. A dimostrazione del 
tono riepilogativo del testo, l’ultima carta contiene aggiunte. Sulla coperta è riportato il titolo originale 
di folchi: Ricordi artistici di Ferdinando Folchi. Ringrazio l’amico Manuel Rossi che, con la consueta 
generosità, ha reso possibile questo mio lavoro. 


336 


Quasi un diario. I “Ricordi artistici” di Ferdinando Folchi 





Anno 1846 

Gennaio 18. Dal Granduca Leopoldo II per un quadro a olio rappresentante un 
accademia musicale fatta nel salone dei Cinquecento in Palazzo Vecchio in pro 
degli Asili Infantili. 560. 


c. 2r. Settembre 29. Dalla R. Accademia di Belle Arti di Firenze per l’Accessit rice- 
vuto come premio il quadro presentato al concorso triennale, rappresentate Mosè 


che calpesta il diadema di faraone. 377,6. 
Anno 1847 

Maggio 7. Da Antonio Pacetti antiquario per pittura fatta ad imitazione del an- 
tico. 106, 12. 


Giugno 3. Dal Gran Duca Leopoldo II per un piccolo quadro rappresentante il 
Riposo in Egitto, donato dal medesimo a suo figlio Carlo. 133, 6. 


Luglio 7. Dalla Società Promotrice di Belle Arti di Firenze, per vendita del quadro 
rappresentante Mosè che calpesta il diadema di faraone acquistato dal signor Me- 
gian francese. 666. 


c. 2v. Ottobre 7. Dall’antiquario Fuppa per la pittura fatta a imitazione dell’antico 
sopra una scatola. 53, 63. 


Anno 1848 

Luglio 28. Dalla Società d’Incoraggiamento di Belle Arti di Firenze per vendita 
fatta di un mio quadro rappresentante la morte del Rolla scultore acquistato dal 
signor Morando Mori Ubaldini. 200. 


E più per un piccolo quadro dipintovi una Fruttaiola. 33, 24. 
Dicembre 1. Dal Grand Duca Leopoldo II, per un quadro di una Madonna delle 
Grazie figura grande al vero col putto, fatto per ornare la cappella reale della villa 


al’ Alberese in Maremma. 33, 61. 


Anno 1849 
23.6. Dall Illustrissimo signor marchese Carlo Gerini 


c. 3. per una pittura a buon fresco rappresentante una Flora e diversi putti, eseguita 
nel suo palazzo di Firenze. 140. 


luglio 25. Dalla Società Promotrice di Belle Arti di Firenze per un quadro a olio il 
di cui soggetto è la barca con le tredici donne dal Petrarca descritta acquistato dal 
signor Barsanti. 600. 
ottobre 16. Dai frati di Monte Senario per un quadro rappresentante Alessandro 


IV che approva l’Ordine dei Servi di Maria e collocata nella loro chiesa. 244. 


337 


Stefano Renzoni 


Quasi un diario. I “Ricordi artistici” di Ferdinando Folchi 








Anno 1850 

Maggio 18. Dal Gran Duca Leopoldo II per un quadro a olio con entrovi la Ma- 
donna grande la metà del vero e un contorno d’angeli, che fu posto nella cappella 
della villa di Montughi. 333. 


c. 3v. Luglio 4. Dalla Società Promotrice di Belle Arti di Firenze per un piccolo 
quadretto rappresentante un Arrotino acquistato dal signor Ferdinando Franceschi. 

23, 6, 8. 
Settembre 16. Dall Illustrissimo signor marchese Carlo Gerini, per la pittura a 
buon fresco fata nel suo palazzo di Firenze rappresentante l’Armonia incoronata da 
Iside, e dalla Pace. 126, 13, 4. 


Anno 1851 

Aprile 5. Dal Grazzini per il quadretto rappresentante Domenico Beccafumi 
quando viene trovato dal suo padrone a disegnare alcune sue cose le quali fecero 
scoprire in esso l’inclinazione all'arte, per questo dipinto solo per titolo in regalo 
io ho avuto. 60, 00. 


Luglio 12. Dalla Società Promotrice di Belle Arti di Firenze per due piccoli quadri 


c. 4r. Uno rappresentante un Pescatore napoletano scelto dal comm. Odetti e l’altro 
di una Madonna scelto dalla marchesa Busca di Milano. 75. 


Quadretto della Visitazione della Vergine a Santa Elisabetta collocato sopra un al- 
tare nella chiesa della S. Annunziata di Firenze, e per esso avutone in compenso un 
panforte di Siena del valore di 10. 


Luglio 20. Dal Grazzini detto il frustaio per una Madonna con putto fatto un ba- 
ratto di due cornici per il valore di 150. 


Luglio 27. Dal signor priore Tavanti di San Niccolò Oltr Arno per la figura della 
Madonna fatta nel soffitto della Compagna accanto alla chiesa. 60. 


c. 4v. Per un quadretto rappresentante la Pia de Tolomei fatto per un il [sic] mio 
cugino Gio. Folchi e da esso ricevuto come ricordo alcuni oggetti del suo magazzi- 


no per il valore di 118, 12, 4. 
Anno 1852 

Febbraio 5. Dal prof. Girolamo Pagliano per uno sfondo fatto alla loro villa delle 
Querce oggi dei P. P. Barnabiti rappresentante Apollo e le Muse. 106, 13, 4. 
Maggio 20. Dal medesimo per altro sfondo fatto nella medesima villa rappresen- 
tante Giove, e le sue concubine. 116. 
c. 5r. Anno 1853 


Gennaio 5. Dall’ Illustrissimo signor conte Guicciardini per la pittura fatta a buon 
fresco di un soffitto del suo palazzo in Lung’ Arno rappresentante il trionfo dell Ar- 
monia. 240. 


338 


Febbraio 10. Dal editore David Passigli per molti disegni per la sua opera riguardante 
fatti storici ed altri per la Bibbia nel totale di n.40 ricevute lire italiane 453, 60. 


Aprile 20. Dal Valeriani per due quadri spediti in America rappresentanti il Levita 
d’Efraim, l’altro la Solitudine. 230. 


Luglio 4. Dalla Società Promotrice di Belle Arti di Firenze per il quadretto rappre- 
sentante Orlanduccio del/ 


c. 5v. del leone scelto dal socio signor Aurelio Pucci e per l’altro più piccolo rappre- 
sentante la Vergine comprato dal socio signor Fortunati. 266, 13; 53, 6, 8. 


Luglio 9. Dalla signora contessa Bobisca [?] per un quadretto della Vergine. 

466, 12, 4. 
Anno 1854 
Maggio 5, Dal molto rev. signor Angiolo Pasquini, per aver dipinto un quadro a olio 
co figure grandi al vero rappresentante i SS. Pietro e Margherita e collocato nella 
chiesa di S. Gio. a Capolana suburbio d'Arezzo, alto braccia 3 1⁄2 largo 2 1⁄2. 300. 


maggio 18. Dalla Società Promotrice di Belle Arti di Genova, per due quadri 1 
Pifferai abruzzesi, acquistato dal signor Giu. Cabella, l’altro una Madonnina 


c. 6r. scelta e comprata dal signor Carlo Durazzo. 36. 
giugno 19. Per il quadro rappresentante le Feste fiorentine dette le Calende di mag- 
gio, e premiato con medaglia d’argento da questa Società Promotrice di Belle Arti, 
e spedito poi alla Esposizione mondiale di Nuova York, alto braccia 3 largo braccia 


4 ma per disgrazie successe in tale Esposizione poter solo ricavare al netto 1000. 


Luglio 3. Dal signor Sneiders per una Madonnina esposta alle Sale di Belle Arti. 


66, 13, 4. 
Anno 1855 
Aprile 26. Dal negoziante Grazzini per due quadretti uno Giotto fanciullo, l’altro 
una Barca con alcuni donne. 80. 


c. 6v. Aprile 22. Da Sasso per un bozzetto con allegorie per servire di modello per 
un ventaglio da offrirsi alla Imperatrice dei Francesi moglie di Napoleone III. 


33, 6, 8. 


Luglio 1. Dai soscrittori per l'esecuzione del quadro rappresentante la Deposizione 
di Cristo dalla Croce collocato nella chiesa della SS. Annunziata di Firenze all’alta- 
re del Crocifisso appartenente una volta alla famiglia Villani alto braccia 7 1⁄2 largo 
braccia 4. 2400. 


Luglio 5. Dalla Società Promotrice di Belle Arti di Firenze per il quadretto rappre- 
sentante Michelangelo a Lupo sogna la torre di S. Miniato, che fanno fuoco sopra 


339 


Stefano Renzoni 





gli Imperiali venuti ad assediar Firenze, acquistato dal signor Ferdinando Quer- 
cioli. 200. 


c. 7r. Anno 1856 
Luglio 5. Dalla Società Promotrice di Belle Arti di Firenze per un quadretto rappre- 
sentante un Riposo, acquistato dalla signora contessa Bartolini Baldelli. 233, 6, 8. 


Luglio 7. Dal signor priore Giovanni Rastrelli, per il quadro a olio rappresentante 
la intiera figura di Cristo quasi di grandezza al naturale con cuore in mano, e posta 
nella sua chiesa di San Pietro a Primaggiore in Mugello presso Vicchio. 266, 13, 6. 


Luglio 22. Dal pievano Barzi di Dicomano per una mezza figura del Cuore di Gesù 
grande al vero. 100. 


Luglio 25. Dal priore Gio. Fabbri per il quadro rappresentante il Martirio di San 
Donato e collocato all’altare maggiore 


c. 7v. della sua chiesa di S. Donato a Villa presso Dicomano. 266, 12, 4. 


Agosto 9. Dal negoziante Grazzini per un quadretto rappresentante Fausto e Mar- 
gherita. 120. 


Settembre 2. Dagli amministratori dello Spedale di Massa Ducale, per avergli di- 
pinto un quadro a olio con figure la metà del vero rappresentanti i SS. Giacomo e 
Cristoforo da collocarlo nel detto Spedale. 244,13, 4. 


Anno 1857 
Gennaio 20. Dal negoziante Grazzini per una piccola Battaglia, e per una piccola 
Concezione. 


Maggio 5. Dai frati della SS. Annunziata di Firenze per il dipinto a buon fresco 
sopra l’arco della crociata della 


c. 8r. parte della cappella del Crocifisso vicino alla finestra che sta sopra il cornicione, 
e rappresentante una Monaca che caduta in un pozzo riamane incolume per grazia 
ricevuta dalla SS. Annunziata, come pure unitamente la pulitura degli altri dipinti 


in giro della chiesa. 433, 6, 8. 


Giugno 4. Dalla Comune di Rimini per aver dipinto al nuovo teatro il soffitto dei 
EA dell’ordine nobile n. 27 figurine alla pompeiana. 158, 13, 4. 


Giugno 19. Dal signor Michele Jorel di Milano, per un bozzetto rappresentante S. 
Michele. 120. 


Luglio 21. Dal pievano Gio. Battista Grifoni per il quadro a olio rappresentante la 
Vergine del Carmine con i SS. Simon Stok, e Teresa, con angioli e/ 


c. 8v. collocato all’altare a mano dritta di chi entra nella chiesa di S. Martino a Sco- 
peto in Mugello, e pievania del predetto Grifoni. 500. 


340 


Quasi un diario. I “Ricordi artistici” di Ferdinando Folchi 





Settembre 2. Dai frati della SS. Annunziata di Firenze per diversi restauri fatti a 
tondi sopra le cappelle della loro chiesa. 250. 


Settembre 9. Dall’Illustrissimo signor marchese Carlo Gerini per un trasparente 
entrovi la Vergine concetta, per servire di decorazione alla venuta del Pontefice Pio 
IX alla sua villa delle Maschere in Mugello. 100. 


Anno 1858 
Luglio 10. Dall’Illustrissimo signor conte Comm. Cav. Francesco de Larderel per il 


c. 9r. quadro dipinto a olio di sua commissione rappresentante San Francesco che 
resuscita una bambina, con sorpresa dei parenti genitori, e di diverso popolo, e 
della misura di braccia 7 1⁄2 per braccia 5 collocato nella gran chiesa del Soccorso in 
Livorno alla sua cappella. 2000. 


Agosto 17. Da milord Hunt inglese per quattro quadri rappresentanti le Quattro 
età delle quattro stagioni, dipinti a olio in forma però quasi ovale alti braccia 1 1⁄2 
larghi braccia 2. 2800. 


Anno 1859 

Gennaio 3. Dal signor Francesco Frullani per parte di prezzo del quadro fatto per 
la nuova chiesetta delle Stimate all’Incontro presso Firenze avendo io rinunziato ad 
altrettanta rata per riguardo e dono voluto fare 


c. 9v. a quel Santuario il quadro altezza di 3 per 2 1⁄2. 268, 13, 4. 


Febbraio 16. Dal signor can. Federigo Baldasserini per il quadro dipinto a olio alto 
braccia 4 Y per 3 % rappresentante Sant'Antonio Abate tentato dal demonio e 
collocato nella chiesa plebana di Riparbella in Maremma. 266, 13, 4. 


Aprile 13. Dal molto rev. Signor Proposto di San Leonino nel Chianti, per la pittu- 
ra del quadro a olio alto braccia e 3 per braccia 2 1/5 rappresentante San Leonino, 
la Madonna il bambino Gesù e collocato nella sua chiesa. 233, 6, 8. 


Luglio 14. Dal vescovo del Borgo San Sepolcro per una Madonna col, Bambino 
figure per metà e rap. / 


c. 10r. presentanti i sacri cuori di Maria e Gesù, e collocato nella cattedrale di detta 
città. 200, 7, 0. 


Settembre 22. Da milord Hunt per un quadro a olio rappresentante le Feste fioren- 
tine delle Calende di maggio alt. braccia 2 per braccia 3 spedito a Londra. 1924. 


Anno 1860 
Aprile 2. Dal signor Bertolli di Pisa per aver dipinto a fresco nella sua cappella di villa 
di Castellonchio presso Cigoli il soffitto con la Vergine Assunta con angeli. 40, 40. 


341 


Stefano Renzoni 





Aprile 16. Per pitture fatte agli archi trionfali fatti nella solenne entrata in Firenze 
dal Gran Re Vittorio Emanuele. 160. 


c. 10v. Gennaio 20. Da milord Hunt per il quadro rappresentante Boccaccio che 
spiega il Decamerone alla sua lieta brigata alto braccia 2 largo braccia 3 e spedito 
con gli altri cinque già eseguiti a Londra. 1920. 


Settembre 1. Dall Illustrissimo signor Cav. Priore Emanuele Fenzi per un affresco 
fato nel suo palazzo in via S. Gallo e rappresentante l’Armonia, e due putti di gran- 


dezza al naturale. 123, 6, 8. 
Ottobre 2. Dal cappellano della pieve di Dicomano Giuseppe Rondoni per un 
piccolo Cuor di Gesù. 28. 
Anno 1861 


Gennaio 2. Dal Valeriani per un quadro/ 


c. 11r. alto braccia 3 largo braccia 2 rappresentante Orlanduccio del Leone. 


153, 6, 8. 


Febbraio 10. Dalla Soprintendenza della Casa de Re, per il quadro del Ritratto di 
Sua Maestà Vittorio Emanuele a cavallo alto braccia 2 1⁄2 largo braccia 2. 360. 


Febbraio 16. Dal conte Agli per tre quadretti uno rappresentante Francesca da Ri- 
mini, gli altri uno la Leda, l’altro la Danae. 160. 


Marzo 11. Dal di Dicomano [sic] signor Gio. Rondoni per due quadretti uno 
esprimente il Transito di S. Giuseppe, e l’altro un Cuor di Maria. 126, 13, 4. 


Luglio 2. Dal pievano di Cigoli signor Gio. Peraimond, per pitture fatte alla / 


c. 11v. sua chiesa di S. Maria a Fabbrica una nella cupoletta sopra l’altare maggiore, con 
la V. Assunta, l’altro una figura del Battista dipinto nella parete dietro il coro. 113, 6, 8. 


Agosto 26. Dal signor priore Pietro Giampaoli per la pittura fatta nel soffitto della sua 
chiesa di S. Lorenzo a Vicchio di Rimaggio esprimente la Religione e due putti. 60. 


Settembre 18. Dal pievano di Cigoli signor Gio. Peraimond, per un quadro a olio 
alto braccia 4 1⁄2 largo braccia 3 1/3 con i SS. Ambrogio e Francesco e per solo titolo 
di regalo avuto 70. 
Ottobre 20. Da un signore di Cesena per avergli dipinto a tempera sopra / 


c. 12r. tela uno sfondino, il Carro d’Armida con Rinaldo. 48, 13, 6. 


Novembre 20. Dall’Illustrissimo signor Cav. Senatore Emanuele Fensi, per aver 
dipinto nel suo palazzo in Firenze via di S. Gallo, una stanza, con gli appresso sog- 
getti relativi ad Amore trionfante, cioè gli amori dei più celebri uomini, e gli dei che 


342 


Quasi un diario. I “Ricordi artistici” di Ferdinando Folchi 





furon vinti da questo Nume e più altre figure allegoriche sempre al soggetto, tanto 
nell’ornato come nelle pareti. 500, 6, 8. 


Novembre 10. Dal padre Andrea da Quarata per un piccolo Ritratto del Beato 
Leonardo da Porto Maurizio, e collocato nella chiesetta dell’Incontro. 60. 


Dicembre 25. Per lavori fatti nel palazzo dell’ / 


c. 12v. della [sic] Esposizione Italiana alla Porta al Prato. 526. 
Anno 1862 
Gennaio 3. Per aver dipinto le Muse nel soffitto del teatro Goldoni. 94. 


Più dalla Casa Reale per il dipinto fatto nel Paco Reale nel teatro medesimo. 100. 


Maggio 2. Dall’Opera della Collegiata d’ Empoli per la pulitura delle figure dipinte 
nel soffitto, e rifatto di nuovo i due grandi angeli sopra l’arco dell’altare maggiore. 
268, 12, 4. 


Aprile 20. Dal signor proposto della Collegiata di Empoli per la pittura fatta / 


c. 13r. a buon fresco nella parete del coro rappresentante il Martirio di Sant'Andrea Apo- 
stolo alto braccia 7 1⁄ largo braccia 4 eseguito per una pia società di benefattori. 400. 


Maggio 2. Dalla cassa della Real Casa del Re, per aver dipinte a buon fresco in due 
stanze del nuovo quartiere detto della Meridiana, dei quadri che pongono in mezzo 
pitture fatte d’altri, cioè in una ove il prof. Cav. Luigi Sabatelli aveva dipinto il So- 
gno di Salomone io vi feci nei quattro quadri altri fatti riguardanti questo santo Re, 
e nell’altra ove il Prof. Antonio Marini aveva espresso Cornelia madre dei Gracchi / 


c. 13v. con la giovi [sic] sposa Capuana vi dipinsi quattro soggetti riguardanti fatti 
celebri compiuti da donne romane. 2000. 


Luglio 21. Dal signor Dottor Pietro del Greco per una Venere dipinta a tempera in 
una stanza della sua casa. 66, 13, 4. 


Agosto 10. Dal Priore della chiesa di Santa Maria a Pontanico signor Smeraldo Sal- 
vatori, per la figura fatta nella volta della sua chiesa rappresentante l’Assunta. 50. 


Ottobre 2. Dal signor Carlo Smit per una figura di Venere fatta alla sua villa presso 
Careggi. 73, 6, 8. 


c. 14r. Novembre 10. Dal Priore di Pontanico signor Smeraldo Salvatori per pittura 
fatta in uno stendardo con la V. Maria Assunta. 20. 


Novembre 12. Dalla Collegiata d'’Empoli per la figura di S. Cecilia dipinta nella 
tela dell'organo. 108. 


Novembre 14. Dalla Compagnia del SS. Sacramento della Collegiata d’Empoli per 


343 


Stefano Renzoni 





la pittura fatta alla cupoletta della loro cappella rappresentante le tre Virtù teologali. 
173, 6, 8 


Anno 1863 
Febbraio 2. Dai frati Osservanti di Pontassieve per la tela del organo / 


c. 14v. dipintovi S. Francesco che riceve le Stimate [sic], e sei storielle in giro ri- 
guardanti i santi dell'Ordine, e per il solo rimborso delle spese avute. 133, 6, 8. 


Marzo 5. Per tre Putti dipinti nella villa una volta Soldi al Bagno a Ripoli. 48, 13, 4. 


Marzo 12. Dal signor Luigi Piattoli per una pittura a tempera rappresentante il 
Carro del Sole, con le Ore, destinato per uno sfondo di soffitto per il palazzo del 
Vice Re d'Egitto al Cairo, dipinto e alto braccia 5 largo braccia 6. 950. 


Aprile 20. Dalla Confraternita del SS. Crocifisso nella Collegiata di Empoli per le 
pitture eseguite alla cupola della loro cappella, ove / 


c. 15r. espresse una quantità d’angeli con gli emblemi della Passione e nei quattro 
pci altri Putti con cartelle ove vi è scritto il nome dei vangeli e da chi Evange- 
ista fu scritto, lavoro fatto tutto a buon fresco. 433, 6, 8. 


Maggio 2. Dall’editore Cappelli per n. 150 disegni fatti sopra bossolo per essere 
incisi, per illustrare la Bibbia. 140. 


Giugno 8. Dalla Confraternita della Madonna del Carmine di Firenze per aver di- 
pinto il loro stendardo rappresentandovi la Madonna, Gesù e i Santi Simon Stoch, 
e Andrea Corsini. 200. 


E più per il disegno del medesimo fatto sopra la pietra per litografarlo. 20. 


c. 15v. Agosto 8. Dalla Deputazione della chiesa collegiata di Monte Carlo in Val di 
Nievole per le pitture fatte nella cupola rappresentanti la Incarnazione di Maria, ed 
i SS. David Re, Giuseppe, Anna, Giovacchino, ed Elisabetta, con diversi angioli, e 
nei peducci i Quattro Evangelisti, ed alla parete della chiesa i 4 santi cioè S. Carlo, 
S. Benedetto, S. ostino, e S. Ambrogio, in questo lavoro cedutomi dal pittore 
Pietro Pezzati, perché occupato in altri io quando doveva occuparsi e dei boz- 
zetti, e dei contorni, ed essendo libero nel tempo che dipingeva io tal lavoro volli 
in ricompensa averlo meco per porgermi un qualche materiale aiuto e farli sentire 
un qualche vantaggio pecuniario avendolo ricompensato in denaro. 400. 


c. 16r. Agosto 12. Dal signor Antonio Pecchioli per aver dipinto un tabernacolo a 
buon fresco presso la chiesa di S. Margherita a Torri presso il fiume detto la Marina 
e dipintovi la Vergine del Rosario con i SS: Domenico e Rosa. 100. 


Settembre 18. Dal signor Ippolito Nesti Priore della ciesa di S. Rocco presso Pistoia 


pi avergli dipinto un B. Leonardo da Porto Maurizio, che predica al popolo alto 
raccia 2 largo braccia 1 1/3. 100. 


344 


Quasi un diario. I “Ricordi artistici” di Ferdinando Folchi 





Settembre 30. Dal signor Emilio Barducci per tre piccoli sfondini fatti nel suo sta- 
bile in piazza Santa Trinita. 132, 6,3. 


Ottobre 6. Da sua Ecc.a il principe Ferdinando Strozzi per la pittura a buon fresco 


fatto all'altare della/ 


c. 16v. sua villa detta Bagniolo presso Monte Murlo, rappresentante la S. Lucia 
martire. 100. 


Ottobre 10. Dal Capitolo dei canonici del Duomo di Firenze per una pittura a 
buon fresco fatta all'altare della chiesa di Sant'Andrea nel mercato vecchio rappre- 
sentante la figura di dello [sic] Santo Apostolo. 268, 13, 4. 


Novembre 30. Dai RR. Padri dell’Incontro per N. 6 quadretti rappresentanti la 
Vita del B. Leonardo da Porto Maurizio per titolo solo di regalo. 56. 


Dicembre 2. Dal signor Emilio Bacciotti per due quadri rappresentanti il primo il 
Boccaccio che racconta le sue novelle, e l’altro Colombo alla corte di Spagna mostra 
il suo piano di viaggio per il nuovo mondo. 733, 6, 8. 


c. 17r. Anno 1864 

Gennaio 1. Dai Rev.i Padri di S. Giovanni di Dio per la pittura a olio della Madon- 
na collocata nel tabernacolo, della loro casa di faccia allo Spedale di detto Santo alto 
braccia 2 largo braccia 1 4. 268, 1, 4. 


Marzo 23. Per aver dipinti due sepolcri per conto di due chiese di Carrara per com- 
missione del signor Antonio Ciabattini. 257. 


Marzo 18. Per una pittura fatta sopra drappo per servire di stendardo di una com- 
pagnia in Mugello. 119. 


Maggio 2. Per una figura eseguita in un soffitto della casa Tellini nel corso Vittorio 
Emanuele rappresentante ‘Armonio. 30. 


Giugno 2. Dal signor Priore Giuseppe Corvi di/ 


c. 17v. Pontremoli per avergli dipinto uno stendardo con la Madonna e i SS. Lo- 
renzo e Lucia. 132, 6,8. 


Giugno 4. Per uno sfondino fatto in casa Caroni esprimente Davide e Matelda. 40. 
Luglio 18. Per due dipinti eseguiti in due soffitti nel palazzo Ginori in piazza S. Cro- 
ce, uno dei quali con la figura di Flora e putti, e le quattro Stagioni, l'altra decorata 
con Arianna e Bacco, con putti, e nei fregi satiri, tritoni, e ninfe. 186, 13, 4. 
Luglio 23. Dal signor Pietro Pelliccia Governatore della Confraternita di S. Rocco 


presso Pontremoli, per una pittura/ 


345 


Stefano Renzoni 


Quasi un diario. I “Ricordi artistici” di Ferdinando Folchi 








c. 18r. fatta di uno stendardo, rappresentante l’Assunzione di Maria, ed i SS. Rocco. 
Martino, e Pio V. 151. 


Agosto 21. Dal signor avvocato Baldassar Pianigiani per aver dipinto a tempera 
nella sua cappella privata a Radda nel Chianti i SS. Sebastiano e Fabiano. 60. 


Dicembre 7. Dall Illustrissimo signor Gio. Battista Trombetta, per le pitture fatte 
a buon fresco nel salone del suo palazzo in Pontassieve in N. 8 gran quadri e rap- 

resentanti fatti gloriosi compiuti da donne italiane cioè, la Mazzanti, la Sicurana, 
a Chita tessitrice fiorentina, la Bellisandra Maraviglia, la Luisa Strozzi, e l’arme 
Trombetta avente ai lati le figure di Italia, e Grecia. 1250. 


c. 18v. Anno 1865 
Febbraio 2. Per due sfondini eseguiti in casa Faldi dall’arco dei Peruzzi. 70. 


Marzo 19. Dall’Illustrissimo signor Domenico Trombetta per la pittura fatta nello 
sfondo della sua cappella s Grassina presso Pelago, rappresentante la figura della 
Religione. 


Aprile 1. Dalla Pia Congregazione di Scarperia per N. 4 trasparenti con altrettanti 
Misteri della Passione espressi nei medesimi. 280. 


Aprile 27. Per decorazioni fatte nella circostanza delle feste dantesche, cioè in tre 
dipinti a chiaro-scuro a tempera rappresentanti una Dante ricevuto dal Polentano, 
uno la Morte di Dante, e l’altro i Funerali di Dante. 600. 


c. 19r. Maggio 12.Per un quadro dipinto a olio rappresentante Giovanni Boccaccio 
che colla sua bella, e lieta brigata, per sfuggire il morbo che affliggeva la desolata 
Firenze, si porta alla campagna, dipinto che andette acquistato da un signore ame- 
ricano per il prezzo di 1500. 


Maggio13. Per tre sfondini eseguiti nella casa dei signori Della Rocca in via Torna- 


buoni. 55. 


Agosto 20. Dal molto reverendo signor Priore Gio. Battista Tani, per aver dipinto 
la callotta [sic] della tribuna alla sua chiesa/ 


c. 19v. di S. Nicolò a Radda nel Chianti la Gloria di detto santo circondato da 
alcuni angioli, e più la figura di San Giovanni Battista, al Battistero. 200. 


Settembre 23. Dal signor Wital in Borgo degli Albizzi per una figura fatta in una 
sala. 70. 


Dicembre 16. Dal signor Pasquale Cimatti di Pontremoli per pittura d’uno sten- 
dardo dipintovi la Madonna ed i SS. Giorgio, e Maddalena. 400. 


Dicembre 20. Per pittura di un quadro con la figura del B. Leonardo di Porto 
Maurizio circondato da tanti quadretti esprimenti la Passione di Gesù della misura 


346 


in altezza di braccia 3 1/3 largo braccia 2 4 collocato/ 


c. 20r. nella chiesa di Fossato. 180. 
Anno 1866 

Aprile 26. Per diversi lavoretti fatti nelle stoje di alcune stanze nello stabile Conti 
presso le Logge di Mercato Nuovo. 80. 


Maggio 10. Dal aor Marchese Guasconi per uno sfondino fatto nella sua casa in 
via del corso dei Tintori. 30. 


Luglio 25. Dal signor Priore di Radda in Chianti Giovanni Batista Tani, per il 
quadro a olio, per l’altare della Madonna della sua chiesa espressovi diversi angioli, 
con gli attributi relativi a Maria alto braccia 3 1/3 largo braccia 2 1/2. 300. 


Settembre 21. Dal signor Antonio Conti priore/ 


c. 20v. di S. Andrea a Barbiana in Mugello per il quadro di S. Antonio Abate fatto 
quasi per regalo. 50. 


Ottobre 4. Dalle R.R. monache di S. Sepolcro per un Sacro Cuore di Gesù. 50. 


Novembre 15. DI Valeriani per due quadretti uno rappresentante Giorgio di Fran- 
cobert, e l’altro tolto da un sonetto del Petrarca. 191. 


Dicembre 4. Per una figura eseguita nella casa del deputato Falconcini in via de 
Neri. 30. 


Anno 1867 
Gennaio 9. Per una piccola figura fatta nella villa da Cipparello presso al palazzo 
20 


bruciato. 


c. 21r. Febbraio 2. Dalla Ill.ma signora principessa Conti per tre Putti dipinti a 
buon fresco nel suo palazzo in via della Forca. 


Aprile 6. Dalla Compagnia del SS. Sacramento della chiesa di Stabbia per il quadro 
osto all'altare del Sacramento dipintovi alcuni angeli adoranti e tenenti i SS. Alto 
bacci 5 largo braccia 3. 300. 


Aprile 19. Dalla Congregazione della chiesa di Scarperia, per N. 4 trasparenti rap- 
presentanti fatti della Passione di Gesù. 280. 


Giugno 6. Per alcuni sfondi fatti in casa Pini nel quartiere del Maglio. 100. 


c. 21v. Luglio 6. Dalla Comune di Pontassieve per il buon fresco eseguito nella 
cappella del pubblico Campo Santo, rappresentante il Giudizio Finale. 150. 


Ottobre 3. Per la figura della Giustizia fatta per la sala del Comune di Pelago. 15. 


347 


Stefano Renzoni 


Quasi un diario. I “Ricordi artistici” di Ferdinando Folchi 








Ottobre [?]. Per la pittura fatta nel soffitto della chiesa Collegiata di Scarperia rap- 

resentanti i SS. Iacopo e Filippo Apostoli con diversi angioli alto braccia 16 largo 
ia 8 e due sfondi sopra l’arco dle due cappelle laterali accanto all'altare mag- 
giore e più la pittura della callotta [sic] del coro. 285. 


Novembre 30. Dal signor Ottavio Maestri sindaco di Torrita, per la pittura fatta/ 
c. 22r. nel soffitto della sala maggiore del Comune di Torrita, rappresentante la 


Giustizia con il Genio della Industria, e la Abbondanza, sei ritratti di Uomini il- 
lustri di Torrita, e nella stanza del sindaco tre putti con larme del municipio, e in 


quattro ottagoni le Quattro Stagioni. 300. 
Anno 1868 

Febbraio 3. Da padre Andrea da Querceta per N. 12 Miracoli di S. Leonardo da 
Porto Maurizio da collocarsi all’incontro. 240. 


Febbraio 12. Da padre Andrea da Quarrata per un faro rappresentante il ritratto 
di S. Leonardo da Porto Maurizio, da collocarsi nella chiesa di Pitigliano. 80. 


c. 22v. Marzo 22. Dipinto un soffittino nel centro del quale una figurina nella casa 
del signor Oreste Sandrini, posta in via già dell Amore oggi via Sant'Antonino. 40. 


Aprile 2. Per pittura fatta a buon fresco nel piccolo tabernacolo al principio dello 
stradone Castelli dalla parte di Rovezzano, con la Madonna e San Filippo. 20. 


Giugno 30. Per aver dipinto tutta la cappella della Madonna del Rosario nella chie- 
sa di Cucigliana presso Pisa, con sfondo l’Incoronazione di Maria, all'altare diversi 
angioletti, e ai lati i SS. Domenico, e Rosa, alle pareti in cinque quadri per parte i 
Misteri del Rosario, e più sopra l’esterno/ 


c. 23r. della porta di chiesa S. Andrea. 460. 


Luglio 20. Dall’Illmo signor comm. Professore Giuseppe Martelli architetto per 
diverse pitture eseguite nella casa di sua abitazione in via Fiesolana. 760. 


Ottobre 10. Per pitture fatte a buon fresco al secondo altare nella chiesa di Settigna- 
no rappresentanti i SS. Uberto, Antonio, Isidoro, e Cristina, come solo regalo. 50. 


Novembre 20. Dal signor Bevilacqua di Livorno pet conto di una società per aver 
dipinto S. Leonardo di Porto Maurizio grande al vero, mentre predica al popolo 
in piazza di Livorno e collocato nella chiesa della Madonna di detta città. 300. 


Dicembre 1. Dal comm. Giuseppe Galletti/ 


c. 23v. per una figurina dipinta a olio esprimente, il Dono dei fiori nel giorno ono- 
mastico. 200. 


Dicembre 11. Dal Valeriano per avergli regalato la figura della Veronica Cybo che 
prepara fra la biancheria da mandarsi al marito, la recisa testa della Caterina Canac- 


348 


ci, quadro alto braccia 5 largo braccia 3, e che per [?], e poca fede del comm. Visone 
allora Intendente di palazzo del Re dopo averne fatto acquisto, non mantenne la 
fatta promessa, ed perciò per togliersi dagli occhi tal quadro disposi di regalarlo 
come feci, intendendo di riprendere il valore della cornice in lire. 336. 


Anno 1869 
Gennaio 4. Per il quadro fatto in dono per/ 


c. 24r. le monache dette le figlie di Maria che abitano alla Badia di Ripoli, e rap- 
presentante la Madonna Addolorata con i SS. Alessio, e Giuliana Falconcini alto 
braccia 2 largo braccia 1 1⁄2 e collocato nella loro cappella d convento, e che esse a 
solo titolo di rimborso di spese mi passarono. 40. 


Marzo 2. Dall’Ill.mo signor Comm. Giuseppe Galletti per un quadretto a olio 
rappresentante Provenzano Silvani, in piazza di Siena chiede la elemosina al suo 
amico. 200. 


Marzo 20. Dal signor Leopoldo Riccieri per la pittura fatta nel telone dell'organo della 
chiesa di Castello presso Firenze, rappresentante S. Cecilia ed alcuni angeli. 150. 


c. 24v. Marzo 24. Dal priore di Buti nel pisano per la fattura dello Stendardo della 
chiesa delle Cascine di Buti. 250. 


Maggio 12. Dal comm. Mariano Falcini architetto per la pittura del soffitto del sa- 
lone terreno del suo palazzino, presso S. Gallo, rappresentante nel centro Dante che 
trova in Paradiso Piccarda Donati e le altre donne, e in due quadri sottoposti in uno 
un soggetto di galileo, l’altro di Michelangiolo, e come amico volli solo lire 160. 


Giugno 12. Dal signor Cammillo Maiorsi sindaco del Bagno a Ripoli per la pittura del 
piccolo tabernacolo con Maria Assunta posto sulla piazza della chiesa della Badia. 50. 


Luglio 2. Per aver dipinto nella chiesa di S. Remigio in Firenze due figure, una la 
Purità, e l’altra la Carità nella cappella presso l’altare maggiore, dipinte tutte a buon 
fresco. 100. 


Luglio 12. Per aver dipinto uno stendardo con la Madonna del Rosario, con i SS. 
Jacopo e Domenico di commissione di un parroco di Marradi. 80. 


Agosto 12. Per aver dipinto N. 4 tempere rappresentanti, la Commedia, la Trage- 
dia, il Ballo, e la Musica destinate a ornare il nuovo teatro al Cairo in Egitto. 280. 


Ottobre 20. Dal pievano della chiesa di S. Giovanni Evangelista a Montepopoli per 
la pittura fatta a buon fresco/ 


c. 25v. all'altare maggiore della sua chiesa rappresentante, l’apostolo S. Giovanni 
Evangelista che vede la figura di Babilonia come vien descritto nell’Apocalisse, e 
nella callotta al disopra dell’altare quattro putti. 112. 


349 


Stefano Renzoni 





Novembre 6. Dal signor proposto di Pontassieve Giuseppe Rondoni, per un qua- 
dretto del Cuore di Gesù. 


Anno 1870 

Gennaio 21. Dalla Società d’Incoraggiamento di Belle Arti di Firenze, per il qua- 
dretto rappresentante le Giovani di Crotone terra di Calabria che si offrono a Zeusi 
pittore greco per modello acquistato dall’Ill.mo signor Fabbricotti. 270 


c. 26r. Aprile 20. Da padre Andrea da Quarata [sic] per N. 14 pitture a buon fresco rap- 
presentanti la Vita di San Leonardo da Porto Maurizio e che si vedono all’Incontro. 100. 


Maggio 10. Per una pittura fatta nel palazzo Baciocchi in via de Pucci, rappresen- 
tante la Scienza e diverse figure allegoriche. 50. 


Maggio 17. Dall’Ill.mo signor marchese Carlo Gerini, per una pittura a buon fre- 
sco eseguita nel soffitto del suo palazzo di Firenze al pian terreno, rappresentante la 
Quiete circondata da Putti. 300. 


c. 26v. Maggio 18. Dal vicario della chiesa di castello per un piccolo Cuor di Ma- 
donna fatto a olio. 25. 


Maggio 27. Per pittura fatta in un soffitto del palazzo Incontri in via del mandorlo 
e dipintovi in N. 8 sfondini altrettante deità pagane. 40. 


[Maggio] 29. Dal molto rev.o signor Mazzoni canonico a Prato per un quadretto a 
olio rappresentante le V. Concetta [sic]. 70. 


Giugno 30. Per una figurina fatta in un soffitto fatto del palazzo Strozzi in via Guelfa. 20. 
Luglio 6. Dal signor priore David del Casto/ 


c. 27r. per la pittura fatta a buon fresco rappresentante la Vergine Assunta all’altare 
maggiore della sua chiesa di Vico Feraldi in Mugello. 


Luglio 29. Dal signor priore di Figliano in Mugello pe aver dipinto a buon fresco 
la tavola dell’altar maggiore con S. Michele Arcangelo. 80. 


Agosto 1. Per un quadretto del Sacro Cuore di Gesù, per una chiesa presso Pitigliano. 30. 
Agosto 6. Per due sfondini fatti in [sic] Carlo Faldi al viale dei Colli. 30. 
Agosto 10. Per aver dipinto nella sala grande della villa del professor Ferdi/ 


c. 27v. nando Zannetti, a Careggi una figura rappresentante la Chirurgia incorona- 
ta dal Genio, e due puttini. 


Settembre 2. Per un piccolo quadro del Sacro Cuore di Maria fatto per un signore 
di Prato. 30. 


350 


Quasi un diario. I “Ricordi artistici” di Ferdinando Folchi 





Ottobre 22. Per la pittura della soffitta del salone della villa Favi Fonteboni, presso 
S. Maria a Coverciano rappresentante il ballo delle Grazie e N. 6 putti. 200. 


Ottobre 30. Per due sfondini fatti in un palazzo in via S. Ambrogio. 80. 


Dicembre 2. Dalla signora Carrozzi Zucchi per aver dipinto tre putti nella sua 
cappella della sua villa/ 


c. 28r. presso Castello. 30. 


Dicembre 10. Per aver dipinto in una sala della villa Favi Fonteboni presso S. Maria a 
Coverciano, la Libertà e la Civiltà, e quattro medaglie con fatti di Storia patria. 35. 


Dicembre 21. Per la figura di Venere fatta in un soffitto del villino Chiavacci al viale 


di Colli. 30. 
Anno 1871 
Gennaio 6. Per una bandiera per la Società della Fratellanza di Castello. 20. 


Gennaio 25. Dalla Società di Incoraggiamento di Belle Arti di Firenze per il quadro 
rappresentante Alcibiade che si/ 


c. 28v. fa dipingere in braccio di due cortigiane, e acquistato dal socio signor Ma- 
gnani di Livorno. 300. 


Febbraio 23. Dal proposto di Pontassieve signor Giuseppe Rondoni, per N. 7 ova- 
lini a olio rappresentanti i Dolori di Maria. 50. 


Marzo 26. Dalla Ill. ma signora Teresa Sermolli per un fondo dipinto alla sua villa 
a Careggi, e rappresentante l’Apoteosi di Lorenzo il Magnifico. 150. 


Aprile 16. Per aver dipinto Zeffiro e Flora, nella villa Daddi a Quinto. 50. 
Giugno 20. Per diverse pitture fatte nella sala d’aspetto dei Bagni di S. Lucia. 40. 
Luglio 12. Dal Comm. Ermolao Rubini/ 

c. 29r. per due Putti fatti nella sua casa in via San Gallo. 35. 
Agosto 15. Per N. 3 sfondini fatti nel palazzo Uguccioni in piazza della Signoria. 75. 
Settembre 25. Per diversi lavoretti fatti in casa Magni in Prato. 50. 
Novembre 2. Dal molto reverendo Padre Andrea da Quaratta [sic] per due quadri 
a olio alti m. larghi m. collocati a due altari laterali della nuova chiesa del Calvario 
presso Pistoia rappresentanti una S. Francesco che riceve le Stimate e contornato fa 


N. 12 quadretti dei santi dell’Ordine, e l’altro con i SS. Leonardo da Porto Mauri- 
zio, e Pietro da Cantara 700. 


351 


Stefano Renzoni 


Quasi un diario. I “Ricordi artistici” di Ferdinando Folchi 








c. 29v. Dicembre 12. Dal signor Priore Massimiliano Talluri Per il dipinto eseguito 
alla sua chiesa di S. Stefano a Torri, e rappresentante la Gloria di detto Santo. 150. 


Dicembre 20. Per una pittura fatta in casa Modigliani in via di Martelli. 50. 


Anno 1872 

Gennaio 20. Dalla Società d’Incoraggiamento di Belle Arti di Firenze, per un qua- 
dretto a olio rappresentante la V. e due angioli acquistato dal socio signor Com. 
Giuseppe Galletti. 150. 


Febbraio 10. Per pitture a decorazione fatta ai corsi del carnevale. 50. 


c. 30r. Maggio 7. Dal molto reverendo Padre Andrea da Quarata [sic] per lavori 
fatti al nuovo convento del Calvario presso Pistoia. 50. 


Maggio 17. Dalla signora marchesa Mancini per uno stendardo. 50. 


Giugno 27. Da Padre Andrea da Quarata [sic] per altri lavoretti fatti al convento 
del Calvario. 50. 


Giugno 30. Dal signor Santi Binazzi Proposto di S. Felice a Ema, per la pittura fatta 
alla cappellina del campo Santo di detta Chiesa. 40. 


Agosto 21. Dal signor Giuseppe Rondoni Preposto a Pontassieve per pitture a tem- 
pera fatte nella sacrestia della sua chiesa e rappresentanti una Dio che dà le Leggi a 
Mosè, un altro la Morte di Mosè, e l’altro/ 


c. 30v. il miracolo accaduto della Madonna veduta da diversi fedeli piangere e più 
nel soffitto gli emblemi della Passione tenuti da diversi putti. 400. 


Settembre 22. Dall’Ill mo signor marchese Degloré, per le pitture fatte alla chiesa 
di S. Lorenzo a Diacceto, rappresentanti nella callotta la Gloria del Santo, ed ai 
lati i SS. Leone e Adelaide, più nella volta i SS. Martino, Pietro, Niccolò e Giusto, 
titolari della chiesa del Piviere, e più nel centro della volta la figura della Fede. 400. 


Novembre 2. Dalla Società di Incoraggiamento di Belle Arti di Firenze per un qua- 
drello, rappresentante una 


c. 31r. moschea dopo l’orgia. 150. 


Anno 1873 

Gennaio 12. Dal molto rev. Padre Andrea da Quarata per il quadro dell’altare della 
Madonna per la nuova chiesa del Calvario presso Pistoia, rappresentante i santi 
dell'Ordine che propugnarono il Domma della Concezione, e sotto in un quadret- 
to rappresentato il papa Pio IX che promulga il Domma. 250. 


Febbraio 2. Dal Dumini Pittore per due quadretti uno rappresentante il cardinale 


352 


de Medici Ferdinando, che costringe il fratello Francesco e la cognata Bianca, a 
mangiare la focaccia che questi avevano preparato [...] avvelenata, l'altro/ 


c. 31v. Luglio 27. Dai Padri Riformati del convento della Verna per il grande buon 
fresco del cenacolo dipintolo nel refettorio di detto convento a titolo di regalo. 200. 


Agosto 15. Dal signor Dottor Giovanni Poltri per quadretto alto braccia 2 largo 
braccia ..., rappresentante la Pia de Tolomei condotta al castello, e per solo ac- 
comodamento dei nostri interessi rilasciato al medesimo per la somma 220. 


Settembre 6. Dal signor Mattei per un quadro alto metri 1 1⁄2 largo metri 2 rappre- 
sentante i Cinque sensi, e da esso passato in proprietà di un signore americano. 500. 


Settembre 29. Dai signori Lazzeri per aver dipinto in una sala terrena del loro 
villino nel viale dei Colli N. 8 lunette 4 Quadri, e lo sfondo rappresentante tutti 
dei fatti d'Amore vittorioso. 300. 


c. 32r. Settembre 2. Dal signor Luigi Concialini pievano di Dicomano per un 
dipinto a olio ovale, con la Madonna, Gesù, e Santa Agnese. 150. 


Novembre 10. Dai frati di Sargiano per una copia di un S. Francesco dall’origi- 
nale di Margheritone, per loro rimborso delle spese. 


Anno 1874 
Gennaio 2. Per uno sfondino fatto nel palazzo Modigliani in via de Conti, rappre- 
sentante Amore ed Imene. 0. 


Febbraio 3. Per un quadro rappresentante S. Francesco, con i SS. Lodovico, ed Fli- 
sabetta con i terziari fatto per la chiesa di S. Antonio in Viareggio, per commissione 
del Padre Alessandro di Viareggio. 245. 


c. 32v. Febbraio 6. Dai R.R. Padri Cappuccini della città di Pistoia, per il quadro 
posto nella loro chiesa, e rappresentante diversi angioli che circondano di fiori un 
tabernacolo della Madonna, chi suona, e chi canta, ed i basso i SS. Felice e Fedele 
cappuccini. 500. 


Marzo 2. Dal signor Lazzeri per la pittura di una volta della sala grande di primo 
piano del suo villino nel viale dei Colli, e rappresentante l’Armonia, e le 4 Stagioni 
in quattro ovali. 125. 


Marzo 27. Per alcuni Putti fatti nel palazzo Incontri in via del Mandorlo. 30. 


Aprile 14. Dal nobile signor conte Ugolino della Gherardesca, per pitture fatte nel 
al della sua villa di Mondeggi rappresentanti in 12 tondi i mesi, in quadri i 
Quattro Elementi e le/ 


c. 33r. Quattro Stagioni, più nella lunetta N. 8 figure di Ninfe, N. 8 Putti, e nel 
basso alle pareti, in due quadri, sopra le porte R e Diana, e in 3 quadri grandi 
in uno il Trionfo di Bacco, ed Arianna, nell’altro un Sacrificio a Cerere, e nell’altro 
il Tempo, e la Storia. 600. 


353 


Stefano Renzoni 


Quasi un diario. I “Ricordi artistici” di Ferdinando Folchi 








Maggio 5. Dal signor Pestellini per pittura di un tabernacolo con la Concezione, 
presso la sua villa in prossimità della pieve a Ripoli. 30. 


Maggio. 16. Dal padre Andrea da Quarata, per il quadro dei SS. Terziari dell’Or- 
dine francescano, e collocato nella nuova chiesa del Calvario presso Pistoia. 400. 


Luglio 14. Dai padri del convento di S. Detole per la pittura a buon fresco del Ce- 
nacolo dipintoli nel loro refettorio. 250. 


c. 33v. Luglio 21. Dal molto rev.o signor priore di Santa Agata presso Reggello, per 
la pittura fatta nel soffitto della sua chiesa, rappresentante Cristo risorto. 
100. 


Luglio 27. Dal signor priore di S. Ellero per aver dipinto all’altare laterale nella sua 
chiesa, i SS. Giuseppe, e Pietro. 30. 


Agosto 2. Dal signor priore Giovacchino Lagi per pitture fatte nella sua chiesa di S. 
Cristoforo in Perticaia, rappresentanti una il Martirio di Sant'Andrea, l’altro Cristo 
che chiama S. Pietro all’apostolato, e al fonte la figura di S. Giovanni Battista tutti 
questi lavori fatti per sola amicizia, e per rimborso delle spese avuto solo 200. 


Agosto 21. Per una figura dipinta in una sala del palazzo Curiel in via de Banchi. 50. 
c. 34r. Novembre 9. Per due trasparenti per la chiesa di Santa Brigida. 35. 
Dicembre 10. Da padre Andrea da Quarata per le pitture fatte a tempera nella 
chiesa del Collegio Serafico, presso Prato, e che poi per conseguenza del umido si 
guastarono, e fu rifatto a olio con il medesimo soggetto il solo quadro dell’altare 


maggiore rappresentante l'Adorazione dei Magi. 350. 


Anno 1875 

Febbraio 6. Dal molto Rev.o Signor Giuseppe Bartolini priore della chiesa di Set- 
tignano per la pittura del quadro a olio rappresentante i Sette Dolori di Maria, e 
collocato nella chiesa di Settignano. 200. 


Febbraio 17. Per due Putti fatti in un catino in via Pier Capponi. 25. 


c. 34v. Febbraio 20. Dal signor pievano di S. Ilario a Montereggi per un quadret- 
to a olio di S. Giuseppe e collocato nella sua chiesa. 55. 


Febbraio 30 [sic]. Per la pittura di uno stendardo fatto per Marradi, con la Ma- 
donnina, San Lorenzo e il Sacramento. 70. 


Aprile 19. Dal sig. Antonio Bini Per il quadretto a olio della Sacra Famiglia posto 
nella cappella a Villa Magna. 120. 


Aprile 29. Per aver dipinto un soffitto con quattro Putti, e una figura in una lunetta 
nella cappella mortuaria della famiglia Biondi nel cimitero di Pomarance. 80. 


354 


Maggio 28. Per uno stendardo fatto per una chiesa del Sanese con S. Girolamo. 60. 


c. 35r. Giugno 22. Dal Padre guardiano di Monte Carlo presso S. Giovanni in 
Val d'Arno per due quadretti, uno con S, Giuseppe l’altro col il Sacro Cuore di 
Gesù. 70. 


Giugno 24. Dal signor can. Giani Direttore del Demanio fiorentino per il qua- 
dretto a olio del Sacro Cuore di Gesù e la Beata Alacquoc [sic] posto nella chiesa 
suddetta. 50. 


Luglio. Da padre Andrea da Quarata per due quadri a olio collocati nella chiesa 
del Collegio Serafico presso Prato, uno rappresentante Gesù e Maria che appari- 
scono a S. Francesco, ed all’intorno diverse storiette dei Santi dell'Ordine, Kis 
sei Santi intorno alla Madonna di rilievo che sta dentro una nicchia. 350. 


Ba 12. Per diverse pitture fatte nel villino dei fratelli Martolli in piazza d’ Az- 
zelio [sic]. 290. 


c. 35v. Agosto 12. Due pitture fatte per conto dell’Arci Spedale di S. Maria Nuo- 
va, cioè alla sala del commissario nel soffitto dipinto la Scienza, la Carità, e nella 
farmacia diverse altre pitture di ritratti di Filippo Portinari ed altri. 185. 


Settembre 2. Dai Padri del convento di Monte Carlo in val d'Arno, per due 
quadretti, uno la Vergine Addolorata, l’altro S. Francesco. 30. 


Settembre 10. Dal Vicario di Corliano presso Scarperia Giovacchino Tacchi per 
uno stendardo per la Compagnia col Sacramento due angioli, e un putto con 
cartello. 


Settembre 20. Dal signor Priore di S. Lucia a Terzano per la figura della Santa 
fatta nella stufa del Chiostro e due tondi con i busti dei SS. Pietro e Paolo, sopra 
il coro. 30. 


36r. Ottobre 30. Dai Padri del convento del calvario presso Pistoia per il quadro per 
la cappella del Noviziato rappresentante la Madonna col bambino Gesù, ed i SS. 
Francesco e Leonardo, con diversi novizi preganti la Vergine. 100. 


Novembre 2. Dal signor Vicario della chiesa di S. Lorenzo a S. Giovanni in Val 
d’Arno per un piccolo S. Luigi a olio. 25. 


Anno 1876 
Febbraio 10. Dal molto Rev.o signor Priore di Ricorboli Rocco Torelli per un Sacro 
Cuor di Gesù. 


Febbraio 20. Dal signor Cesare della Ripa per alcuni putti dipinti nel suo [sic] pa- 
lazzina in Lungarno dalla Vagaloggia. 120. 


Febbraio 30. Dai Rev. Padri Riformati del convento presso Radda in Chianti/ 


355 


Stefano Renzoni 





c. 36v. per un quadro a olio alto m. 2, 10 largo m. 1, 75 dipintovi la Vergine Con- 
cetta [sic] Il Cristo del Sacro Cuore, ed i Santi Francesco, Bonaventura Antonio e 
Chiara, e collocato nella loro chiesa. 400. 


Aprile 14. Dal signor eno Dauphine per un quadro a olio opp la SS. 
Annunziata alto m. 1, 35 largo m. 1, 80, e collocato nella sua cappella della villa. 400. 


Aprile 25. Per due sfondini fatti nella chiesetta dello Spizio in Pinti 25 dei padri Rifor- 
mati uno con tre Putti, esprimenti Fede Speranza e Carità nell’altro due angioli collo 
stemma francescano, e due figure ai lati dell’altare con i SS. Francesco e Chiara. 70. 
Maggio 2. Per un piccolo quadro del Cuor di/ 

c. 37r. Gesù per la chiesa del Collegio Serafico presso Prato. 25. 


Giugno 4. Dal signor Dottor Enrico Francois per il piccolo telone dell’ organo della 
chiesetta dello Spizio in Pinti. 


Giugno 10. Dal molto Rev. Padre Cesare Ruggini filippino per il quadro a olio 
alto m. 4, 62 largo m. 2, 25 rappresentante no del Sacro Cuore di Gesù 
alla Beata Margherita Alacqoch [sic], e posto al secondo altare a mano destra nella 


chiesa di S. Firenze di questa città. 1500. 
Luglio 4. Dal signor Silvio Bonamici per pittura fatta nella sua casa in via della 
Pergola. 100. 
Luglio 8. Dall’Ill.mo signor Conte Ugolino della Gherardesca per pittura fatta nel 
bagno del suo palazzo in Firenze. 60. 
c. 37v. Luglio 8. Per pitture fatte al villino Martelli in piazza D’Azelio. 65. 
Agosto 4. Per uno stendardino con la V. Assunta. 27. 


[Agosto] 11. Dal molto rev. Priore Antonio Pierallini per tre lunette ed un quadro 
ad un altare, e più l’altra lunetta sopra la porta della sua chiesa di S. Adrea a Cam- 
piglia in Val d'Arno presso Filline [sic]. 300. 


[Agosto] 18 Per un Putto fatto in casa Bellini delle Stelle 20. 
Settembre 10. Per pitture fatte nella soffitta e pareti della chiesa Propositura di Pon- 
tassieve, rappresentanti i Sette Dolori di Maria, i SS Pietro e Paolo e più una figura 
della Religione in coro con le quo Virtù cardinali, negli angoli del soffitto N. 
4 ovali con angeli ed il telone d'organo con S. Cecilia, il tutto eseguito per conto 
del Proposto/ 

c. 38r. Giuseppe Rondoni. 1000. 


Settembre 7. Dal signor Egisto Martelli, per lavori fatti ad un suo villino in via 


Alferi. 80. 


356 


Quasi un diario. I “Ricordi artistici” di Ferdinando Folchi 





Ottobre 5. Dal signor Bongini priore della chiesa delle Corti presso Rignano per 
quattro piccole tende nel soffitto del coro alla sua chiesa. 40. 


Ottobre 30. Dal signor Sie Focardi priore a Radda per la sua chiesa di San 
Niccolò per un quadro a olio di S. Giuseppe alto m. 1 1⁄2 largo 1, 20 e posto ad un 
altare laterale. 160. 


Novembre 4. Per pittura fatta nella palazzina del signor Dondè David. 100. 


Novembre 6. Per un quadretto di S. Gonda posto nella chiesa di S. Simone di que- 
sta città per solo rimborso delle spese. 


c. 38v. Dicembre 20. Per uno stendardino fatto di committenza del negozio [?] 
setaiolo. i 


Anno 1877 
Febbraio 4. Dal signor Dott. Lucci per lavori fatti nel suo stabile in via Valfonda. 70. 


Febbraio 6. Dal signor Pievano Della Rata Per il quadretto del Transito di S. Giu- 
seppe alto m. 1,30 largo m. 0,95 a olio. 100. 


Febbraio 10. Dal molto rev. Signor Giuseppe Rondoni Proposto di Pontassieve 
per un quadro a olio alto m. ... largo m. ... con i SS. Alfonso de Liguori, e Teresa 
con due putti e collocalo [sic] nella chiesa propositura di detto luogo, all’altare di S. 
Giuseppe. 250. 


c. 39r. Febbraio 23. Dal signor Guiducci Per la pittura fatta alla sua cappella della 
villa di Terzano. 40. 


Marzo 16. Dal signor Pievano di S. Giusto in Chianti, Aurelio Pianigiani per un 
piccolo ovale col Sacro Cuor di Gesù, dipinto a olio. 


Marzo 30. Per pittura fatta nel palazzo del signor Righi a Filline. 140. 


Aprile 15. Dal signor Proposto Paolo Mori di Fauglia per pittura fatta a tempera al 
Battisterio [sic], e u gran bassorilievo a chiaroscuro sopra la porta di chiesa, di detto 
luogo, e rappresentante S. Lorenzo che dispensa l'elemosina a i poveri. 250. 


Aprile 27. Per pitture fatte alla chiesa di San Clemente a Rignano, per favorire il pit- 
tore Noferi di Pontassieve perché il solo rimborso delle spese occorse, dipingendovi 
la Gloria del Santo due putti e una Religione, sopra il presbiterio. 


c. 39v. Maggio 12. Dai signori Rev. Padri della Verna per due quadri a olio alti m. 
1,30 per m. 2 e rappresentanti, uno la Funzione della sacra fatta da i Vescovi della 
chiesina detta degli Angeli, e l’altro il primo incontro di S. Francesco col conte 
Orlando Cattani e tutti e due collocati alle pareti della chiesina degli Angeli. 500. 


Maggio 12. Per un tabernacolo fatto a buon fresco presso Pistoia, per commissione 
del signor Luci, rappresentante la V. Maria detta Refugium Peccatorum. 100. 


357 


Stefano Renzoni 





Maggio 25. Dal signor Eugenio Daupine per un piccolo Cuore di Gesù a olio. 35. 


Giugno 23. Dal molto Rev. Signor canonico Fabiani Luigi per pitture fatte nella 
sua villa a Terzano. 100. 


Luglio 2. Per un quadro a olio alto m. 2, largo/ 

c. 40r. m. 1,30 rappresentante S. Michele, fatto per un signore di Premilcuore. 150. 
Agosto 4. Dal signor Conti per pittura fatta al suo palazzo. 60. 
Ottobre 6. Dal signor Giuseppe Giacomelli per pittura fatta a buon fresco in un 
tabernacolo presso Pistoia in i detto la Chiesina, con la Vergine Addolorata, e 


i SS. Giuseppe e Marco Evangelista. 100. 


1878. 
Febbraio 3. Dal signor pievano Amelio Pianigiani per un ovale con S. Antonio abate. 25. 


Febbraio 12. Per una figura di S. Andrea in gloria con angeli dipinto nel soffitto 
della chiesa di Ca deli, fuori la Porta S. Niccolò 40. 


Febbraio 25. Dal molto rev. Padre Andrea da Quarata per la pittura a buon fresco 
del tabernacolo on la Crocifissione al Calvario presso Pistoia. 80. 


c. 40v. Marzo 3. Dal guardiano del convento di S. Detole, per un S. Edoardo da 
Porto Maurizio dipinto a olio. 50. 


Aprile 27. Dall'Ill.ma signora Anna Giannelli di Premilcuore, per un quadro dipin- 
to a olio alto m. 2,40, per m. 1,95 dipintovi la Vergine, Gesù Bambino, ed i SS. 


Anna e Onofrio, e collocato nella chiesa di detto luogo. 500. 
Maggio 14. Per un piccolo Cuore di Maria per Castelfiorentino. 25: 
Maggio 16. Per un piccolo stendardo per Carrara. 25. 
Giugno 22. Per la pittura fatta a buon fresco all’altare maggiore della chiesa di 
Quintole rappresentante Cristo che dà le chiavi a S. Pietro. 60. 
Giugno 30. Per uno stendardino con i SS. Giuseppe e Stefano. 23. 


c.4lr. ui 26. Dai Padri del Collegio Serafico presso Prato per titolo di semplice regalo 
per aver dipinto a olio nuovamente il quadro dell’altare maggiore che l'umido aveva guasto 
e rappresentante i Magi adoranti Gesù, quadro alto m. 1% per m. 2,20. 120. 


Agosto 29. Per uno stendardino della Madonna della Cintola fatto per la chiesa di 
S. Niccolò a Liana. 40. 


Agosto 30. Dal molto rev. Si io Salvatore Manetti pre a di Pontassieve per il qua- 
dro a olio dell’Apparizione del Sacro Cuore di Gesù alla Santa Margherita Alaquoche 


358 


Quasi un diario. I “Ricordi artistici” di Ferdinando Folchi 





[sic], e posto all’altare del SS. Crocifisso nella Propositura di detto luogo. 250. 


Settembre 4. Dai Padri del Calvario presso Pistoia, per la pittura a tempera alta m. 3 
% per m. 4,50 rappresentante il Calvario e collocato nel coro di detta chiesa. 370. 


c. 41v. Ottobre 20. Dal molto Rev. Signor Priore Giovacchino Tarchi di S. Andrea 
a Corliano in Mugello per una figurina a tempera del sacro cuore dipinto all’altare 
della Compagnia della detta chiesa. 


Ottobre 22. Per la pittura fatta a pop nel soffitto dell’ oratorio del Crocifisso a 
Pelago rappresentante l’Orazione nell'orto. 25. 


Novembre 20. Per un quadretto con due angioli che incoronano il S. Cuore di 
Gesù andato nella Vandea in Francia. 


Dicembre 12. Per uno S[t]endardino. 15. 
Anno 1879 
Gennaio 2. Dal Catani per alcuni lavoretti fatti in casa Rubini. 40. 


Marzo 1. Dalla Società d’Incoraggiamento/ 


c. 42r. di Belle Arti di Firenze, per un dipinto a olio rappresentante il Trionfo d’A- 


more acquistato dal socio signor Ciottoli. 400. 
Maggio 1. Per un quadro fatto la Pia opera della Infanzia. 150. 
Maggio 3. Per un trofeo fatto in una bandiera. 30. 


Maggio 12. Per una monaca del Conventino per una Madonna del Sacro Cuore. 30. 


Luglio 20. Dal signor Torello Biagini per avere dipinto a buon fresco un tabernaco- 
lo nel luogo detto il Nespolo presso Pistoia, e rappresentante la Vergine di Monte 
Nero, e i SS. Giuseppe e Marco 130. 


Luglio 21. Dal signor David [?] per aver fatto alla sua cappella della villa due figure, 
un nel soffitto cioè la V. Assunta e all’altare la figura del . Cuore. 100. 


c. 42v. Settembre 2. Dal A Priore Francesco Ciulli per il dipinto a tempera 
fatto all’altare maggiore della sua chiesa a Uliveta in Mugello, e rappresentante il 
Martirio dei SS. Quirico e Giulitta. 150. 


Dicembre 2. Dai padri francescani del Collegio di San Bonaventura a Quaracchi 
per due sui del S. Francesco di Margheritone [sic]de esistente a Sargiano, e per 
una copia del Beato Agniello che esiste al convento della Verna. 320. 


Anno 1880. 
Maggio 6. Per uno stendardo dipinto per la città di S. Miniato al Tedesco, rappre- 
sentante la Vergine il Bambino, e S. Antonio Abate. 60. 


359 


Stefano Renzoni 





Settembre 7. Dalla R. Casa per il dipinto a olio del quadro rappresentante un epi- 
sodio del Sacco di Roma, sotto Clemente VII alto m ... largo m. ... commissione/ 


c. 43r. ricevuta dal Re Vittorio Emanuelle secondo, e collocato nel Reale palazzo di 
Venezia. 1500. 


Settembre 11. Per uno stendardino con la Madonna addolorata, e San Lorenzo. 30. 


Anno 1881 
Gennaio 4. Dal molto Rev. Signor Sinibaldo Conti curato della chiesa di S. Felice in 
Piazza di Firenze, per dipinti fatti nella cappella della Madonna in detta chiea. 400. 


Marzo 4. Dall’Opera dell’oratorio del SS. Crocifisso presso Borgo S. Lorenzo, per 
il quadro dipinto a olio alto m. 4,12 largo m. 2,6 rappresentante il Transito di S. 


Giuseppe e posto ad un altare laterale di detto oratorio. 1000. 
Aprile 15. Per uno stendardo fatto per una chiesa presso S. Gimignano. 50. 
c. 43v. Giugno 10. Per uno stendardo fatto per Villamagna. 30. 


Ottobre 15. Dal signor pievano Pietro Lorenzi per la pittura eseguita nell’oratorio 
di San Cerbone presso la chiesa di San Cresci in Valcava nel Mugello, rappresentan- 
te la miracolosa guarigione di S. Cerbone operata da San Cresci. 150. 


Anno 1882 

Marzo 22. Dalle Rev. Monache Domenicane del nuovo convento alla Pietra fuori 
dalla Porta a S. Gallo, per il quadro a olio alto m. 2,20 per m. 1,59 rappresentante 
la Madonna del Rosario con i SS. Domenico, e Caterina da Siena, e collocato nella 
loro chiesa. 500. 


Maggio 12. Per a pittura fatta in un tabernacolo/ 


c. 44r. presso il Ponte a Rignano sull’Arno rappresentante la Madonna con i SS. 
Giuseppe e S. Leonino [sic]. 120, 


Luglio 12. Per il soffitto con la Gloria di San Leone Magno eseguito nella chiesa di 
detti Santi e più quelli Putti rappresentanti le Virtù Teologali lavoro eseguito per 
conto dell'amico Neri Guiducci e regalo fatto al Priore della chiesa di detti Santi 
presso Greve. 70. 


Settembre 29. Dal molto Rev. Padre abate di S. Trinità di Firenze Fusi, per il quadro 
a olio rappresentante S. Giovanni Gualberto che perdona all’uccisore di suo fratello 
alto m. ... largo m. ... e collocato all’altare di detto Santo nella chiesa di S. Trinita 
di Firenze, e per solo regalo. 300. 


Settembre 9. Per la pittura fatta alla cappella del S. Cuore di Gesù in Greve, cioè 
soffitto, tavola d’altare e quadri laterali a solo/ 


360 


Quasi un diario. I “Ricordi artistici” di Ferdinando Folchi 





c. 44v. in titolo di rimborso di spese. 120. 


Novembre 21. Dal Padre Andrea Scolopio per uno stendardo con la Madonna 
della Neve. 60. 


Novembre 29. Da fra Marcello dei Servi della SS. Annunziata, per uno stendardo 
ordinatomi per conto di un Priore della Diogesi di S. Miniato, e rappresentante San 
Martino vescovo in gloria. 50. 


Dicembre 12. Dal signor Giocondo Casini pievano di Vicchio in Mugello, per N. 
4 quadri dpan a tempera e collocati nella chiesa di detto paese, e rappresentanti 


altrettanti fatti della vita del Battista. 400. 
Anno 1883 

Gennaio 9. Per un quadro esprimente S. Antonio Abate alto m. 2, largo m. 1,40 e 
collocato in una cappella dei padri Valombrosani presso Paterno. 100. 


c. 45r. Aprile 19. Dalla Ill.ma signora contessa Teresa Guicciardini, per il quadro a 
olio alto m. largo m. rappresentante la Vergine Concetta ed i SS. Francesco, e 
Lodovico re di Francia e poi due putti quadro collocato nella nuova chiesa dei Padri 
Riformati in Chianciano. 350. 


Aprile 21. Dalla Compagnia della Divina Pastora esistente in Luco in Mugello, per 
uno stendardo. ; 


Maggio 18. Per uno stendardo fatto per la chiesa di S. Maria a Scandicci, con la 
Madonna Assunta. 


Giugno 2. Per uno stendardino con la Concezione fatto per Pisa. 40. 


Giugno 15. Per due quadri dipinti a olio rappresentanti i SS. Pietro [?] e Chiara 
eseguii per conto dei religiosi Riformati di Londra e collocati nel loro convento di 
detta città. 200. 


c. 45v. Giugno 30. Dal signor canonico Sinibaldo Conti vicario alla chiesa di S. 
Niccolò Oltre Arno in Firenze per la pittura eseguita a tempera alla tavola dell’altare 
della Madonna di Lourdes esistente in detta chiesa. 150. 


[in un foglietto] La somma di tutto il libro resulta di 64.677.00. 


c. 46r. Correzioni ed aggiunte a questi Riccordi [sic] al anno 1853. 

Fu omesso riportare on fatti per commissione del molto rev. Sacerdote Pietro 
Porcellotti di Grassina [?], in Casentino, per la nuova chiesa da esso fatta costru- 
ire ed alla quale alľaltare maggiore fu posto il mio quadro esprimente la Vergine 
Concetta e quattro angioletti, ed all’altro laterale un San Luigi Gonzaga il primo 
dell'altezza di braccia 3 1/7 largo braccia 2 3/4, ed il secondo alto braccia 3 largo 
braccia 2 per il prezzo tutti e due di L. 1000. 


361 


Firenze nei dipinti di Giorgio De Chirico (terza parte) 
dalla Grande Guerra all’alba del Surrealismo 





LUCA MACCHI 


Seguendo quanto Giorgio De Chirico scrive nelle “Memorie” abbiamo visto 
come i due fratelli siano partiti da Firenze per raggiungere, in momenti diversi, 
Parigi. Nella capitale francese mentre Andrea continua le sue composizioni 
musicali e inizia a scrivere, Giorgio espone ai Salon, entra in contatto con il poeta 
Guillaume Apollinaire e il mercante Paul Guillaume. Con l’entrata in guerra 
dell’Italia nel Maggio 1915, Giorgio e Andrea nello stesso mese lasciano Parigi 
per fare ritorno a Firenze e presentarsi al Distretto Militare dove erano iscritti. 
Così De Chirico ricorda il loro arrivo a Firenze: “Al distretto di Firenze mi accorsi 
subito a quali delizie andavo incontro, ed osservai per la prima volta certe “bellezze” 
della vita militare. Prima per l'olfatto: appena mi approssimavo al distretto militare, 
ad una caserma o ad un deposito militare, avevo subito le narici gradevolmente 
stuzzicate da Si che giungeva a zaffate e in cui in una bellissima sinfonia si 
mescolavano l'odore delle gavette unte, dei piedi non lavati, dell'acido fenico, della 
creolina e del caffè tostato”. De Chirico prosegue nella descrizione della visita 
medica e dei medici che lo dichiararono “abile” alle fatiche di guerra' senza 
preoccuparsi minimamente di chiedere il suo parere. 

Da Firenze Giorgio e Andrea Alberto sono destinati al 27° reggimento di Fanteria, 
Brigata Pavia, a Ferrara. Una nuova città entra così nel loro mondo. Negli anni 
passati a Ferrara, nonostante gli obblighi della vita militare, De Chirico riprende 
a dipingere presso un'abitazione presa in affitto dalla madre Gemma, che aveva 
seguito i figli. Un appartamento in via Montebello 24, vicino al palazzo del 
Marchese Tibertelli più conosciuto come Filippo de Pisis, dove con la madre e 
il fratello Andrea si ricrea il nucleo famigliare quando gli impegni di caserma lo 
consentono. Andrea è poi inviato in Macedonia come interprete mentre Giorgio 
resta a Ferrara. Qui ha la possibilità di dipingere nella casa presa in affitto ma 
anche nel convalescenziario della Villa il Seminario appena fuori Ferrara. Era 
questo un Ospedale militare all'avanguardia negli anni del primo conflitto 
mondiale. Un luogo dove non si curavano solo le ferite fisiche della guerra ma 
anche quelle psicalosiche. Nella Villa Il Seminario si dava la possibilità ai soldati 
di recuperare il proprio equilibrio interrompendo per un periodo la vita militare 
e tornando alle varie occupazioni individuali condotte nella vita da civili. E qui 
che De Chirico tra il maggio e il luglio 1917 incontra il pittore Carlo Carrà che, 
dopo aver visto i quadri î De Chirico, inizierà la sua fase metafisica. 

Adesso a offrirsi come scenografia per le sue composizioni pittoriche sono le 
architetture di Ferrara, sono quegli interni di vetrine e di negozi con i dolci e 
il pane con le loro forme strane e metafisiche che insieme a carte geografiche, 





! G. De Chirico, Memorie della mia vita, pag. 81, Ed. Bompiani, 1961 


363 


Luca Macchi 





mostrine militari e altro diventano i protagonisti dei suoi dipinti. Il castello 
degli Estensi di Ferrara e altri edifici s'inseriscono nei suoi dipinti dopo quelli 
di Firenze e Torino. E a Ferrara che si ha lo sviluppo del tema del manichino 
e, nonostante la vita militare, qui De Chirico esegue molti dei suoi capolavori 
come “Ettore e Andromaca”, “Le Muse inquietanti”, “Il grande Metafisico” e altri 
ancora. Dal 27° reggimento di Fanteria di Ferrara De Chirico mantiene rapporti 
epistolari con Parigi ma anche con Firenze, scrivendo molte lettere ad Ardengo 
Soffici e a Giovanni Papini’. Al termine della guerra sarà trasferito a Roma in 
attesa di congedo. A Roma terrà la mostra personale alla Galleria Bragaglia 
visitata da Roberto Longhi che scriverà il famoso articolo “A/ dio ortopedico” sul 
quotidiano // Tempo’. Negli anni passati a Roma De Chirico entrerà in contatto 
con Mario Broglio e la rivista Valori Plastici. È proprio attraverso le pubblicazioni 
di Valori Plastici che il suo lavoro comincerà ad avere una diffusione più ampia. È 
grazie alla rivista “Valori Plastici” che avverrà il contatto tra Giorgio De Chirico 
e Giorgio Castelfranco‘, personaggio destinato ad assumere un ruolo di primaria 
importanza in quegli anni per De Chirico. 

Come abbiamo detto il giovane Castelfranco dopo aver visto le opere di De 
Chirico sulla rivista Valori Plastici chiede a Soffici e a Rosai di metterlo in contatto 
con lui per acquistargli un quadro e per questo lo va a trovare a Milano, dove De 
Chirico risiedeva alla fine del 1919. 

Gli incontri tra i due si susseguono fino a diventare amicizia. Possiamo dire che 
è grazie a De Chirico che Castelfranco scopre l’arte contemporanea. Infatti, 
Castelfranco, che lavorava presso la Soprintendenza, prima a Taranto e poi a 
Firenze, diviene collezionista di De Chirico in un momento in cui il pittore 
non era ancora approdato al mercato. Oltre che collezionista diventerà anche suo 
mecenate e critico e scriverà in varie occasioni sulla sua pittura. 

Giorgio De Chirico, riguardo a Castelfranco, scrive nelle memorie: “(...) In quel 
tempo avevo ripreso a dipingere ad olio. La pittura ad olio l'avevo abbandonata 
per un certo periodo. Durante i numerosi soggiorni che feci a Firenze, tra il 1919 
ed il 1924, una volta, mentre copiavo al Museo degli Uffizi la Sacra Famiglia di 
Michelangelo, conobbi il pittore russo Nicola Locoffi che mi spiegò come molte pitture 
antiche, hr sembrano pitture a olio, sono invece tempere grasse verniciate. La tempera 
mi tentò; cominciai a cercare ricette di questa tecnica e per alcuni anni dipinsi a 
tempera (...) Durante i miei soggiorni dn abitai e lavorai sovente in casa del 
dottore Giorgio Castelfranco. L'avevo conosciuto a Milano, subito dopo l'altra guerra 





2 Da una di queste lettere a Soffici sappiamo che prendeva licenze di due giorni per andare a 


trovare lo zio barone Gustavo De Chirico a Firenze. 

3. L'episodio della visita di Longhi alla mostra e il relativo articolo su Il Tempo sono narrati da 
De Chirico nelle Memorie della mia vita a pag. 101 — 102. 

4 Giorgio Castelfranco è forse la figura principale del periodo fiorentino di De Chirico tra il 
1921 e il 1924. Castelfranco nasce a Venezia nel 1896 da Adolfo ed Elisa Forti e muore a Roma nel 
1978. Ferito gravemente nella prima Guerra Mondiale e ricevette la medaglia d’argento. Ispettore della 
Soprintendenza nel 1926 a Taranto nel 1929 è trasferito alla Soprintendenza di Firenze. Conobbe e 
strinse amicizia con Giorgio de Chirico e Alberto Savinio. Fra il 1921 e il 1924 De Chirico fu spesso 
ospite nella casa di Castelfranco in Lungarno Serristori. 

5. Giovanna Rasario, Le opere di Giorgio de Chirico nella collezione Castelfranco l'affaire 
“Muse Inquietanti” in Metafisica n. 5/6 (2006) 


364 


Firenze nei dipinti di Giorgio De Chirico (terza parte) 
dalla Grande Guerra all'alba del Surrealismo 





ed egli mi aveva acquistato un mio autoritratto. In seguito Castelfranco mi acquistò 
molti quadri. Feci anche un bellissimo doppio ritratto di lui insieme alla moglie.” 
È a Firenze che scopre le possibilità che può offrire la tecnica della tempera 
all'uovo, iniziando la sua ricerca e i suoi studi che lo porteranno, dopo qualche 
anno, a scrivere il Piccolo trattato di tecnica pittorica?. 

AI termine della Grande Guerra nel mondo dell’arte europeo si respirava il 
clima del cosiddetto “ritorno all'ordine” che in Italia ha significato soprattutto 
un ritorno al mestiere, alla riscoperta delle tecniche artistiche della grande 
tradizione pittorica e figurativa alan L'interesse di De Chirico per la grande 
pittura nasce nella famosa visita al Museo di Villa Borghese dove è con “lingue 
di fuoco”, “clangori solenni” di armi percosse, e suoni “di trombe annuncianti una 
resurrezione” che De Chirico, davanti ad un dipinto di Tiziano, ha la “rivelazione” 
della “grande pittura”, della materia pittorica”. Così come, esattamente dieci anni 
prima, aveva ricevuto la rivelazione della Metafisica nella Piazza Santa Croce a 
Firenze. 

A Firenze ha la possibilità di tornare a vedere gli affreschi e i dipinti che già aveva 
visto e studiato dieci anni prima ma anche, per interesse del momento, di copiare 
opere nei musei e di parlare di tecnica con restauratori e artigiani. 


Ai soggiorni fiorentini presso l’amico e mecenate Giorgio Castelfranco è legato 
un ricordo che De Chirico racconta in una intervista rilasciata a Camilla Cederna 
“ (...) Quando fui ospite di amici che a Firenze avevano una villa vicino all’Arno 
in un periodo in cui grossi topi venivano su dal fiume a rosicchiare nelle dispense e 
a spaventare la servitù. Avevano messo trappole dappertutto e dopo un ta seppi che 
riuscivano a prenderne parecchi. Mi alzavo allora di notte, fra de due e le tre, mentre 
tutti dormivano, n impadronirmi, silenzioso come un ladro delle trappole piene. Le 
portavo in riva all’Arno, lì le aprivo e liberavo i topi (continua)”. 


Da questo brano dell'intervista si capisce chiaramente che De Chirico abitava 
nel villino. Nelle Memorie scrive “Durante i miei soggiorni fiorentini abitai e 
lavorai sovente in casa del dottore Giorgio Castelfranco.” Sovente, cioè spesso ma 
non continuativamente. 
Il suo soggiorno a Firenze era già programmato come apprendiamo dalla lettera 
a Rosai a Novembre 1919: “(...) In primavera verrò a Firenze a passare un paio 
di mesi; vorrei fare anche qualche copia nelle Gallerie. Aspetto Castelfranco e spero di 
combinare la vendita (...). 
Nella lettera manifesta già l'intenzione di fare copie nei musei e aprire così quel 
eriodo dove sembra abbandonare la metafisica come la abbiamo conosciuta 
DG a questo momento per recuperare e appropriarsi delle tecniche della grande 
tradizione della pittura italiana. 





G. De Chirico, Memorie, pag. 125, Ed. Bompiani, 1961 

Giorgio De Chirico, Piccolo trattato di tecnica pittorica, Ed. Giovanni Scheiwiller, Milano 1928. 
Memorie pag. 106 

Camilla Cederna, “M travestito” intervista pubblicata sull’Espresso del 22 luglio 1962, pag. 
11 — 12 — 13 riportata in “Giorgio De Chirico, l’uomo, l'artista, il polemico” a cura di Mario Ursino, 
Gangemi Editore, Roma 2012. 


Vv 0 NY A 


365 


Luca Macchi 





Il suo sguardo sulla città e i suoi edifici è adesso più fedele alla realtà. Mentre 
nei primi dipinti metafisici le architetture venivano tradotte nel linguaggio della 
nuova visione metafisica, adesso vengono da lui rappresentati in modo più rea- 
listico anche se ancora immersi in un'atmosfera assolutamente metafisica. A Fi- 
renze, nei soggiorni di questi anni, De Chirico conia l'altro aspetto, l'altra faccia 
della stessa medaglia metafisica. 

Per cercare di seguire gli spostamenti di De Chirico, cosa non semplice, prendiamo 
come riferimento i suoi epistolari conosciuti e osserviamo che quando scrive a Ottone 
Rosai è ancora a Milano. Aveva dunque già in programma, prima dell'incontro 
con Giorgio Castelfranco, di andare a Firenze contando, quasi sicuramente, 
sull appoggio dei parenti. La prima lettera che troviamo spedita da Firenze è del 14 
Aprile 1920, indirizzata a Olga Resnevic — Signorelli e reca l'indirizzo di Via Fra 
Giovanni Angelico, 69. Indirizzo che ritroviamo puntualmente su tutte le lettere 
da lui inviate fino al 2 Settembre 1920. Dal mese di Ottobre 1920 l'indirizzo che 
troviamo nelle lettere è quello di Via Ricasoli 44 cioè quello dell’abitazione dello 
zio, Gustavo De Chirico, fratello del babbo Evaristo. L'indirizzo di via Ricasoli resta 
nelle successive lettere fino ad Agosto 1921. Del 19 Novembre del 1921 è la famosa 
lettera — contratto con Mario Broglio, dove figura l'elenco dei quadri e dei disegni 
“dati al S.or Mario Broglio” e datata Roma, 19 Nov. 1921. Nella primavera del 1922 
lo sappiamo a Firenze per partecipare alla Fiorentina Primaverile. Le lettere spedite 
da Firenze riprendono dal Maggio del 1923 fino ad Agosto dello stesso anno per 
poi tornare a registrare gli indirizzi di Roma. 

Nel 1922 De Chirico partecipa con il gruppo di Valori Plastici alla Fiorentina 
Primaverile!°. Mario Broglio, direttore della rivista e pittore a sua volta, presenta nel 
catalogo il numeroso gruppo di artisti di Valori Plastici. De Chirico partecipa alla 
mostra con ventuno Fipinti e alcuni disegni. Metà delle opere erano del periodo 
metafisico e l’altra metà era costituita da lavori recenti che hanno per soggetto ritratti 
e nature morte e “soggetti che ci riportano in un mondo eroico, mitologico e storico”"!. 
Un'esposizione che bene si presta quale anello di congiunzione per comprendere la 
continuità del pensiero di Giorgio de Chirico nel passaggio dalla pittura metafisica 
al nuovo linguaggio della tecnica e del mestiere. La partecipazione alla rassegna 
fiorentina costituisce anche l'episodio conclusivo per il gruppo di “Valori Plastici”. 
Pochi mesi dopo la partecipazione alla rassegna fiorentina uscirà quello che 
risulterà essere l’ultimo numero della rivista. In merito alla sua partecipazione a 
questa mostra De Chirico ci lascia un ricordo, questa volta non nelle Memorie della 
mia vita, bensì nel “Piccolo trattato di tecnica pittorica” dove scrive: “Alla Biennale 
Fiorentina nel 1922 quando esposi una serie di pitture con il gruppo Valori plastici in 
una sala sotterranea e priva della luce del sole ove dai muri sgocciolava l'acqua per la 
troppa umidità, nessun inconveniente toccò ai miei lavori ia fossero quasi tutti 
dipinti a tempera su cartoni, e ciò perché ebbi la prudenza di dare una buona mano di 


10 La Fiorentina primaverile, Prima esposizione nazionale dell’opera e del lavoro d’arte, Palazzo 


delle Esposizioni nel Parco di San Gallo, Firenze, 1922. 

!! Valori plastici, XIII Quadriennale, catalogo a cura di P. Fossati, P. R. Ferraris, l. Veliani, Ed. 
Skira, Ginevra — Milano, 1998. La frase è estratta dalla presentazione di Broglio per la Fiorentina Pri- 
maverile. 


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Firenze nei dipinti di Giorgio De Chirico (terza parte) 
dalla Grande Guerra all'alba del Surrealismo 





catrame sul rovescio di ogni cartone (...)""?. 


De Chirico spiega il motivo che l’ha portato ad abitare a Firenze in quel periodo 
in una lettera ad André Breton del 16 Agosto 1923 scritta proprio da Firenze: 
“Mio carissimo amico, 

ho cina ricevuto la vostra lettera qui a Firenze, dove mi trovo da quattro mesi. 
Ho dovuto lasciare Roma non riuscendo a trovarvi uno studio, per fortuna un mio 
amico di Firenze (il quale è divenuto poi mio mecenate) mi ha offerto ospitalità in 
una graziosa villa il riva dell’Arno; così ho potuto lavorare e, approfittando della 
vicinanza dei miei maestri preferiti, proseguire i miei studi di tecnica pittorica, (...) 
Resto a Firenze per tutto agosto e forse anche fino al 10 settembre; dopo ritorno a Roma 
(...)”. L'indirizzo che scrive sulle lettere a Breton è quello di Villa Castelfranco, 
Lungarno Serristori, Firenze. 


Nel Maggio del 1923 Nella palazzina di Giorgio Castelfranco e Matilde Forti 
viene organizzata una mostra di De Chirico con circa venti opere.” La palazzina, 
con piccolo giardino posta sul Lungarno Serristori, angolo Piazza Poggi dove si 
trova la Torre di San Niccolò, era di proprietà della famiglia di Matilde Forti (Prato, 
1894 - Los Angeles, 1961) cugina che Giorgio Castelfranco sposò nel 1919." La 
palazzina è oggi conosciuta come “Casa Siviero”. Nel 1944 Rodolfo Siviero acqui- 
stò dalla Forti parte del villino. Alla scomparsa di Matilde Forti, Siviero acquistò 
dalla figlia Giovanna Vittoria Castelfranco, la parte restante della casa. Rodolfo 
Siviero, come scrive nel suo diario, sarà legato da amicizia sia a Castelfranco che 
a De Chirico. Circa la collezione di opere di De Chirico nel villino scrive: “Il 
periodo fiorentino di Giorgio De Chirico era rappresentato da una collezione di 
splendide opere che aveva dio subito dopo la guerra in casa di Giorgio Castel- 
franco, del quale, anche, era stato ospite. In quella casa aveva dipinto il Paesaggio 
torsi e Andromaca, Il Figliol Prodigo e alcuni bellissimi autoritrat- 
ti, tra cui quello con la mano in avanti e nel fondo la testa di Mercurio...” 


L'accordo tra Castelfranco e De Chirico non è conosciuto nello specifico ma 
doveva essere del tipo che a fronte di una cifra mensile il pittore cedeva uno o 
più quadri al suo mecenate o in proprietà oppure in deposito che Castelfranco 
poteva vendere versando a De Chirico il prezzo _._... con la possibilità di 
farci un ricavo.” 

Alla fine degli anni Venti la palazzina sul Lungarno Serristori raccoglieva allora 
circa trentacinque dipinti e moltissimi disegni di De Chirico. Si trattava cioè 
della più ricca collezione al mondo di opere dell’artista!°. 

De Chirico, come annunciato nella lettera a Breton, nel mese di Settembre 1923 





12 


2 G.De Chirico, Piccolo trattato di tecnica pittorica, pag. 42, Ed. Giovanni Schiwiller, Milano 1928 

13 Giovanna Rasario, Le opere di Giorgio de Chirico nella collezione Castelfranco, in Metafisica, 
2006|N° 5-6. 

14 Giovanna Rasario, Le opere di Giorgio de Chirico nella collezione Castelfranco, in Metafisica, 
2006|N° 5-6 

15 Giovanna Rasario, Le opere di Giorgio de Chirico nella collezione Castelfranco, in Metafisica, 
2006|N° 5-6 

16. Per la collezione di dipinti di De Chirico appartenuta a Giorgio Castelfranco vedere "Per un 
catalogo della raccolta Castelfranco" , a cura di Attilio Tori, Regione Toscana, 2014. 


367 


Luca Macchi 





lasciò Firenze per fare ritorno a Roma. Tornerà a Firenze qualche mese dopo come 
sappiamo da una successiva lettera. Questa lettera, l’ultima che risulta spedita da 
Firenze fino a questo momento, è indirizzata a Paul e Gala Eluard, e porta la data 
del 4 Giugno 1924, dove scrive: “Sono a Firenze da una ventina di giorni e domani 
rientro a Roma.” Al termine della lettera scrive di rispondergli all'indirizzo di 
Roma, Via Appennini 25/bis. Da Roma s'intensificano le corrispondenze con 
André e Simone Breton, Paul e Gala Eluard, Pierre Roy, Leonce Rosenberg”. 
Dopo un anno sarà a Parigi, come scrive nelle Memorie: “Giunsi a Parigi; era l'autunno 
del 1925. Ferveva, nella capitale francese, il grande baccanale della pittura moderna. ”’ 
Il rapporto di stima e di amicizia con Giorgio Castelfranco continuerà anche a 
distanza. E Giorgio Castelfranco che nel 1925 firma la presentazione della mostra 
personale di De Chirico alla Galleria Rosenberg di Parigi”. 





17 Giorgio de Chirico Lettere 1909-1929, a cura di Elena Pontiggia, Silvana Editoriale, Milano 2018. 
18 Memorie, pag. 127 

I contatti continueranno anche con la collaborazione, insieme al fratello Alberto Savinio, alla 
Rivista di Firenze, che aveva sede nel villino sul Lungarno Serristori. 


19 


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Firenze nei dipinti di Giorgio De Chirico (terza parte) 
dalla Grande Guerra all'alba del Surrealismo 








Figg. 1 e la: M ritorno del figliol prodigo, 1922 
Tempera su tela, cm. 87x59, Firmato e datato in basso a destra, Civico Museo d'Arte Contemporanea, 
Milano. 


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Luca Macchi 





Firenze nei dipinti di Giorgio De Chirico (terza parte) 
dalla Grande Guerra all'alba del Surrealismo 








È un tema quanto mai attuale per il periodo che de Chirico stava attraversando. Il tema del “Ritorno del 
figliol prodigo” rappresentato dall’incontro tra il manichino e la statua è già presente in un disegno del 
1917 e ripreso in questo dipinto. Il manichino, cioè il pittore stesso, che ritorna a casa cioè al Museo, 
rappresentato dalla statua, è il ritorno alle origini, al mestiere, alla tecnica qui rappresentata dall’uso 
della tempera all'uovo. Possiamo dire anche che si tratti di un altro tipo di “ritorno”, cioè il ritorno a 
Firenze. L'edificio con le arcate raffigurato nel dipinto tanto somiglia ai palazzi dell’attuale Piazza della 
Libertà nei pressi della quale De Chirico aveva lo studio nel 1910. 

Questa tela ha fatto parte della collezione di Attilio Vallecchi, è pubblicata per la prima volta sulla rivista 
belga “Selection” che nel 1929 dedica un numero monografico a De Chirico. 

Il dipinto dal 1951 fa parte del Museo del Novecento di Milano. Il titolo della parabola assume un 
particolare significato programmatico per il suo programma pittorico. 

Dopo la rivelazione della Metafisica avvenuta nella Piazza di Santa Croce a Firenze, e le successive fasi 
di Parigi e di Ferrara, De Chirico ha una nuova “rivelazione” al Museo di Villa Borghese a Roma. Ha la 
rivelazione della grande pittura davanti ad un quadro di Tiziano. Inizia per lui la fase della ricerca sulle 
tecniche pittoriche e dunque il ritorno al Museo che in qualche modo per un artista significa il ritorno 
a casa, il ritorno dal padre, appunto il figliol prodigo che torna ad abbracciare il padre. Il manichino 
dechirichiano fatto di squadre, dal volto ovale e carico di colori si riabbraccia con il Padre- Museo rap- 
presentato sotto forma di statua monocroma. 


370 


Fig. 2: Veduta dell’Arno, 1922 c. 
Tempera grassa su cartone, cm. 27x33 


Il dipinto risale al momento in cui Giorgio de Chirico era ospite di Giorgio Castelfranco nel villino di 
Lungarno Serristori, non distante dal luogo rappresentato nel dipinto. Il quadro, infatti, mostra molto 
chiaramente il Lungarno Cellini con alto la collina con la chiesa di San Salvatore al Monte visti dalla 
sponda opposta del fiume. 


371 


Firenze nei dipinti di Giorgio De Chirico (terza parte) 
Luca Macchi dalla Grande Guerra all'alba del Surrealismo 











Figg. 3 e 3a: Paesaggio fiorentino o Partenza dell'avventuriero, 1923 
Tempera su tela, cm. 97x137 


Si riconosce chiaramente il punto di osservazione scelto da De Chirico che si colloca sulla sponda oppo- 
sta al Lungarno Torrigiani. Sulla sinistra vediamo il Palazzo Torrigiani, in alto la Villa Bardini con sotto 
la chiesa luterana e il retro di Palazzo Canigiani. L'unico elemento “fuori posto”, ma pur sempre presente 
a Firenze, è la loggetta che è chiaramente quella del giardino Corsi in via Romana e qui liberamente 
collocata forse per aggiungere un tocco romantico e di “spaesamento” alla composizione che altrimenti 
poteva sembrare troppo realistica. 


372 373 


Luca Macchi 


Firenze nei dipinti di Giorgio De Chirico (terza parte) 
dalla Grande Guerra all'alba del Surrealismo 











Figg. 4 e 4a: La ninfa Eco, 1923 
Tempera su tela, cm. 60x50, Firmato in basso a destra 


Con questo titolo si conoscono un dipinto a tempera e un disegno. E’ lo stesso Castelfranco in umin- 
tervista del 1976 a dire: “Un pezzo della casa si può vedere in un quadro, La ninfa Eco”. Nel dipinto 
vediamo la ninfa seduta con alle spalle la vegetazione del villino Castelfranco, dietro alle foglie vediamo 
ergersi un'architettura con un ulisse con alcune persone. È difficile identificare l'edificio dipinto 
con la palazzina di Castelfranco sul Lungarno. Bisogna sempre ricordare che De Chirico nei suoi dipinti 
filtra la realtà attraverso le lenti della “metafisica”. Diverso è il disegno si vede una maggiore parte della 
palazzina e, se si esclude il colonnato inventato, più somigliante. 


374 


Fig. 4a "La ninfa Eco" disegno su carta, studio preparatorio. 





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Luca Macchi 


Firenze nei dipinti di Giorgio De Chirico (terza parte) 
dalla Grande Guerra all'alba del Surrealismo 











de 5: Balcone a Firenze, 1923 c. 
Olio su tela, cm. 49x64,5, Rochester (USA), The Memorial Art Gallery of the University of Rochester 


Questo dipinto ci offre un punto di vista particolare. La natura morta è sistemata sul davanzale di una 
finestra del villino del Lungarno Serristori. Il lato verso il quale guarda la finestra è quello in direzione di 
Piazza Poggi e della torre di San Niccolò. Gli edifici sono molto riconoscibili e tra questi sta la fiancata 
della torre dipinta con un rosso che gioca benissimo nella composizione. 


376 


Fig. 6: Ritratto di Giorgio e Matilde Castelfranco, 1924 
Tecnica e misure ignote, Firmato e datato in basso a destra 


“Feci anche un bellissimo doppio ritratto di lui insieme alla moglie” scrive De Chirico nelle Memorie. 
Adesso il doppio ritratto di Giorgio Castelfranco e della moglie Matilde Forti si trova in una collezione 
americana. È ambientato all’aperto e sulla sinistra vediamo una parte della facciata del villino dei coniu- 
gi Castelfranco. Sulla destra guardando la composizione un muro sul quale appoggia un panno (rosso) e 
dietro alle loro teste è una pianta con foglie. Ci richiama alla mente il ritratto di un’altra coppia di amici, 
sempre del 1924, quello di Paul e Gala Eluard. 


377 


Dilvo Lotti pittore napoleonico 





NICOLA MICIELI 


Alla figura di Napoleone Buonaparte Dilvo Lotti dedicava, scalato dalla metà 
degli anni Ottanta a oltre la metà dei Novanta, un considerevole ciclo tematico 
che al presente non è ancora possibile ricomporre nella sua interezza, essendo 
da individuare la collocazione di quante opere - alcune anche pubblicate in più 
sedi - che a suo tempo l’artista cedette ai collezionisti. Si tratta di dipinti a olio 
e ad acrilico di medio e grande formato; di carte acquerellate ad ampie falcate di 
colore e di disegni e schizzi al tratto e guazzati di china. Un numero consistente di 
queste opere, annoverabili tra le più impegnative del ciclo: nove dipinti, un dise- 
gno a pastello e uno a china, per fortuna appartiene al Museo Casa Lotti. C'è da 
augurarsi di trovare tra le carte in corso d'inventario là stratificate, qualche altro 
agile disegno, dei tanti che Lotti deve aver eseguito con la ben nota e prolifica sua 
scioltezza esecutiva. Come si evince già da qualche esempio del ciclo napoleoni- 
co, egli usava difatti preparare gli estesi dipinti su tela o tavola e gli affreschi con 
numerosi appunti grafici di figura e composizione, studi e varianti di particolari 
e parziali. 

I dipinti e i pochi disegni disponibili del ciclo sono oggi parte iconografica 
importante della mostra Noi&N Napoleone e San Miniato tra Storia e Memoria, 
voluta dalla Municipalità per celebrare il bicentenario della morte del grande “To- 
scano Europeo”, un ramo dei cui ascendenti era sanminiatese. Questa definizione 
di Napoleone compariva già nel titolo del libro! nel quale Lotti ne ripercorreva 
la vicenda epocale da un osservatorio posto, per così dire, sulla Torre di Federico 
II. Ossia annotando e argomentando, con lo svolgersi degli eventi storici dalla 
Campagna d’Italia a Sant'Elena, i documenti, le testimonianze, le memorie dei 





!  Dilvo Lotti, Napoleone Buonaparte Toscano Europeo, Edizioni dell’ Erba, Fucecchio, 1995. Del 
ciclo napoleonico compaiono nel libro i dipinti: L'incontro dei due rispettabilissimi parenti, 1994, p. 31; 
Tramonto, 1995, p. 81; La ritirata di Russia, 1994, p. 183; Napoleone Buonaparte, incatenato martire 
a Sant'Elena, 1995, p. 186; La corona di spine, 1995, p. 191. Con L'albero della libertà nella piazza del 
seminario, 1995, p. 71; La chiesa della SS. Annunziata, 1995, p. 79, e I dannatissimi, schifosi topi di 
Sant'Elena, 1995, p. 203, una serie di altri disegni più o meno elaborati e schizzi di personaggi e situa- 
zioni databili al 1995, posti a medaglione in capo ai paragrafi o intervallati o affiancati ai testi: L'abbrac- 
cio tra Napoleone e il Canonico Filippo, p. 11; Ermete Zacconi interprete di Don Buonaparte nel film di 
Forzano, p. 32; Giuseppe Bonfanti oratore alla festa dell’ Albero della Libertà in piazza del Seminario, p. 
58; Il cane della Guardia che consolò Napoleone leccandogli la mano per la morte nel 1813 del generale 
Duroc, p. 152; Sarcofago di Napoleone imperatore agli Invalidi, p. 157; L'impatto della meteora Napoleone 
con il pianeta Terra, p. 165; Heinrich Friedrich Karl von Stein del quale Napoleone diffidava, p. 176; La 
colonna con la statua di Napoleone I in place Vendôme, p. 184; Il bagno di Napoleone a Sant'Elena, p. 
205; Sire Hudson Lowe, carceriere di Napoleone a Sant'Elena, p. 208; Insegna imperiale e monogramma 
napoleonico, p. 228. 


379 


Nicola Micieli 


Dilvo Lotti pittore napoleonico 








Buonaparte a San Miniato. E le presenze di Napoleone e le animazioni e agitazio- 
ni politiche e sociali, dunque le ricadute della sua vicenda nella Città che sembra 
lo avesse visto ragazzo, ospite del Canonico Filippo, suo zio, giocare proprio sulla 
piazza oggi a lui intestata. 

La stessa piazza in cui avvenne, la notte del 29 giugno 1796, il suo memorabi- 
le abbraccio con il medesimo zio in età ormai avanzata, cui faceva visita deviando 
per San Miniato nel percorso che da Livorno, scacciati gli inglesi, lo conduceva 
a Firenze, dal Granduca. Allora Comandante della vittoriosa Campagna d'Italia, 
Napoleone incarnava le idee e l'ordine nuovo violentemente affermati dalla Ri- 
voluzione. Il religioso suo zio, ultimo senescente rampollo dei Buonaparte regi- 
strati sin dal idv tra i maggiorenti di San Miniato, rappresentava il vecchio 
ordine che in quel frangente storico di rivolgimenti radicali sembrava fatalmente 
al tramonto. 

Il ciclo tematico dei dipinti e disegni napoleonici nasceva dall’appassionato 
interesse di Lotti per la storia, l’arte, la cultura di San Miniato, alla cui cono- 
scenza, da cultore provveduto e ad ampio raggio, egli aveva già fornito contributi 
fondamentali di studio e divulgazione.’ Quel ciclo propriamente storico doveva 
rimanere unico nella sterminata produzione di Lotti. Invero, pittore di storia 
in senso stretto egli non è stato, salvo non si voglia classificare nel genere, ma 
in accezione ovviamente metastorica, la sua sovrabbondante narrazione biblica 
ed evangelica e d’arte sacra in genere, consegnata generosamente a pareti affre- 
scate e a grandi tele, che peraltro spesso contaminava, dunque attualizzava, con 
ambientazioni, vicende, personaggi tendenzialmente drammatici testimonianti 
l'umanità smarrita e il vissuto del Novecento. Si guardi al proposito, la mirabile, 
straniante crocifissione che Lotti, già tra i fondatori dell’ Istituto del Dramma Po- 
polare di San Miniato e più volte regista teatrale, apparecchiava sulla ribalta d'un 
sagrato. Da un lato poneva la chiesa, dall’altra le rovine d’una casa bombardata; 
intorno scatenava la ridda profanatrice di figure come invasate nel baluginio al- 
lucinato della scena; in primo piano collocava una sequenza di personaggi alieni 
che volgono le spalle allo “spettacolo” del Golgota da set cinematografico. E que- 
sto il clima, questa umanità de Gli indifferenti che danno il titolo al dipinto del 
1950 con il quale Lotti partecipava al Premio Carnegie di Pittsburg.’ 


Lotti non è stato un pittore di storia. Tuttavia, nel senso de Gli indifferenti, 
accoglieva spesso nei suoi dipinti la storia ancora in nuce, per così dire, nella 
flagranza dei grandi accadimenti di investimento collettivo che assumeva asse- 
gnando loro due possibili ruoli. Il primo è quello dei protagonisti assoluti della 
scena, che è il caso de La nube di Cernobyl (1988), La cantante delle Torri Gemel- 
le (2002), Lo Tsunami (2005), dipinti eseguiti poco dopo i tragici “incidenti” 
dell’imprevidenza atomica, del terrorismo internazionale e dello scatenamento 
incotrollabile della natura. Il secondo è quello dei comprimari, calati per inser- 


2 Fondamentale, tra gli altri studi sanminiatesi, Dilvo Lotti, San Miniato, vita di un'antica città, 


Edizioni Sagep per la Cassa di Risparmio di San Miniato, Genova, 1980. 
3. Vedi Luca Macchi, Dilvo Lotti. L'arte e la fede, prefazione di Carlo Pedretti, Edizioni ETS, Pisa, 2008. 
‘ Vedi Luca Macchi, Dilvo Lotti. Un maestro dell'espressionismo europeo, catalogo della mostra, 
Sistema Museale di San Miniato, Felici Editore, Pisa, 2006, pp. 86, 90-91. 


380 


ti figurali e climi espressivi sulle ribalte pittoriche anche del sacro. Penso alla 
Crocifissione (1959)? dove compare l’edificio sventrato dalla guerra portatrice di 
devastazione e di morte, un tema in Lotti ricorrente anche nella memoria dolo- 
rosa dell’eccidio consumato nel Duomo della sua San Miniato. Penso all’opera 
suggeritagli da Giorgio La Pira per una mostra nel Loggiato degli Uffizi, la Cro- 
sione apocalittica (1960), nella cui atmosfera affocata e tenebrosa l’orda dei 
nuovi oh minaccia di aggredire la mater dolorosa e i convenuti al compianto 
per lo strazio del Calvario, e di abbattere lo stesso Cristo crocifisso dalle palme 
sanguinanti. Ebbene, l’accadimento tragico che riempie le pagine della cronaca, 
tradotto nell’arte si fa storia perché «diventa universale e fuori del tempo», osser- 
vava Lotti” facendo l’esempio del naufragio di una certa nave mercantile destinata 
all’oblio perenne, se l’arte di Gericault non l’avesse consegnata per sempre alla 
storia con La zattera della medusa. 

Napoleone la storia l’ha fatta. Lo strumento delle sue ascese al potere e delle 
cadute è stata la guerra, vittoriosa e perdente, sempre catastrofica: un’apocalisse, 
l'avrebbe detta Dilvo Lotti, che nel dipinto Apocalisse e rivoluzione (1992) del 
ciclo napoleonico, vede il portato inevitabile del turbine rivoluzionario, del quale 
il primo Napoleone fu l’espressione, nell’avanzare terrifico del Drago a sette te- 
ste e dieci corna dell’ Apocalisse, appunto. Nei dipinti noti del ciclo, l’immagine 
della guerra arretra sullo sfondo, come un turbamento imprecisato del paesaggio 
urbano ne M regno d'Italia (1995), la tela che Lotti ha sempre tenuto al cavalletto 
nello studio in mansarda della sua casa, e si fa macerata rappresentazione, ne La 
ritirata di Russia (1994), con l’avanzare faticoso dei cavalieri sul terreno pesante 
per la neve, in alto la testa di Napoleone coronata di spine martirologiche. 

Nel segno della guerra e dei suoi disastri, del resto, il primo incontro di 
Lotti con Napoleone avveniva come finzione letteraria nel sogno, sullo sfondo 
di Pens/San Miniato distrutta dalla guerra. Lotti lo immaginava convenuto alla 
Valletta dei Poeti, con Dante, Messer Morali (il Filosofo), i Ministri della Comu- 
nicazione e dell’Interno e altri, a discutere - lui (il Guerriero) pensoso del proprio 
originario contributo al sovvertimento del presente - della possibile ripresa e della 
prospettiva di sviluppo, se innovatore o conservatore, del paese.’ 

Napoleone era dunque insediato nell’ immaginario di Lotti con molto an- 
ticipo rispetto alla serie dei dipinti del ciclo, ai quali cominciò a lavorare quando 
sollevava la questione della sua maschera funebre conservata all Accademia degli 
Euteleti,° per seguitare con maggiore intensità nell occasione o nell'attesa di anni- 





°. Vedi Luca Macchi, Dilvo Lotti. Un maestro dell’espressionismo europeo, cit., p. 72. 


$ Vedi Luca Macchi, Dilvo Lotti. L'arte e la fede, cit., p. 70. 

7. L'osservazione è nel c-d rom Via Maioli 22, a cura di Antonia d’Aniello e Luca Macchi, regia 
di Andrea Mancini, realizzato dall’amministrazione comunale in occasione dei novanta anni di Lotti, 
poi ricordata in Di/vo Lotti 1914-209, a cura di Luca Macchi, catalogo della mostra al Centro Attività 
Espressive Villa Pacchiani, Santa Croce sull’ Arno, Edizioni Villa Pacchiani, 2009, p. 70. 

8. Al convegno è dedicato l’Intermezzo a otto voci del romanzo autobiografico La morte del paese, 
scritto nel 1947 - quando «si risaliva dal baratro in cui eravamo precipitati» dice Lotti nell avvertenza - 
ma pubblicato solo nel 2002 nelle Edizioni del Bellorino. 

?.. Vedi Dilvo Lotti - Anna Matteoli, Cimeli e documenti dei Buonaparte di San Miniato, catalogo 
critico della mostra a cura dell’Accademia degli Euteleti in occasione delle celebrazioni del secondo 
centenario della Rivoluzione Francese, Palazzo Migliorati, San Miniato, 6-27 maggio 1989. 


381 


Nicola Micieli 





versari importanti come la Rivoluzione Francese (1789) e il ritorno di Napoleone 
a San Miniato (1796), quindi nel corso delle ricerche e della stesura del suo libro 
uscito nel 1995. Il lungo arco temporale di elaborazione del ciclo, oltre che il 
diverso avvertimento, direi emozionale e umanamente partecipato più che ideo- 
logico, dei soggetti trattati, spiega la variazione stilistica e la relativa conduzione 
tecnica delle tessiture di alcune opere. 


Abitualmente mosso e sfrangiato anche nell’accentuazione materica delle 
masse, il ductus si infittisce quando Lotti erige frontalmente, come ne M regno 
d'Italia (1995), la figura di Napoleone conquistatore e legislatore, ai cui piedi, 
incatenata, sta la Corona ferrea conservata nel Duomo di Monza con la quale 
per secoli furono incoronati i re d’Italia. In Napoleone e il suo tempo (1996?),!° 
quando ormai è Console nella seconda Campagna d'Italia, il ductus è addirittura 
una stesura volumetrica che lo staglia a mezzobusto statuario dal profilo sigillato 
come in un medaglione rinascimentale. Il Console incede, avendo attraversato 
la scena, serrato sulle spalle il rosso mantello che nel ritratto equestre Bonaparte 
valica il Gran San Bernardo di Ingres è gonfio di vento, e qui fa da sicuro traino 
al corteo dei seguaci, che inalberano il cappello frigio dei giacobini rivoluzionari, 
ma sono un popolo ormai transclassista: aristocratici e borghesi, imprenditori e 
professionisti, intellettuali e scienziati. 

La figura di Napoleone nel ruolo istituzionale e quella, per così dire, privata 
o riflessa nella situazione o ripiegata nel profondo (se fosse possibile distinguere 
l’uomo pubblico e l’uomo privato nel caso d'un personaggio al quale «... due se- 
coli / Cun contro l’altro armato, / Sommessi a lui si volsero, / come aspettando il 
fato ...») sono i due piani dell'incontro di Lotti con Napoleone e le sue stagioni, 
riepilogate nella sequenza cronologica dei ritratti che in Napoleone 1796-1821 
(1995) le contrassegnano susseguendosi intorno alla classica sua sigla “N”. 

Apre l’effige dell’astro nascente con la Campagna d'Italia, il giovane giacobi- 
no dalla corporatura esile e i capelli scarmigliati, cui fa da corona un sole mattinale 
su fondo azzurro. A fianco, il Console dll seconda Campagna d’Italia, fasciato 
del rigonfio mantello rosso e con in capo il bicorno bordato d’oro nella memoria 
del ricordato ritratto equeste di Ingres. Segue il trionfale e sfarzoso Imperatore che 
emana luce sull’azzurro del fondo, esemplato ancora da Ingres del celebre Napole- 
one I sul trono imperiale. Infine, Napoleone del crepuscolo sui campi di battaglia 
e dell’eclisse nella prigionia di Sant'Elena, l’incarnato verdastro, il viso smagrito e 
allungato, gli occhi infossati nelle orbite. Sul capo la corona di spine del dilegzio 
inglese, e sono certo che Lotti idealmente aggiungesse “e del martirio”, mentre lo 
dipingeva. 


La stagione della Campagna d’Italia, prevedibilmente, è la più rappresentata 
poiché include l'episodio, per Lotti centrale, della visita di Napoleone allo zio 
Canonico, raffigurata in un dipinto, L'incontro dei due rispettabilissimi parenti,' 
che per l'ambientazione notturna in uno spazio che par quasi privato, raccolto 
com'è intorno all’abbraccio dei congiunti a sottolinearne l'intimità, essendo gli 
astanti solo un riverbero delle luci radenti di scena, mi par proprio esemplare del- 





10 Pubblicato in Dilvo Lotti - Anna Matteoli, Cimeli e documenti, cit., pp. 142-143. 


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Dilvo Lotti pittore napoleonico 





la componente emozionale, umanamente partecipe alla situazione rappresentata 
che contrassegna un aspetto importante del lavoro dell’artista. Apocalisse e rivo- 
luzione (1992), premessa storica alla prima stagione napoleonica, è l'agitazione 
della scena che riflette il sovvertimento rivoluzionario dell'ordine ancien régime. 
Scena bipartita: da un lato irrompe il Drago dell Apocalisse e dispiega i suoi rami 
come fulminanti l’Albero della Libertà; dall'altro si erge sovrana la ghigliottina, 
che ha già fatto il suo lavoro sotto lo sguardo interessato d’un corvo. Lotti incor- 
nicia con la macchina “pietosa” della ghigliottina un quadro nel quadro: Notre 
Dame profilata nel dio sotto un T osco, in primo piano un caravaggesco 
canestro con panno, teste mozzate e melagrana del quale eseguiva al finito ben 
due studi, esempio sconvolgente del suo grottesto ensoriano espressionista assai 
praticato in gioventù. Seguono quindi il dipinto // regno d'Italia, che abbiamo 
detto appartenere al coté dell’ immagine istituzionale e ingessata di Napoleone, e 
il disegno a pastelli Napoleone a San Miniato (1989), con sullo sfondo la Torre di 
Federico II. 

Anche per Napoleone Console, quale appare in Napoleone e il suo tempo, 
abbiamo parlato del coté dell'immagine istituzionale e d'una conduzione pittorica 
mirata a definire una forma nettamente profilata nello spazio, ove la figura del 
governatore è propriamente quella del duce, del condottiero vittorioso al cui pas- 
saggio fa ala appena intravedibile la folla assiepata del popolo minuto. Può essere 
considerato uno studio di Napoleone ie il dipinto che, caduta la “u” del 
cognome nobiliare e in assenza di indicazioni del Lotti, intitolo arbitrariamente 
Napoleone Bonaparte (1996), notabile per la conduzione più larga della tessitura, 
il gusto un po’ alla spagnolesca della profilata figura che incede tenendo il man- 
tello rovesciato sulla spalla destra, la mano sul petto e, particolare qui impreve- 
dibile anche se per Lotti non inconsueto specie nelle grandi composizione, per 
l’autoritratto invero sparuto del pittore che si affaccia LARE come a entrare 
di sbircio nell’inquadratura d'un fotografo ante litteram. 


Nessun dipinto né disegno, salvo il ritratto in Napoleone 1796-1821, risulta 
dedicato a Napoleone Imperatore, ma occorre appellarsi al beneficio d’inventa- 
rio, come del resto per il Napoleone Console rappresentato con due sole opere, 
non essendo nota i presente, come ricordavo in apertura, la collocazione di nu- 
merose opere presso i collezionisti. Ai quali non mancheranno anche tele o carte 
sul crepuscolo dell’astro napoleonico e l'eclissi a Sant'Elena, e saranno un’aggiun- 
ta d’approfondimento se e quando dovessero riemergere. Quel che si conosce è 
tuttavia più che sufficiente a confermare la mia idea che a Napoleone della caduta 
definitiva nella polvere e del confino degradante nel tugurio che sembra fosse la 
prigione di Sant'Elena, a Napoleone dell’umiliazione e della sofferenza Lotti si sia 
sentito umanamente, direi cristianamente vicino. 

A cominciare da La ritirata di Russia cui si accennava, tragico prologo della 
disfatta suggerita dalla macerazione affaticante del terreno innevato con pennel- 
late lunghe e tempestate. E poi, in alto, l'icona della testa di Napoleone coronata 
di spine, che anticipa d’un anno l’analoga più terrea del Napoleone1 796-1821, e 
sarà ripetuta più incisiva e pungente ne La corona di spine! presumibilmente del 
1995. E strumento del dileggio e dell’umiliazione, l’acuminata corona realmente 

osta sul capo del prigioniero da Sir Hodson Lowe, il suo carceriere di Sant E- 
la. segaligno quale appare nel mandorlato ritrattino schizzato dal Lotti.! Ma 


383 


Nicola Micieli 





per Lotti simboleggia il martirio del corpo e la mortificazione dello spirito, come 
dichiara già nel titolo dell’acrilico rapidamente eseguito a sciolte pennellate e 
sommarie, Napoleone Buonaparte incatenato martire a Sant'Elena (1995), dove 
con una sorta di sincretismo agano-cristiano, al mito di Prometeo incatenato 
nella roccia strapiombante sull’oceano fa corrispondere il segno salvifico della 
croce che emerge dalle acque. 

Il contrappasso espiatorio del fulgido astro napoleonico, non so se nel 
progetto, certamente nella prassi detentiva del carceriere, Lotti ci fa supporre che 
consista nel mirare al graduale processo di abbrutimento della persona, di obnu- 
bilamento dello spirito, di contaminazione e consunzione del corpo ingabbiato 
nel recinto costrittivo e degradato nel lerciume della prigione. Ambiente ideale 
per la specie invadente, insaziabile e nauseabonda dei topi allucinanti che insidia- 
no le notti di Napoleone, ne turbano i sonni, ne disgustano il respiro affannato e 
inducono il senso della lordura, da fargli desiderare immersioni sempre più calde 
e prolungate nel suo bagno quotidiano, come Lotti afferma nella didascalia del 
disegno // bagno di Napoleone a Sant'Elena (1995?).! E i topi - I dannatissimi, 
SI topi di Sant'Elena, 1995 nel disegno di Lotti - sovrani d’ogni pertugio di 
solai e scantinati sconnessi, possono annidarsi e proliferare nel bicorno rovesciato 
a terra, già simbolo del suo potere. 

Nel luogo fisico del corpo martoriato, del nudo corpo ormai macilento e 
prosciugato, come una reliquia scivolata in avanti sul sedile ove giaceva e spirava 
Napoleone Buonaparte, di riverberare di luce della spoglia come in procinto di 
sfaldarsi e smaterializzarsi nell’acrilico Sant'Elena (1985), che mi pare l’opera più 
intensa e spiritualizzata del ciclo, mi piace pensare che Lotti abbia inteso cele- 
brare la lai pittorica dell’astro E ormai consegnato a un cielo 
senza da 


384 


Dilvo Lotti pittore napoleonico 








Fig. 1 Dilvo Lotti, Napoleone Buonaparte e San Miniato, 1989, pastello su carta, cm. 59x43 (foto G. 
Frescura) 


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Nicola Micieli Dilvo Lotti pittore napoleonico 








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Fig. 3 Dilvo Lotti, L'incontro tra i due rispettabilissimi parenti, 1996, acrilico su carta, cm. 100x70, 
Fig. 2 Dilvo Lotti, I due rispettabilissimi parenti, 1996, acrilico su carta, cm. 70x100 coll. Brunelli, San Miniato 


386 387 


Nicola Micieli Dilvo Lotti pittore napoleonico 











A» i E a 
u tela, cm. 100x150 





Fig. 4 Dilvo Lotti, Napoleone Re d’Italia, 1995, olio su tela, cm. 130x110, Fondazione Casa Lotti, San 
Miniato (foto G. Frescura) Fig. 6 Dilvo Lotti, Napoleone - Apollion, s.d., acquerello su carta 


388 389 


Nicola Micieli Dilvo Lotti pittore napoleonico 











Fig. 8 Dilvo Lotti, La ritirata di Russia, 1994, acrilico su carta, cm. 100x70, Fondazione Casa Lotti 
Fig. 7 Dilvo Lotti, Le quattro età di Napoleone, 1995, acrilico su tela, cm. 100x70 (foto G. Frescura) (foto G. Tizzanini) 


390 391 


Nicola Micieli Dilvo Lotti pittore napoleonico 











Fig. 9 Dilvo Lotti, Napoleone - La corona di spine, acrilico su carta Fig. 11 Dilvo Lotti, I dannatissimi, schifosi topi di sant Elena, 1995, china su carta 


392 393 


Nicola Micieli Dilvo Lotti pittore napoleonico 











Fig. 12 Dilvo Lotti, Sant'Elena o La solitudine dell’eroe, 1985, acrilico su carta, cm. 100x70, Fondazio- 
ne Casa Lotti (foto G. Tizzanini) Fig. 13 Dilvo Lotti, Apocalisse e rivoluzione, 1992, acrilico su tela, cm. 100x150 


394 395 


Verso il nuovo Stadio “Artemio Franchi” di Firenze, 
conservazione e rinnovamento 


GIUSEPPE ALBERTO CENTAURO 


Una questione A 

L'intensa querelle nata in città intorno alla modernizzazione, impropriamente 
chiamata restyling, dello Stadio “Artemio Franchi” sembra ormai relegata ai soli 
ricordi di un'affettata cronaca che si è protratta e consumata tra la fine del 2019 
e il 2020. A quel tempo aleggiava la “furia iconoclasta” dei tifosi esacerbati per 
non poter disporre di uno stadio consono agli standard europei (secondo i detta- 
mi della Uefa). Questo era quanto fortemente reclamato anche dal patron della 
squadra viola, Rocco Commisso, pronto ad investire di persona pur di realizzare 
un tale obiettivo, minacciando di traslocare altrove nel caso che il Comune non 
avesse messo in atto un radicale rinnovamento della struttura, contribuendo non 
poco a generare un “mostro mediatico” arrivato persino a prefigurare l’abbat- 
timento delle vecchie curve in calcestruzzo armato ritenute del tutto obsolete 
rispetto alle esigenze del football moderno. (Fig. 1) Rendendo ancor più compli- 
cata e complessa la questione, la società “A.C. Fiorentina”, in quanto principale 
conduttore dell'impianto sportivo, reclamava a viva voce per rimanere competi- 
tiva nei campionati la possibilità, utilizzando proprie risorse finanziarie, di trarre 
diretti profitti attraverso la gestione di servizi al pubblico da realizzarsi all’interno 
del nuovo stadio, come altre società stavano facendo da tempo sia in Italia che 
in Europa. 

Occorre dire che la scintilla che aveva fatto scattare il dibattito fiorentino, e 
non solo quello, era stata l’approvazione in sede parlamentare dell'emendamento 
del cosiddetto “Sbloccastadi” (art. 55-bis) al progetto di conversione in legge del 
Decreto Semplificazioni (76/2020) che andava ad interessare ben 12 impianti 
sportivi, alcuni dei quali “storici” tra i quali, il principale era appunto lo stadio 
di Firenze con le strutture di Pier Luigi Nervi che venne a trovarsi in una posi- 
zione estremamente critica e rischiosa in chiave di conservazione dell’architet- 
tura. L'art. 55 prevedeva in particolare di: prevenire il consumo suolo; rendere 
maggiormente efficienti gli impianti sportivi destinati ad accogliere competizioni 
agonistiche di livello professionistico; garantire l'adeguamento degli stadi agli 
standard internazionali di sicurezza, salute e incolumità pubbliche. Tutto ciò tut- 
tavia non garantiva la congruità del progetto sotto il oa della salvaguardia dei 
beni architettonici. Per tale motivo questo emendamento non mancò di sollevare 
reazioni nel mondo della cultura. Si cita per tutte la forte opposizione della Socie- 
tà Italiana per il Restauro dell’ Architettura (SIRA) che puntò alla sottoscrizione 
di un appello avverso ad un provvedimento che, di fatto, avrebbe licenziato il 
Ministero dei Beni e delle Attività Culturali dall’esercizio di tutela su impianti 
sportivi vincolati ai sensi del D. Lgs 42 del 2004-, consentendone, come si disse 
of smantellamento, il sezionamento, l’alterazione, il decadimento del vincolo in 


397 


Giuseppe A. Centauro 





tempi veloci e “certi”». La soluzione che avanzava la Società viola era addirittura 
quella di edificare un nuovo stadio al posto di attendere una difficile, quanto 
improbabile, risoluzione di pesanti interventi ristrutturativi sull’esistente. Oggi, 
dopo le turbolenze registrate in città, con prese di posizione antitetiche tra le stes- 
se frange dei tifosi, la questione appare già da qualche mese sopita, nei toni, ri- 
condotta in alvei meno conflittuali soprattutto dal momento in cui la questione 
del rinnovamento dell’impianto sportivo è tornata in mano all Amministrazione 
comunale, proprietaria dell'immobile. Quest'ultima, infatti, non ha tardato ad 
affidare agli esiti di un Concorso internazionale i destini futuri del “Franchi”. La 
Gara ha preso l'avvio nel gennaio 2021. Allo stato attuale liter concorsuale è ir 
progress, così dopo il completamento della sua fase istruttoria e la selezione sui 31 
progetti depositati degli otto finalisti si conoscerà finalmente, nel marzo 2022, il 
progetto vincitore. ! 

Questa circostanza non può e non deve tuttavia limitare le riflessioni sul tema 
del restauro dello “storico” stadio di Pier Luigi Nervi. Si tratta di un intervento 
che sotto il profilo dell'approccio metodologico ha già suscitato molteplici per- 
plessità e diversi distinguo con prese di posizione provenienti sia dalle istituzioni, 
che dal mondo delle professioni e, più in generale, della cultura. Del resto si sta 
disquisendo su di una struttura di particolare pregio architettonico, unica nel suo 
genere, che ha fatto la storia dell'ingegneria moderna e della Firenze del Novecen- 
to. E, non solo per queste ragioni, merita tutte le cure e le attenzioni della città. 
Del resto queste attenzioni sono dovute al monumento più iconico dello sport 
fiorentino e di riconosciuto interesse ormai da decine di anni.° 

Citiamo dalla declaratoria di vincolo del 1983: «Tra gli elementi connotativi del 
bene ritenuti meritevoli di tutela in quanto caratterizzanti il progetto dell'ingegnere 
Luigi Nervi, definito il più geniale modellatore del cemento di questo secolo: la A 
ad anfiteatro con curve irregolari dovute al rettifilo di 200 metri lungo il lato della 
tribuna coperta; la Torre di Maratona; la struttura delle gradinate; la pensilina, so- 
spesa per un ventina di metri, sorretta da 24 mensoloni ad interasse di 4,76 metri; le 
scale elicoidali in aggetto che conducono alla sommità delle gradinate consentendo un 
accesso discendente ai posti a sedere ritenute geniali per le soluzioni statiche». 

Tuttavia, riteniamo che lo Stadio comunale, già intitolato a Giovanni Berta, 
oggi ad Artemio Franchi, sia prima di tutto un'espressione viva della “città del Gi- 
glio” il cui vessillo campeggia in alto sulle gradinate della torre di Maratona (fig. 
2), tanto da poter affermare che quella presenza per i fiorentini ha il significato 
prima di tutto di una questione d'identità. 

L’attaccamento verso il “vecchio comunale” è stato viscerale per più di una 
generazione di fiorentini che, almeno fino a pochi mesi fa, hanno identificato 





! Il Comune di Firenze ha bandito un “Concorso internazionale di progettazione per la riqua- 


lificazione dell’area di Campo di Marte Nord (Ambito A) e dello stadio di P.L. Nervi (Ambito B) di 
Firenze (dal 28-07-2021 al 31-01-2022). Interessante annotare sulla base della stima dei costi presunti 
da sostenere che il vincitore del concorso riceverà un premio di € 1.252.748,71 (al netto di IVA e ogni 
altro onere di legge), mentre ai concorrenti risultati classificati da secondo a ottavo sarà riconosciuto un 
rimborso spese per ciascuno pari a € 58.500,00. 

? Lo Stadio Comunale di Firenze, dall’ ottobre 1983, risulta vincolato ai sensi dell’art. 4 della 
legge 1089/1939 in quanto «importante testimonianza della tecnica costruttiva in cemento armato, quindi 
notevole interesse per la storia dell'architettura moderna in Firenze». 


398 


Verso il nuovo Stadio “Artemio Franchi” di Firenze, 
conservazione e rinnovamento 





come un'unica entità lo stadio di Pier Luigi Nervi con la squadra viola dell’ A.C. 
Fiorentina che si è rappresentata con orgoglio nella sua immagine. Questi motivi 
basterebbero da soli a fare capire come possa essere una questione nient’affatto 
semplice quella affrontare la riqualificazione del Franchi senza rischiare di scalfire 
il valore antropico che proprio quel bene riveste come espressione culturale ante 
litteram. Nella sua storia recente lo stadio è stato comunque già violato più volte 
e pesantemente, e forse anche per questo non ha del tutto sorpreso l’atteggiamen- 
to “sfascista” di una parte della tifoseria pronta a disfarsi di una memoria dive- 
nuta per taluni assai ingombrante. Su questo particolare aspetto della questione 
dovremo approfondire ed indagare. 

In ogni caso la conservazione delle opere in c.a. dell’ing. Nervi, realizzate tra il 
1930 e il 1933, riconoscibili «nella serialità della struttura delle gradinate come in 
cca costruttivi salienti» resta un punto fermo per il futuro restauro che nessun 

ibattito potrà fare a meno di considerare. (Fig. 3) 

Semmai interessante è l'evoluzione del pensiero critico che si muove coi cam- 
biamenti della società, come appare evidente dal confronto con la più recente 
dichiarazione d’interesse che data 15 maggio 2020. Venuto meno l'interesse per 
il rettifilo (che non esiste più!), modificato l’assetto stesso delle curve con gli 
interventi di “Italia ‘90”, l’attenzione dei tutori si sposta con una più incisiva ar- 
gomentazione tecnica su altri fondamentali elementi: «H sistema strutturale scelto 
dal progettista che si basa sulla reiterazione seriale della campata standard composta 
da pilastro e trave sagomata: su tale sistema di appoggio insistono le gradinate; la 
continuità dei telai portanti che definiscono nella loro reiterata successione l'aspetto 
esterno dello stadio». Ed ancora: «i seguenti “elementi formalmente e strutturalmente 
più complessi”, fortemente qualificanti l'immagine dello stadio: la sottile, snella pen- 
silina a copertura della tribuna centrale; le scale elicoidali di accesso alla Maratona e 
alle curve (Fiesole e Ferrovia); la torre di Maratona». (Fig. 4) 

Così si è espressamente dichiarata la “Commissione regionale per il patrimo- 
nio culturale della Toscana” che ha riconosciuto e amplificato l'interesse culturale 
dello Stadio “Artemio Franchi”, rispetto al pregresso vincolo di tutela, in quanto 
«testimonia una incessante ricerca sul rapporto tra programma funzionale, applica- 
zione del calcolo strutturale e invenzione della forma» È 

Un modo certamente sofisticato ed elegante quello scelto dalla Commissione 
per comunicare la cifra costruttiva e stilistica di quella architettura, utilizzan- 
do una formula forse eccessivamente criptica ma inequivocabile per sottolineare 
la complessità dell'operazione che attende la rifunzionalizzazione dell’impian- 
to sportivo, nell’ottica del rispetto strutturale delle articolate e ingegnose forme 
caratterizzanti proprio quegli elementi compositivi che realizzano il complesso 
architettonico. In questa accezione l’applicazione del calcolo strutturale non può 
che essere strettamente legata ai caratteri e alla qualità dei materiali impiegati dal 
progettista, laddove la tecnologia costruttiva originaria è lo strumento principale 
che dà forma all'architettura. Il valore dell’opera ingegneristica coincide dunque 
con quello della materia che la realizza, mantenendo in tal modo ben saldo il 
principio brandiano che vuole che “si restauri la sola materia (ammalorata) e non 


3. Cfr. Decreto n. 15 del 15 maggio 2020 (ex art. 10 comma 1), in Mibact: MIBACT_DG_ 
ABAP_15/01/2021_0001218-P 


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Giuseppe A. Centauro 





già la forma (per quanto caduca e frammentaria possa essere la struttura, ndA)”. 

Nello stadio di PL. Nervi la “materia” coincide dunque con la struttura in 
cemento armato e non già con la sola patina di superficie, qui da intendersi come 
finitura di rivestimento, anche se l’impronta delle casseforme di gettata ha rap- 
presentato per molti anni l’aspetto esteriore della fabbrica e la sua sottile “bellezza 
artistica”, purtroppo oggi perduta e quindi non riproducibile senza scadere nel 
falso. Risulta evidente T contrapposizione tra le superfici originali, in parte am- 
malorate, e quelle nuove legate agli ampliamenti delle curve. (Fig. 5) 

Si tratta, dunque, di una tematica propria della conservazione che, mutuata 
dal restauro delle opere d’arte, sembra ben attagliarsi al caso dello stadio di P.L. 
Nervi, da intendersi appunto nella sua valenza di opera d’ingegno che, nella sua 
autenticità materica, eccelle per grandezza e qualità. 

La questione del restauro che si pone allo stato attuale come conditio sine qua 
non prima di procedere alle opere di ammodernamento dell’impianto, passa ne- 
cessariamente dalla conservazione delle strutture in cemento armato, dalla risolu- 
zione delle problematiche della carbonatazione, fenomeno fortemente incipiente 
che mina la stessa ossatura metallica della struttura. (Figg. 6/10) 

Quindi si tratta di un restauro che dovrà essere affrontato entro il perimetro 
dell’art. 29 del “Codice dei Beni culturali e del Paesaggio” (ex D.Lgs 22 gennaio 
2004 n. 42 e successive modifiche e integrazioni) ben delineato nel dispositivo di 
tutela (omissis) e con le prescrizioni ulteriormente ribadite nel 2020 a valere per 
ogni qualsivoglia intervento s'intenda oggi intraprendere. 

Occorre, tuttavia, richiamare e tenere presente che, dopo le pesanti modifiche 
apportate con gli interventi di “Italia ’90” (tra i quali RE del campo, 
l'eliminazione della pista di atletica e i vari altri ampliamenti (copertura delle 
tribune laterali, allargamento delle gradinate delle curve e del parterre e svariate 
altre di adeguamento funzionale all'impianto sportivo), l’evocata integrità archi- 
tettonica dello stadio è stata in parte compromessa, tanto che si renderebbe ne- 
cessario in prima battuta rimuovere, laddove possibile, tutte le addizioni invasive 
e poco compatibili nei materiali usati. Come se non bastasse, i successivi lavori di 
rinnovamento condotti nel 2007 a seguito del decreto antiviolenza, con l’instal- 
lazione di 29 tornelli doppi e il completamento della recinzione di prefiltraggio 
mobile, hanno “mascherato” lo stadio in ogni sua parte. Inoltre dovremo anno- 
verare tra le modifiche apportate anche gli interventi più recenti, del 2012, con 
l'abbattimento delle barriere al fine di avvicinare al terreno di gioco la tribuna 
coperta, fatta oggetto dell’installazione dei cosiddetti “skybox”, volumi incassati 
a ridosso di quella “snella pensilina” che non appare più tale. Queste opere dimo- 
strano, semmai ce ne fosse stato bisogno, come lo stadio in quanto architettura 
non sia mai stato, almeno negli ultimi trent'anni, un oggetto di contemplazione, 
quanto piuttosto un generatore di spazi in continua trasformazione. Al momen- 
to non mi soffermo nel merito della non meno spinosa questione urbanistica e 
ambientale legata alla riqualificazione del quartiere di Campo di Marte, che pure 
fa parte integrante del progetto di valorizzazione del monumentale complesso 
sportivo proprio perché rappresentativo dell’identità della città e del paesaggio 
urbano. Ma, se ai fini della conservazione gli ambiti di intervento risultano ab- 
bastanza chiari, pur se di difficile risoluzione, resta un margine piuttosto ampio e 
soggettivo per quanto concerne la riabilitazione funzionale e l'ammodernamento 
che adesso si richiede da più parti. 


400 


Verso il nuovo Stadio “Artemio Franchi” di Firenze, 
conservazione e rinnovamento 





Il progetto contemporaneo dovrebbe attenersi ai linguaggi compositivi attua- 
li, semmai e all'avanguardia in chiave tecnologica; tuttavia, memori degli esiti 
delle risoluzioni adottate per “Italia ‘90” non bene armonizzate (per usare un 
eufemismo) con la struttura preesistente, occorre operare nel rispetto della me- 
moria con la massima attenzione al contesto, senza indulgere però ad improprie 
copiature stilistiche o peggio a soluzioni mimetiche. Per tali motivi la Soprinten- 
denza Archeologia Belli Arti e Paesaggio per l’area metropolitana di Firenze e le 
province di Pistoia e Prato (da ora indicata come SABAP), concedendo il proprio 
consenso verso una nuova progettualità oltre gli aspetti conservativi detta con 
una nota del 19/11/2020 precise prescrizioni inducendo argomentazioni sull’a- 
spetto “ristrutturativo” del progetto al fine di ottenere una corretta saldatura tra 
l'esistente e il nuovo piuttosto che una mera contrapposizione “competitiva” tra 
le parti, così come avvenuto nel recente passato. (Fig. 11/ 13) 

Sarà dunque importante che la città si a su questi temi, ora che il 
Concorso porrà sul tavolo le otto soluzioni selezionate dalla Commissione giu- 
dicatrice, certamente tra loro diverse ma confrontabili. Si tratta di proposte che 
sono solo apparentemente ad uso esclusivo dei tecnici progettisti, degli inge- 
gneri, degli impiantisti ma che in realtà riguardano tutta la cittadinanza. E non 
necessariamente la soluzione funzionale (più apprezzata da un punto di vista 
architettonico) nell’ambito dell’ammodernamento in chiave di restauro è quella 
che fornisce “scorciatoie o azzeramenti formali” quanto piuttosto quella che dà ri- 
sposte congruenti in un rapporto virtuoso con la testimonianza storica che esalti 
sottotraccia l'antico quanto il nuovo. Così facendo anche le richieste dei maggio- 
renti sportivi internazionali potranno assolversi più opportunamente senza trau- 
mi, basti pensare alla ricercata copertura totale degli spalti, alla formazione delle 
nuove gradinate per entrambe le curve, interventi sollecitati in modo da ridurre 
la distanza dal campo e rispettare al tempo stesso la curva di visibilità (conser- 
vando le vecchie strutture non come meri reperti archeologici ma parti utili alla 
polifunzionalità dell'impianto che dovrà essere non più dedicato al solo servizio 
sportivo, ndA). Inoltre, ma non in ultimo, sono da considerarsi anche interventi 
di miglioramento sismico delle parti strutturali ammalorate o non più prestazio- 
nali con sostituzione delle armature danneggiate e il rinforzo delle sezioni meno 
resistenti; ed ancora, le verifiche sulla capienza del pubblico nei vari settori po- 
tranno offrire l'opportunità di migliorare la fruibilità degli eventi in tutta sicurez- 
za ecc. ecc. Sul piano della manutenzione la necessità rilevata riguarda piuttosto 
la programmazione degli interventi “ripetuti a rotazione” sull’intera struttura e, 
soprattutto, l’impermeabilizzazione delle parti più esposte agli agenti atmosferici. 
Infine, ammodernamento dovrà dare risposte alle criticità rilevate nell’applica- 
zione della normativa UEFA (sevizi igienici per i | pubblico, incremento degli 
spazi per hostitality, nuovi impianti di illuminazione a led, idonei per le riprese 
televisive ecc.). Altro nodo che sarà da risolvere, così come avanzato dall Ammi- 
nistrazione comunale, è quello delle superfici da destinare agli usi commerciali 
(da integrare all’impianto sportivo). Per soddisfare questi obiettivi, la SABAP ha 
fornito preliminarmente un elenco di interventi che potranno essere sottoposti 
alle SI istituzionali.‘ 





Si veda quanto descritto nel documento citato alla nota 3, che fornisce indicazioni relative alle 


401 


Giuseppe A. Centauro 


Verso il nuovo Stadio “Artemio Franchi” di Firenze, 
conservazione e rinnovamento 








Il contributo al dibattito dato dagli studenti del laboratorio di restauro 

A dimostrazione che quanto sopra osservato possa costituire il giusto modo di 
approcciarsi su un tema così complesso, utile anche al fine di avere una migliore 
cognizione di causa supportata da un quadro conoscitivo esauriente per affronta- 
re i futuri dibattiti sull'argomento, è stato messo a punto e applicato un metodo 
integrato di lavoro, sviluppato ad hoc nell’ambito della didattica e della forma- 
zione per la conservazione e il restauro erogabile a livello universitario. 

Lo scopo è stato quello di condurre in simulazione le tematiche del restauro 
architettonico e della valutazione d’impatto sul patrimonio, nell’elaborazione di 
progetti finalizzati all'ammodernamento dello stadio di Firenze nell’ambito del 
programma curriculare di laboratorio. Sulle tematiche del restauro moderno e 
della conservazione delle strutture in c.a., nonché del progetto, si è cimentato il 
Laboratorio di Restauro, diretto da chi scrive’, con ricerche a carattere seminaria- 
le, affidando agli studenti un comune piano di lavoro sullo Stadio Franchi, arti- 
colato per fasi di studio. In particolare, il seminario ha usufruito dell’illustrazione 
delle tematiche da affrontare da parte degli stessi funzionari della Soprintendenza 
fiorentina, arch. Valerio Tesi e arch. Paola Riccò, che hanno illustrato i contenuti 
della linee guida disposte con il citato Decreto 15/2020 , le stesse che sono state 
indicate ai partecipanti al Concorso, nonché le modalità di valutazione d'impatto 
sul patrimonio raccomandate da ICOMOS, per la congruità dei progetti a livello 
ambientale e paesaggistico. 

Le attività sono state indirizzate e coordinate nelle esercitazioni utilizzando 
repertori fotografici appositamente realizzati e gli elaborati di rilievo e documen- 
tari forniti dall'Ufficio Servizi Tecnici del Comune di Firenze, con l’assistenza 
dell’ing. Alessandro Dreoni ed dell’arch. Monica Fantappiè. 

Il seminario, tenutosi tra il mese di febbraio e il luglio 2020, ha visto il lavoro 
di n.10 gruppi, per un totale di 37 studenti, per un'elaborazione complessiva di 
125 tavole di analisi e proposte progettuali. Il lavoro svolto dagli studenti, si è 
sviluppato in 3 fasi: 

PERCORSO DELLA CONOSCENZA. Tavole propedeutiche a carattere generale (in- 
quadramento storico urbanistico e ricostruzione delle fasi costruttive). Le archi- 
tetture degli anni Trenta a Firenze e l’opera di P.L. Nervi. Disamina dei caratteri 
architettonici (originari e spuri) del progetto stadio (Figg. 14 e 15); 

LINEAMENTI DI RESTAURO. Tavole di analisi delle patologie osservate su por- 
zioni dello stadio assegnate a ciascun gruppo con redazione di lineamenti proget- 
tuali per la conservazione delle superfici e degli elementi strutturali, nonché indi- 
viduazione dei “capisaldi” della tutela delle strutture di P. L. Nervi (omissis) con 
segnalazione delle parti “ristrutturabili” secondo le linee guida dettate da SABAP; 





«modalità e forme di conservazione [...] mediante interventi di ristrutturazione o sostituzione edilizia volti 
alla migliore fruibilità dell'impianto sportivo». 

5 Si tratta del Laboratorio di Restauro I (CdL Magistrale quinquennale in Architettura - Dipar- 
timento di Architettura Università degli Studi di Firenze), condotto da chi scrive con la collaborazione 
per la parte strutturale del prof. Silvio Van Riel e per le esercitazioni da PhD Andrea Bacci. Ed inoltre 
come tutors/cultori della materia: Arch. Luca Brandini, arch. Francesco Masci, arch. Margherita Pelosi. 


402 


REDAZIONE DEL PROGETTO ALLA SCALA URBANA E ARCHITETTONICA. (Fig. 16) 
Tavole grafiche con proposte progettuali e d'intervento, accompagnate da modella- 
zioni in 3D. Metaprogetto con autovalutazione dell'impatto sulle soluzioni proget- 
tuali proposte (per verificare la congruità dell'idea) in accompagnamento al piano 
delle funzioni indicate per l’area di Campo di Marte. 

Cosa si può dire di questa esperienza nell’ambito del futuro dibattito sul pro- 

etto vincitore? Come ho avuto modo di osservare nel corso della presentazione 
fiale degli studi: «Avere atteso con gli studenti del primo corso di restauro ad 
un tema complesso come quello della conservazione e restauro dello Stadio “Ar- 
temio Franchi”, con le strutture in c.a. di Pier Luigi Nervi, capolavoro assoluto 
dell’Architettura degli anni Trenta, poteva sembrare una scommessa non soste- 
nibile in chiave formativa e didattica. Per di più proponendo un'attività semina- 
riale a distanza, contando quindi sui soli rilievi e documenti messi a disposizione 
dall? Amministrazione Comunale di Firenze e dalla Soprintendenza Archeologia 
Belle Arti e Paesaggio territorialmente competente, il percorso di conoscenza sul 
monumento, privato del contatto diretto, si sarebbe potuto dimostrare di difficile 
attuazione, se non addirittura velleitario. Stimolati dal variegato, e per certi versi 
assai sguaiato dibattito creatosi in città, amplificato in tutti i modi dai media, tut- 
tavia sostenuto dall’imprescindibile necessità di mettere in sicurezza ed adeguare 
l'impianto sportivo alle esigenze funzionali e alle regole internazionali del gioco 
del calcio, ino comunque deciso con i collaboratori del corso, di affrontare 
la questione con i nostri studenti, di varia provenienza e formazione, che ancora 
non conoscevamo, investendo soprattutto su due cose: garantire al massimo il 
rigore metodologico della ricerca da farsi; puntare sulla capacità tutta giovanile 
di saper cogliere senza condizionamenti le dinamiche della trasformazione che 
si sarebbero presentate per gestire da un parte le problematiche conservative e 
dall’altra di sviluppare coerentemente le progettualità richieste. Di grande aiuto e 
di supporto per l'orientamento delle linee di intervento da perseguire ai fini della 
salvaguardia e di una corretta modernizzazione dello stadio, qui inteso nella sua 
organicità ed articolata stratigrafia, sono stati gli interventi e i contributi che gli 
architetti Valerio Tesi e Paola Riccò della SABAP In ultimo, ma non come obiet- 
tivo minore da soddisfare, lo stadio è stato posto al centro di una valutazione ur- 
banistica, quale motore di tutela aa e di un processo di riqualificazione 
della zona di Campo di Marte a vantaggio della comunità insediata. Riteniamo 
che i risultati ottenuti, dal nostro punto di vista incoraggianti ed onesti pur nei 
limiti propositivi di un corso propedeutico al restauro, diano la misura di quanto 
sia possibile ottenere da un comune impegno, condiviso e attentamente parteci- 
pato tra docenti e studenti». (Fig. 17) 

Altre note sulle attività laboratoriali: «Lo stadio comunale costruito da Pier 
Luigi Nervi rappresenta uno di quei monumenti che, e accade raramente, comu- 
nicano per estrema sintesi la propria qualità architettonica attraverso l’ingegno 
strutturale e la razionalizzazione del disegno di insieme. Questo connubio per- 
mette non solo di assolvere le funzioni richieste ma in puro stile razionalista esalta 
e asciuga la qualità della composizione architettonica per crearne un unicum. 


6 L’autovalutazione dell'impatto sul piano paesaggistico è stata eseguita seguendo i criteri e le 


procedure raccomandate da ICOMOS per la valutazione di impatto sul patrimonio (HIA). 


403 


Giuseppe A. Centauro 





Questa è accuratamente attuata attraverso il progetto e i disegni che lo compon- 
gono (soprattutto prospettive e sezioni) e che ancora oggi comunicano la lucidità 
con il quale l'Ing. Nervi ha immaginato lo stadio e le proprie trasformazioni. Da 
questa lettura il Laboratorio ha svolto la propria attività per conoscere, valorizzare 
e conservare il monumento così da immaginarne una continuità con il suo genius 
loci rileggendo le aggiunte e modifiche che lo hanno interessato nel XX SI; per 
proiettarlo verso le prossime imminenti trasformazioni». (Fig. 18) (Andrea Bacci) 

«Riassumere in poche righe l’opera di Pier Luigi Nervi per lo stadio di Fi- 
renze sarebbe alquanto difficile stante l'originalità e la raffinata complessità delle 
strutture realizzate. L'ampia ed accurata ricerca seminariale che ha caratterizzato 
il Laboratorio di Restauro si è sviluppata secondo quanto previsto dalle norme 
tecniche per le costruzioni, oggi vigenti, ampliando il percorso conoscitivo con 
un'accurata ricerca storico-documentale delle fasi progettuali ed esecutive, imple- 
mentate da un attento rilievo strutturale e da una puntuale analisi del degrado 
delle strutture. Questa esperienza, innovativa per l'applicazione su un tema di 
grande fascino di questa architettura della Prima metà del Novecento in ambito 
accademico, ha permesso di studiare ed approfondire il tema della conservazione 
e della valorizzazione di una architettura che, quasi dimenticata nell'universo 
artistico fiorentino, rappresenta tuttora un episodio centrale della capacità pro- 
gettuale e realizzativa di Pier Luigi Nervi, giustamente considerato un vero mo- 
numento». (Fig. 19 ) (Silvio Van Riel). 

Alla luce dei risultati messi in luce da questi studi si può dire che lo Stadio 
di Pier Luigi Nervi potrà salvare i valori testimoniali più autentici della sua 
architettura, espressione del razionalismo strutturale e dll di facciata 
del suo tempo, e nonostante le pesanti alterazioni sopportate negli anni, solo 
attraverso un'attenta e meticolosa analisi storico critica dei suoi caratteri costrut- 
tivi (fig. 20). E solo così sarà in grado di rigenerarsi senza traumi nei linguaggi 
compositivi contemporanei. 


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Ringraziamenti 


L'articolo è frutto di riflessioni e valutazioni elaborate nel corso dell’attività 
didattica svolta nell’a.a. 2020-2021 nell’ambito del Laboratorio di Restauro I 
(CdL. magistrale a ciclo unico, quinquennale in Architettura c/o il Dipartimento 
di Architettura — Università degli Studi di Firenze) dallo scrivente, titolare del 
corso, con Silvio Van Riel e Andrea Bacci. 

L'autore ringrazia altresì per la preziosa collaborazione: il Comune di Firenze 
(Servizi Tecnici), nelle persone di Alessandro Dreoni e Monica Fantappiò, e la 
Soprintendenza fiorentina (SABAP), nelle persone di Valerio Tesi e Paola Ricco; 
ed inoltre, in sede di dibattito preliminare: Alberto Di Cintio, Scilla Cuccaro, 
Elisabetta Margiotta Nervi, Colomba Pecchioli, Marzia Magrini, Piero Funis, 
Pier Matteo Fagnoni. 


405 


Giuseppe A. Centauro 





Credits: 


Per il riordino, le foto e l'editing del materiale prodotto in sede di laboratorio: 
Marta Bandinelli, Vanessa Benelli. 

Per l’analisi e l’elaborazione delle ricerche e delle proposte, suddivisi in 10 
gruppi, gli student* i/esse: 

Gr. 1: Maria Greta Libri, Lina Giulia Gentile. Leslie Laureano Lopez, Egis 
Zyko; Gr. 2; Alfred Preka, Ohayon Eyal, Ataliya Cohen, Rubinger Shira; Gr. 3: 
Aurora Bellini, Miriam Bergonzini, Petrina Razmovska, Sthefanie Leon; Gr. 4: 
Paola Iada’, Soleimaniesfahani Gadom, Angela Turtoro; Gr. 5: Giovanni Zacca- 
ria, Federica Pulli, Antonella Pappalepore, Nadia Chacar; Gr. 6: Aurora Bigiarini, 
Irene Bianchi, Francesco Creatini, Lorenzo Proetto; Gr.7: Lorenzo Botto, Rosita 
Di Gisi, Elisa Ustioni, Alessandro Giordano; Gr.8: Cristian Benvenuti, Vittoria 
Ottobrini, Maria Luisa Baldassarre; Gr. 9: Yarden Shacar, Maayan Furst, Victoria 
Duca; Gr. 10: William Gianluigi Pisanò, Christina Salanguit, Vittoria Scarcelli, 
Tommaso Quaglierini. 


406 


Verso il nuovo Stadio “Artemio Franchi” di Firenze, 
conservazione e rinnovamento 





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Fig. 1 — Il cartellone appeso dai tifosi che prefigura la soluzione dell’abbattimento delle curve (foto di 
A. Bartolozzi, 2020). 





Fig. 2 — Foto sferiche dagli spalti della gradinata di Maratona (foto G.A. Centauro, 2021). 


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Verso il nuovo Stadio “Artemio Franchi” di Firenze, 
Giuseppe A. Centauro conservazione e rinnovamento 











Fig. 4 — Stadio “Artemio Franchi”, scala elicoidale della curva Ferrovia e Torre di Maratona (foto di A. 
Fig. 3 — BL. Nervi, modello plastico dello stadio (da: G. Michelucci, op. cit. in Architettura”, XI, 1932, p. 107). Bartolozzi, 2021) 


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Verso il nuovo Stadio “Artemio Franchi” di Firenze, 
Giuseppe A. Centauro conservazione e rinnovamento 











Figg. 6/10 — Illustrazione di rilievo delle condizioni di degrado dovute ai fenomeni in atto di carbona- 
Fig. 5 - Contrapposizione tra le superfici originali e quelle più recenti. tazione delle strutture metalliche e di decadimento degli intonaci (03/ 2021). 


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conservazione e rinnovamento 


Giuseppe A. Centauro 





Verso il nuovo Stadio “Artemio Franchi” di Firenze, 
Giuseppe A. Centauro conservazione e rinnovamento 








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Figg. 11/13 —Illustrazione degli accostamenti delle strutture in c.a. con le aggiunte e modifiche postume. 


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l Verso il nuovo Stadio “Artemio Franchi” di Firenze, 
Giuseppe A. Centauro conservazione e rinnovamento 











Figg. 14,15 — Illustrazione delle nuove coperture delle tribune laterali e delle installazioni dei tabelloni 
elettronici (curva Ferrovia). 


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Verso il nuovo Stadio “Artemio Franchi” di Firenze, 
Giuseppe A. Centauro conservazione e rinnovamento 











Fig. 16 — Esemplificazione di alcune soluzioni progettuali elaborate dai vari gruppi di studio (07/ 2021) Fig. 17 — Vista interna della gradinata di Maratona (03/ 2021). 


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Verso il nuovo Stadio “Artemio Franchi” di Firenze, 
Giuseppe A. Centauro conservazione e rinnovamento 











Fig. 18 — Lo Stadio comunale prima delle addizioni degli anni Settanta. Fig. 19 — Vista esterna della Torre di Maratona e delle scale elicoidali (03/2021). 


420 421 


Giuseppe A. Centauro 








Fig. 20 — La parte monumentale del fronte principale prospiciente viale Manfredo Fanti (03/ 2021). 


422 


Esposizione 





LUCA LUPI, ILARIA MARIOTTI 


«Tutto può accadere, tutto zo e verosimile. Il tempo e lo spazio non esista- 
no; su una base insignificante di realtà, l'immaginazione fila e tesse nuovi disegni». 


Strindberg, Z sogno 


Utilizzando una fotocamera si può fotografare un soggetto illuminato dalla 
luce, ma sarebbe possibile utilizzare la luce per realizzare direttamente unimma- 
gine? 

Un'immagine che ancora non esiste ma riesci solo a intuirla nella mente come 
un'idea, un pensiero. 

La fotografia viene ridotta al suo elemento essenziale, la reazione di una super- 
ficie quando esposta alla luce. 

Inizio a lavorare a un processo di sottrazione del colore attraverso la luce. 

Un procedimento che permette di realizzare immagini senza l’utilizzo della 
macchina fotografica. 

Un tornare alle origini della fotografia per poter andare oltre. 


Luca Lupi 


Sorprendenti nella loro apparente semplicità e sintesi sono queste opere nuove 
di Luca Lupi. 

Foto + dedicato alla sfida di cogliere l’infinito (le serie fotografiche sul 
mare), ione in uno sguardo (la terra vista dal mare) l’indistinto e il velato, i 
contorni del paesaggio, l'attimo e la durata, Luca Lupi sembra qui fare esperienza 
di tutto il lavoro con la luce ma spostando il piano della ricerca su un bu che 
definirei parallelo. 

In fotografia l’immagine si forma per la luce catturata da dispositivi più o 
meno sofisticati. 

Le Esposizioni, questo il titolo per tutte le opere della nuova serie, sono im- 
magini semplici (cerchi, rettangoli che talvolta si dilatano improvvisamente), o 
definibili come superfici che si accampano sul piano. Esse sono prodotte dal 
lavorio della luce che nell’arco di tempo dell'esposizione erode i pigmenti delle 
carte colorate. 

Lupi ha iniziato questa serie nel periodo del lockdown più duro, quello della 
primavera del 2020: un tempo di isolamento forzato e di clausura. I mari e le 


423 


Luca Lupi, Ilaria Mariotti 





coste lontani, la natura più frequentata e più attenzionata in qualche modo inac- 
cessibile. Il progetto e le immagini cercate solo nella testa. 

Ha iniziato a esporre i adi colorati alla luce del sole sperimentando tenu- 
ta e effetti, moltiplicando le variabili, testando durata e risultati. Un processo 
di sperimentazione che parte da cose semplici, domestiche, vicine. Le finestre, 
ad esempio. Ha iniziato a costruire mascherature sempre più elaborate, con gli 
spigoli smussati o dritti, verticali rispetto alla superficie: di con i quali na- 
scondere al sole porzioni di carta, studiando il modo in cui la luce penetra nelle 
fessure, si diffrange negli spiragli, erode il colore in modo non uniforme. Testa gli 
effetti della durata dell'esposizione. Lunghissimi all’inizio, venti giorni, un mese 
e anche due talvolta per avere un risultato significativo: e non sempre è la stessa 
cosa per tutti i colori perché i gialli, i rossi, i viola, i verdi reagiscono in maniera 
diversa. 

Il lavoro si evolve, la sperimentazione si fa più sofisticata: lampade utilizzate 
nella diagnostica artistica (che hanno la stessa frequenza della luce solare) poi quelle 
ancora più potenti accorciano i tempi di esposizione; il banco di lavoro può essere 
trasferito in studio, permette di operare in piano, poi di testare posizioni del foglio 
esposto direttamente alla fonte luminosa eliminando la mascheratura. 

Sul retro di ogni carta Lupi segna il tempo di esposizione: mascherature, in- 
clinazioni, colore, tempi producono pezzi unici, declinano, insieme al numero 
progressivo, il titolo seriale. 

Carte divise a metà da vampate di luce che durano mesi, giorni o ore, riverberi 
sul fronte che segna la zona delle carte esposta alla luce da quella rimasta protetta; 
cerchi e rettangoli che sono frutto di mascherature più geometriche, esposizioni 
sempre più calibrate. 

Ma quello che ci si squaderna davanti agli occhi è un ricco immaginario di 
variabili acheropite — così come del resto non da mano umana nasce la fotografia 
— dove la luce, naturale o artificiale, indirizzata, convogliata, allentata, sembra al 
contempo materia e apparizione, fenomeno e oggetto. La nostra immaginazione 
e sensibilità fanno il resto: compaiono orizzonti marini investiti da ultimi bagliori 
o luci d’alba, finestre simboliche che per la pastosità delle carte sono apparizioni 
incarnate, ci pare di poter intravedere un paesaggio lì dove la luce ha macchiato 
il foglio consumandolo “per via di levare”. 


Figure e astrazioni insieme richiamano a noi un immaginario vasto e artico- 
lato, un campionario di gesti novecenteschi diversi per ricerche e pena e 
che si dispongono su una linea astratta o geometrica che ora guarda alla scienza, 
alla percezione, al fenomeno, ora si espone rispetto all espressività o al raffredda- 
mento del gesto artistico, ora lavora sul colore e sulla luce, ora astrae approdando 
a una sintesi monocromatica. 

Le figure geometriche si ripetono come sintesi suprematiste: la memoria ri- 
manda al Quadrato Nero di Kazimir Malevič (1915) (o alľancora precedente 
“eclissi”, il quadrato metà nero e metà bianco partito sulla diagonale del quinto 
quadro dell’opera cubo-futurista La Vittoria sul Sole andata in scena nel 1913 
a San Pietroburgo e di cui l'artista realizza scene e costumi) o alle apparizioni 
monocromatiche frutto di attente indagini scientifiche sui fenomeni luminosi 
di Ivan Kliun che lo portano a produrre opere come Luce rossa. Composizione 
sferica (1923 ca). 


424 


Esposizione 





E così via: dai quadrati di Josef Albers, ricerche sulle potenzialità degli accosta- 
menti di colori, ai neri di Ad Reinhardt. Le slabbrature dei margini e quel senso 
di indefinitezza che stacca le forme dal foglio, rendendole fisse e mobili allo stesso 
tempo, inevitabilmente ci ricordano le campiture liquide di Mark Rothko. Ma 
queste sono associazioni che facciamo come una sorta di esercizio di memoria. 
Esposizioni sono il frutto di gesti apparentemente semplici e in realtà calcolati, 
misurati al millimetro, di una tecnica sempre più sofisticata, di un'esplorazione 
del limite della materia e del colore. Sono apparizioni perché congelano un feno- 
meno che, anche se indotto, riguarda l’immateriale e il materiale insieme dove la 
forma si manifesta attraverso un atto distruttivo e pare emergere dalla carta come 
un miracolo. 


Ilaria Mariotti 


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Luca Lupi, Ilaria Mariotti 








Fig. 1: Allestimento della mostra Esposizione, Cardelli & Fontana, Sarzana (SP) 


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Fig. 2: Allestimento della mostra Esposizione, Cardelli & Fontana, Sarzana (SP) 


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Esposizione 








Fig. 3: Esposizione LVIII, 2021, luce su carta, esposizione di 94 ore, cm 100x80 esemplare unico 


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Luca Lupi, Ilaria Mariotti 


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Fig. 4: Allestimento della mostra Esposizione, Cardelli & Fontana, Sarzana (SP) 











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Esposizione 











Fig. 6: Esposizione LVI, 2021, luce su carta, esposizione di 22 ore, cm 100x80 esemplare unico 


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Luca Lupi, Ilaria Mariotti 








Fig. 7: Esposizione LXI, 2021, luce su carta, esposizione di 35 ore, cm 80x100, esemplare unico 


430 


Sul diario dell’ufficiale della Regia Marina Italiana 
Giobatta Cerutti 





MARIA FANCELLI 


Ho letto con crescente interesse Disperazione e dignità. Diario di un ufficiale 
italiano nei campi del Terzo Reich 1943-45 di G. B. Cerutti. Un documento che 
viene alla luce dopo molti decenni e che ora è accessibile e liberamente scaricabile 
online (https://www.diariodailager.it), mentre la casa editrice Edimedia (Firenze) 
si appresta a farne un'edizione cartacea. 

Sulle vicende del manoscritto, della trascrizione e dell'edizione siamo infor- 
mati dal figlio dell'autore Furio Cerutti, che è anche il curatore del testo e che, in 
un'ampia postfazione (Né morale né politica: una resistenza civile), fornisce unu- 
tile cornice storica e biografica insieme ad una prima concettualizzazione degli 
eventi drammatici raccontati. Lo stesso curatore ha diviso il diario in quattro 
parti che corrispondono ad altrettante tappe di un viaggio che si estende dal set- 
tembre 1943 alla primavera del 1945. E una suddivisione fondata, che ha anche 
una sua utilità di fera nei confronti di un materiale forzatamente disuguale. 

A me il diario di G. B. Cerutti è apparso sostanzialmente fatto di due parti che 
rispecchiano accadimenti diversi della stessa drammatica esperienza di vita, più 
precisamente due viaggi, quello dell'andata e quello del ritorno. La prima parte 
riguarda il viaggio dalla Grecia verso la Germania, la seconda gli spostamenti 
all’interno del Terzo Reich e le esperienze in cinque campi di internamento tra 
Germania e Polonia. Nella prima parte il testo ha le modalità proprie del diario 
e del bollettino quotidiano che fissa i luoghi, i tempi e le tappe del viaggio; nella 
seconda parte c'è un cambio di registro, il ritmo è più disteso, prendono spazio 
le parti riflessive e una prima elaborazione delle terribili vicende vissute. In ogni 
caso siamo di fronte ad un testo autobiografico nel quale si realizza l’unità totale 
tra autore, narratore e personaggio, con la sola eccezione di qualche inserto epi- 
stolare. 

Il diario è quello di uno dei prigionieri di guerra che la retorica del declino 
nazi-fascista volle chiamare con la sigla IMI, ovvero di Internati Militari Italiani. 
L'autore è un ufficiale della Regia Marina Italiana, prigioniero degli ex-alleati, 
che non conosce né l'itinerario, né la meta dei suoi spostamenti, e che all’inizio 
ritiene imminente una svolta positiva. È un giovane uomo quarantenne che nel 
processo di autocoscienza, nell’esercizio della scrittura quotidiana e nella regi- 
strazione degli eventi trova l’energia necessaria per affrontare le infinite difficoltà 
della prigionia e per non perdere mai la speranza della salvezza e del ritorno a 
casa; redige un diario che per tanti aspetti ci appare quasi un manuale di resisten- 
za. Come in altri diari di guerra, la fame è il tema dominante e con la fame le 
infinite vicissitudini del corpo offeso e dolente in ogni sua parte, fino alla malattia 
che colpirà il prigioniero nella fase ultima dei suoi spostamenti. Ripetutamente 
offesa è la dignità della persona e, giustamente, il E scelto dal curatore oscilla 
tra disperazione e dignità, parole liu che sono il vero fulcro, il motore e il filo 
conduttore dell’intero diario. 


431 


Maria Fancelli 





Questo diario offre tanti motivi di interesse. Prima di tutto come documento 
che aiuta a vedere le varie fasi della politica nazista verso i militari internati, non- 
ché le anomalie della gestione e dello sfruttamento economico della forza lavoro 
italiana; in secondo luogo come cronaca e ‘manuale’ di una resistenza personale, 
prudente e tenace, a quella oscillante e talora incomprensibile gestione; infine 
come autoritratto di uno scrivente di buona cultura formatosi nei primi decenni 
del secolo. 

Tra le prime cose che mi hanno colpito è proprio l’autoritratto involontario 
dell’ufficiale G. B. Cerutti. L'ufficiale prigioniero dentro il carro ferroviario è an- 
cora il figlio del capostazione che ha sempre annotato il passaggio dei treni e che 
ora si trova a guardare da un’altra prospettiva i convogli, le stazioni, gli arrivi e le 
partenze, le persone che sostano nelle piazzole, che cerca di leggere e di annotare 
i nomi delle stazioni, che ne loda l’ordine o ne depreca l'abbandono. Nelle sta- 
zioni vede mettersi in moto la mercatura e un'attività di scambio di beni di ogni 
tipo: vede prigionieri che cambiano oggetti personali pur di poter avere qualcosa 
da mangiare. E così preso dal convoglio, dalle stazioni, dalle soste, dall’attesa 
della stazione che verrà, che il paesaggio, i paesaggi passano in seconda linea. Il 
catalogo delle stazioni si interrompe di rado e quando si interrompe è solo per 
un breve squarcio sulla potente natura che gli offre di colpo: si interrompe, per 
esempio, di fronte alla maestà del Danubio, il grande fiume definito “pastorale, 
corale, immenso”. Anche la Inn a Passau colpisce l'osservatore; lo colpisce Oder, 
lo colpiscono a tratti il profilo di lindi paesi dai tetti aguzzi. 

Qualche stilema isolato svela un gusto e una formazione di tipo classicista, per 
esempio l'aggettivo preposto al nome: il sonno e la ritolta luce, il vuoto intestino, 
la deridente vita, i continuati bombardamenti, e varie altre locuzioni. 

Il prigioniero sul treno è anche un uomo che ha lasciato la giovane famiglia. 
Per lui ripensare la figura della sposa, i volti dei figli, immaginarne la crescita, 
ripetere le frasi, leggere e rileggere le lettere sono il fondamento di ogni speranza 
di ritorno, sono la spinta per tornare a Itaca, la forza per resistere. La tonalità del 
ricordo suona sempre autentica: le parole usate ci dicono di un amore coniugale 
alto, di un'unità di fede tra i coniugi, di una costante apprensione e apprez- 
zamento per chi è rimasto a casa e ora lotta per cercare pane e cure mediche. 
Struggente e particolare l’amore per la figlia Rossana, nata nel giugno 1943, la cui 
vita è stata appena intravista dal padre prima dell’arresto, un volto che lui prova 
continuamente a immaginare nelle sue metamorfosi. Il pensiero dei figli e del 
loro futuro culmina e si riassume in una lunga e bellissima lettera al figlio, una 
lettera di sapore testamentario, studiata nella sintassi e nel lessico. Il figlio che nel 
febbraio 1944 impara a scrivere e legge bambino quelle lettere. Lo stesso che ora, 
dopo molti decenni, ne onora la memoria pubblicando con trattenuta emozione 
le pagine di quel diario. 

Legato al tema della famiglia e del nostos è il tema religioso. La fede condivisa 
con la sposa lontana è una forza pacata, è il rifugio nella sofferenza, una dimen- 
sione mai messa in discussione; una sola volta, forse, lo scrivente è attraversato da 
un dubbio ed è quando riferisce di un collega livornese che di fronte ai patimenti 
inflitti ai prigionieri esclama: “Certo, se poi il Paradiso non c'è, ... è una bella 
fregatura”! Si tratta certamente di una battuta liberatoria che tuttavia non è stata 
inserita a caso in questo contesto. 

Se le religioni nascono tutte dal bisogno di perpetuazione di sé, qui è chiaro 


432 


Sul diario dell'Ufficiale della Regia Marina Italiana Giobatta Cerruti 





che la preghiera dell’internato nasce dal desiderio di sopravvivenza e dalla fiducia 
in un piano provvidenziale che lo riporterà a casa. Qui è evidente che la preghiera 
è una pratica terapeutica, un esercizio consapevole dello spirito offeso; il rosario 
è simbolo e strumento di una enumerazione salvifica. La messa al campo o in 
baracca è il rito che allarga l'orizzonte del singolo all’ intera comunità degli inter- 
nati, uniti nella sofferenza. Solo verso la fine si dirada e si attenua la a 
religiosa. 

La seconda parte registra l’esperienza di nuovi trasferimenti, degli alloggi in 
baracche, di una situazione sanitaria terribile. Fa spazio alla riflessione e alla ela- 
borazione delle frammentarie notizie militari e politiche. Mette a fuoco la nuova 
vita nelle baracche, la crudeltà dei militari tedeschi, la loro miseria morale, Pin- 
sensatezza dell’estenuante andare su carri-bestiame. Il nemico li disprezza come 
traditori, li umilia e li tortura come può, il ritorno appare più lontano e il destino 
ancora più incerto. Il prigioniero si ammala seriamente fino al deperimento to- 
tale, ma il suo calvario è ln senza commiserazione e la sua speranza non si 
spegne mai fino all'incontro con un medico che lo salverà. 

La passione personale per i treni si riaccende a Berlino nell’ammirazione della 
lunga cintura ferroviaria della capitale del Reich. Ma la parte principale è dedica- 
ta alla descrizione minuta della patologia che lo porta quasi a morire in un qua- 
dro di sofferenze, di sintomi, di tentativi di cure, di deperimento, e infine di una 
guarigione lentissima. In questa parte si dilata lo sguardo sul dramma sanitario 
dei prigionieri, sulla desolazione delle baracche, sull’abbandono dei malati, sulle 
colpe dei tenutari del campo. Qui allora una domanda incalza il lettore: come 
abbia fatto veramente l'ufficiale genovese a salvarsi. Che cosa oltre la fede, oltre 
l’amore per la famiglia, oltre un buon patrimonio genetico, oltre il quoziente 
necessario di fortuna, ha reso possibile la sua salvezza? 

Ammesso che sia legittimo porsi questa domanda e soprattutto che sia possi- 
bile una risposta fuori di un'adeguata conoscenza storica dei fatti, la mia risposta, 
basata sulla lettura appassionata ma priva di termini di confronto, è un po’ la 
seguente, che ho creduto di poter ricavare da quell’involontario autoritratto di 
cui parlavo all’inizio. Credo che l’Ufficiale Cerutti abbia trovato la via del ritorno 
perché è stato se stesso, ha custodito la propria integrità morale, ha creduto nel 
suo status di ufficiale e di cittadino. Un contegno e una concentrazione costante 
sui propri valori gli ha permesso di non fare errori, volta per volta. La narrazione 
delle proprie Eri comunque destinata a lettori memori, gli ha permesso 
di trovare una forma di distanza, di stigmatizzare il comportamento dei suoi 
parigrado, di rubricare a futura memoria l'elenco delle angherie, delle crudeltà 
e soprattutto della rottura del codice di comportamento militare. “Non è il mo- 
mento”, scrive, ma mettiamo tutto a verbale e verrà l’ora del giudizio. 

L'esperienza concentrazionaria gli rafforza lodio per la Germania e per i te- 
deschi che abbiamo trovato netto e forte all’inizio. Il suo odio appare primario, 
antecedente alla lunga odissea e senza mediazioni. La prigionia è assurda, la po- 
litica di deportazione è assurda, sgangherata e senza un piano ragionevole. Ma 
se all’inizio era lodio per l’ex-alleato colpevole della guerra, alla fine è chiaro che 
la colpa suprema è stata quella di avere infranto il codice morale e militare. La 
fine di tutte le regole comportamentali si rispecchia anche nel comportamento 
dei collaboratori di varia nazionalità, per esempio “i vampiri russi” o i “traditori 
alto-atesini”: tutto cio è spia di un disordine etico di cui la Germania è la prima 


433 


Maria Fancelli 





colpevole. 

In questo senso colpisce l’episodio raccontato il 24 maggio del 1945: 

“ci hanno sistemato nelle nostre vecchie camerate, veri antri, letamai, men- 
tre erano libere le baracche delle SS, ove hanno trovato ottima sistemazione i 
soldati! I quali sono i veri padroni del campo: sono vestiti benone, hanno razziato 
e razziano quanto vogliono-possono e guardano i signori ufficiali far pulizia a 
terra fuori delle baracche, sorridendo ironici allo spettacolo! E si sono sistemati- 
letti non sovrapposti! - nelle baracche del vecchio campo, cedute già ai francesi, 
e hanno dovizia di tavolini, sedie e di tante altre cose che i signori ufficiali non 
possiedono!” 

Contro il sovvertimento delle regole morali e del codice di comportamento si 
deve restare integri, sembra dirci l’autore, integri nel corpo e nell'anima. Si deve 
credere in ciò in cui ha sempre soprattutto creduto, la propria dignità di ufficiale. 

Il diario si conclude, quasi alla fine del lento viaggio attraverso le rovine fu- 
manti del Reich, con la decisione ponderata di collaborare con gli inglesi, una de- 
cisione presa per intimo convincimento, sempre nell'autonomia e integrità della 
propria coscienza: “...Agisco di mia testa, mi assumo la mia responsabilità, pago 
i miei errori senza necessità di delucidazioni, autorizzazioni, consigli che Psi 
Colonnello non ha alcuna veste per impartirmi”. 

È una di quelle frasi lapidarie e disadorne che ci aiutano a capire perché la 
dignità ha potuto vincere sulla disperazione. 


434 


La strage di Valicandoli — 20 luglio 1944 





FRANCESCO FIUMALBI 


Alla metà di luglio 1944!, il XIV Panzerkorps della Wehrmacht, comandato 
dal Generale Fridolin von Senger und Etterlin?, cercava di resistere il più a lungo 
possibile lungo la linea difensiva denominata Norastellung, che aveva come pernio 
il centro abitato di Palaia, occupato dai reparti della Panzergrenadier-Division 90. 
del Generale Ernst-Giinther Baade. Ciò era funzionale al rafforzamento dell’ Ar- 
no-Stellung, l’ultima grande barriera prima della Linea Gotica sull Appennino, 
visto che per varie ragioni era stata abbandonata l'operazione Stichwort Donner- 
schlag, “Colpo di Tuono”, formulata appena 111 luglio’. 

In particolare, von Senger si preoccupò di allestire i due sbarramenti minori, 
costituiti dalla O/gastellung presso Empoli e dalla Eisenbahndammlinie, ovvero la 
linea del rilevato a che correva fra l’Elsa e la stazione di S. Romano‘. Per 
questa ragione venne diramato l’ordine di evacuazione della popolazione com- 
presa in un’area entro i 5 km a sud dell'Arno, poi ridotta alla fascia di territorio 
fra la ferrovia e il fiume. Testimonianze concordano circa l'installazione di appo- 
sita cartellonistica informativa circa l'interdizione, la cui mancata osservazione 
avrebbe comportato la pena di morte?: 


ZONA MILITARE 
ACCESSO PROIBITO 


SOTTO PENA DI MORTE 





Per velocizzare la preparazione della linea difensiva sull’Arno, operava il Pio- 
nier Bataillon 560., che si avvalse anche di manodopera locale, attraverso conti- 





! Desidero ringraziare Alessio Guardini e Piero Nacci, autori del video-documenta- 


rio Nessuno Dimentichi. Documenti, fotografie, testimonianze sul passaggio della guerra a Isola 
(2014), per aver portato alla mia attenzione i fatti della strage di Valicandoli e per aver messo 
a disposizione le fotografie delle vittime, da loro rintracciate e pubblicate a corredo del pre- 
sente articolo. Ringrazio altresì Emanuela D'Agostino e Mailaa Frittelli per aver gentil- 
mente messo a disposizione la lettera di Nello Mori alla figlia Clorinda (madre di Marilena e 
nonna di Emanuela), proposta in appendice. 

2. MrrcHAn 2007, p. 263. 

3. BISCARINI 1986, pp. 335-359; BISCARINI LASTRAIOLI 1991, pp. 103-109. 

‘ VON SENGER 2002, pp. 372-376; BISCARINI LASTRAIOLI 1991, pp. 117-118. In partico- 
lare, per la tattica difensiva basata sulle linee d’arresto, perfezionata dai tedeschi durante le Battaglie di 
Monte Cassino, per far fronte alle continue riduzioni d’effettivi, nonostante l'ampiezza delle zone di 
difesa da presidiare, si veda VON SENGER 2002, pp. 312-313. 

5. MAGNANI 1994, p. 100. 


435 


Francesco Fiumalbi 





nui rastrellamenti fra la popolazione civile’. La stessa soluzione, che prevedeva lo 
sfollamento, avrebbe dovuto essere adottata il 18 luglio nella città di San Miniato, 
dove operavano i ridotti reparti dell’8° battaglione della Panzergrenadier- Division 
3., col compito di controllare il territorio dal crinale alla pianura sottostante e 
coprire i movimenti lungo la Tosco-Romagnola nel tratto fra Ponte a Egola e 
Montelupo”. La porzione orientale del territorio sanminiatese, fra l’Egola e Mon- 
topoli, era invece controllato dalla Panzergrenadier-Division 26., il cui comando, 
proprio il 15 luglio, venne affidato al Colonnello Peter Eduard Crasemann, tri- 
stemente noto per l’eccidio del Padule di Fucecchio’. 

Quella di costituire una zona d’interdizione presso l’Arno, fu una scelta che 
il comando tedesco prese, non tanto per l'incolumità dei civili, quanto per la 
sicurezza e la gestione dei propri soldati, che agivano in reparti ridotti ed avevano 
subito anche alcune aggressioni”. Desideravano avere campo libero, poiché dove- 
vano tenere sotto controllo un ampio territorio e fronteggiare, oltre agli Alleati, 
anche bande di partigiani. Questa esigenza militare fu determinante per la vita di 
molte persone che, una volta sfollate, furono costrette a trovare ripari provvisori 
in luoghi sottoposti al tiro delle artiglierie. Lasciarono le proprie case gli abitanti 
di Roha, Isola, Ontraino, S. Pierino e Romaiano. Lo sfollamento di queste po- 
polazioni non fu effettuato in maniera organizzata, bensì ciascun nucleo familiare 
si mosse autonomamente, in base a circostanze e valutazioni estemporanee, come 
la possibilità di trovare ospitalità presso parenti o amici. Almeno inizialmente, le 
persone preferirono cercare rifugio nelle zone più vicine alla propria abitazione, 
da una parte per le difficoltà negli spostamenti — che avvenivano a piedi o con 
Putilizzo di piccoli barrocci — dall’altra confidando nella possibilità di poter far 
ritorno di tanto in tanto, per poter verificare l'integrità della casa, provvedere 
agli animali, recuperare oggetti utili, oltre che per farai frutti e ortaggi dai 
campi. Tuttavia, i militari germanici, per quanto in difficoltà, cercarono di far 
rispettare rigorosamente l’interdizione, tanto che almeno dieci persone furono 


passate per le armi fra il 15 e il 30 luglio 1944". 





6. BISCARINI Niccorai MANDORLINI 1998, pp. 30-31. 
7. BiscARINI LASTRAIOLI 1991, pp. 117-118; si veda inoltre la cartina fra le pp. 124-125. 
Sull’eccidio del Padule di Fucecchio è stata prodotta un’ampia storiografia. Da ultimo si veda 
BISCARINI 2014, in particolare sul processo al Colonnello Crasemann, pp. 129-258. 

° Ad esempio, l’11 luglio 1944 a La Catena fu ucciso un graduato tedesco — i documenti e le 
testimonianze indicano un “maresciallo” — da Duilio “Giorgio” Romagnoli e Alvaro Marrucci, due 
giovani del posto che partecipavano alle attività delle bande partigiane presenti fra l’Empolese e la 
Valdelsa. I giovani erano armati e per sfuggire ad una perquisizione all’incrocio fra la Statale e la via che 
sale a Cigoli, aprirono il fuoco contro i tedeschi. I militari germanici attuarono una feroce rappresaglia. 
Furono incendiate e distrutte alcune abitazioni, ma soprattutto dieci persone furono prese in ostaggio, 
minacciate di morte per rappresaglia. Gli ostaggi furono condotti a Pontedera e poi trasferiti a Staffoli. 
Furono liberati il 17 luglio, fortunatamente senza conseguenze, a seguito del pagamento di una “riscat- 
to” di 150.000 lire da parte dell’ Amministrazione Comunale che trovò la somma necessaria grazie alla 
disponibilità della Cassa di Risparmio di San Miniato, e grazie anche alla mediazione del Vescovo Mons. 
Ugo Giubbi, di Ugo Capponi e di altre persone. SAN MINIATO 1986, pp. 136-138; CINTELLI 2005, 
pp. 19-44; MANDORLINI 2009, pp. 154-155. 

1 Il 19 luglio 1944, al Podere Pruneta II, in zona Romaiano ad est di S. Donato ed in 
prossimità dell’intersezione fra via Arginale Est e via di Ventignano, diverse persone avevano 
trovato ospitalità presso la famiglia di Quirino Vanni. Al passaggio di una pattuglia tedesca, 


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La strage di Valicandoli — 20 luglio 1944 





Nel frattempo, i Blue Devils dell’ 88th Divisione della fanteria americana era- 
no giunti fra la Valdegola e la Valdichiecina. Il 349° Infantry Regiment, partendo 
da Palaia, il 18 luglio aveva preso Montebicchieri (I° Battaglione), Balconevisi 
e Bucciano (II° e III° Battaglione), salvo poi spostarsi verso l’obiettivo San Mi- 
niato che raggiunse solamente il 24 luglio". Il 351% Infantry Regiment, partendo 





le persone che si trovavano davanti all'abitazione fuggirono e cercarono di nascondersi. I 
militari, insospettiti dal comportamento delle persone, aprirono il fuoco. Morirono Gino 
Luperi di 40 anni, residente a S. Romano e coniugato con Elena Maffei, e Ascanio Masini 
di 11 anni, originario di S. Croce sull’ Arno [ASCSM, CDVB; cfr. San Donato 2010, pp. 
655-656]. Il 22 luglio Pellegrino Franchini di 56 anni, abitante a Roffia e coniugato con 
Maria Prosperi, fu ucciso davanti la sua abitazione presso l'intersezione fra via Erti e via On- 
traino. Il 23 luglio Giovanni Mori di 59 anni, abitante a Roffia e coniugato con Margherita 
Mori, fu ucciso dai militari germanici in un campo vicino via Erti, presso la ferrovia che aveva 
appena attraversato [ASCSM, CDVB; APROE, Libro dei Morti, anno 1944; cfr. MAGNANI 
1994, p. 120]. Il 25 luglio perse la vita Pietro Giraldi di 44 anni coniugato con Giuseppa 
Ricci e padre di tre figlie. Abitava a Ponte a Egola, in una casa colonica nei pressi della linea 
ferroviaria. A turno con i fratelli, si recava quotidianamente presso l'abitazione per nutrire 
e provvedere alle necessità degli animali. Consapevole del pericolo, riteneva importante di- 
fendere il proprio lavoro e gli animali che erano preziosi per il sostentamento della famiglia. 
Fu sorpreso da alcuni militari tedeschi, che si erano ritirati a nord della ferrovia e fu ucciso 
[ASCSM, CDVB; testimonianza della nipote Marina Rofi, raccolta dal sottoscritto in data 
23 aprile 2018]. Il 29 luglio perse la vita Santi Guazzini di 39 anni, abitante all’Ontraino 
e coniugato con Bianca Nuti, trattorista presso la Fattoria della Badia di S. Gonda a La 
Catena. Sfollato con la famiglia in Loc. Volpaio, aderì al gruppo di S. Miniato Basso che 
faceva capo alla Formazione Partigiana “Corrado Pannocchia”, operante fra Ponte a Egola, 
Cigoli, La Catena e in Valdegola. Con un cugino, il 29 luglio oltrepassò la linea della Ferrovia 
per controllare lo stato dell’abitazione familiare. Giunto in via Candiano, lungo il rio Santa 
Maria, all'altezza della casa colonica “Maccarani” fu colpito da colpi d’arma da fuoco sparati 
da una pattuglia tedesca lì appostata. Il cugino si salvò. Il corpo fu rinvenuto il 2 settembre 
successivo, quando le persone del posto poterono rientrare alle proprie abitazioni [ASCSM, 
CDVB; APSMB, Libro dei Morti, anno 1944; cfr. NiccoLaI 2013, pp. 78-79]. La famiglia di 
Vasco Chini abitava in località Paesante, fra Molino d’Egola e il Palagio, nella parrocchia di 
Cigoli. Durante i giorni del passaggio del fronte, i Chini accolsero diverse famiglie sfollate, 
fra cui i Fanciullacci e i Taddei che abitavano all’Ontraino ed erano stati costretti a lasciare le 
proprie abitazioni. Fu così che la mattina del 30 luglio, Vasco Chini di 29 anni, accompagnò 
Angelo Fanciullacci, Duilio Taddei, di 32 anni e coniugato con Tosca Chini, e Luigi Neri di 
24 anni attraverso la zona interdetta per verificare lo stato delle abitazioni e degli animali in 
via Candiano all’Ontraino. Arrivati nella strada di casa da via Asmara, si avvicinarono alle 
rispettive case, passando all’interno dell’alveo del Rio di Santa Maria, da ovest verso est, in 
modo da rimanere seminascosti. Si fecero loro incontro due militari tedeschi che aprirono 
il fuoco contro di loro, ma non li uccisero sul momento. Luigi Neri fu l’unico che riuscì 
a fuggire, raccontando ai familiari quanto accaduto. Vasco Chini, Angelo Fanciullacci e 
Duilio Taddei furono catturati, seviziati e uccisi. I corpi furono rinvenuti il 5 settembre, in 
avanzato stato di decomposizione, all’interno della concimaia di un'abitazione situata presso 
via Asmara, non lontano dal cosiddetto “chiesino del Mori”, il piccolo oratorio dedicato a 
S. Marcellino [ASCSM, CDVB; APSMB Libro dei Morti, anno 1944; cfr. NICCOLAI 2013, 
pp. 80-86; cfr. Morino D’EGOLA 2015, 234-236]. Il 2 agosto successivo, presso l'ingresso del 
Cimitero di Roffia, fu ritrovato il cadavere di Luigi Costagli di 73 anni, abitante a Roffia e 
coniugato con Isolina Ciampi, ucciso verosimilmente perché sorpreso nella zona interdetta 
[ASCSM, CDVB; doc. 6; APROE Libro dei Morti, 1944; cfr. MAGNANI 1994, p. 120]. 
n NARAW, H349IR, pp. 15-20. 


437 


Francesco Fiumalbi 





da Partino, il 18 luglio aveva posto il controllo su Montopoli (II° Battaglione), 
Marti (III° Battaglione) e sulla zona a sud di Varramista (I° Battaglione). La not- 
te fra il 22 e il 23 luglio gli statunitensi del 351% arrivarono a (III° 
Battaglione) e ai Casotti (II° Battaglione), mentre San Romano rimase occupata 
dai tedeschi della 26. Panzer-Division almeno fino al 25 luglio successivo!?. Il 
350% Infantry Regiment, invece si mosse verso Montaione e poi fra Collegalli, 
Corazzano e Balconevisi, rimanendo in posizione difensiva e occupandosi della 
bonifica di mine e trappole esplosive”, agendo anche a supporto del Ramey Task 
Force, un reparto di formazione americano, frapposto tra l’88* e i reparti francesi 
che risalivano la Valdelsa!*. Il fianco occidentale dell’avanzata verso l'Arno, corri- 
spondente alla Valdera e alle Colline Pisane, era occupato dalla 91% US Infantry 
Division “Powder River”. 

Nello scarto temporale che va dal 19 al 23 luglio gli statunitensi subirono una 
battuta d’arresto dovuta, da una parte all’energica difesa tedesca e, dall'altra, per 
concedere qualche giorno di riposo ai reparti di fanteria che dalla presa di Volter- 
ra (9 luglio) avevano combattuto senza sosta. In ogni caso, a fronte dell’inerzia 
delle fanterie, da entrambe le parti fervevano le sortite delle pattuglie e, soprat- 
tutto nel campo statunitense, vennero intensificate le attività dalar iglica oltre 
alle incursioni aeree sia americane che inglesi!°. Fra il 18 e il 25 luglio il crinale 
di San Romano, fra l’Angelica e i Casotti, fu tempestato dal fuoco dell’artiglie- 
ria statunitense del 338° Field Artillery Battalion, assegnato in supporto al 351“ 
Infantry Regiment”. Negli stessi giorni le bocche di fuoco del 337°", che agivano 
a favore del 3498, colpirono la er pedecollinare fra Ponte a Egola e La Scala. 
L'obiettivo era quello di colpire le immediate retrovie tedesche ed interrompere i 
canali di rifornimento, su tutti la Strada Statale n. 67 7osco-Romagnola Est®*. 


12 NARAW, H351IR, pp. 16-18; cfr. BISCARINI MANDORLINI NICCOLAI 1998, pp. 37-57. 
13 NARAW, H350IR, pp. 15-20. 
Sulla presenza del Corpo di Spedizione Francese in Toscana si veda BISCARINI 1991. 

5 ROBBINS 1947, pp. 51-76; STARR, 1948, pp. 287-292; STROOTMAN 1947, pp. 36-43. 

16 A partire dall’aprile del 1944 i cacciabombardieri statunitensi P47 Thunderbolt cominciaro- 
no ad attaccare quotidianamente le vie di comunicazione toscane, ed in particolare le strade e le ferrovie. 
La base di partenza era la Corsica liberata: dall Aeroporto di Bastia e dalla base di Alto (oggi dismessa). 
L'attività dell'aviazione alleata proseguì anche nei mesi successivi all Operation Strangle e supportò 
l'avanzata dei reparti di fanteria a nord di Roma. 

«On July 21st. we were in position south of the town of San Miniato which straddled 
highway 67. Our forces were regrouping for the final, direct assault on the Arno River and plans 
were initiated to prepare for what had all the earmarks of a difficult crossing» PrRAINO OsTRICH 
1945, p. 36. Dal Libro dei Morti della Parrocchia di San Romano, apprendiamo che molte 
persone persero la vita a causa dei cannoneggiamenti statunitensi. Il 21 luglio morirono i 
coniugi Eliseo Pupeschi e Gabriella Bonaccini, rispettivamente di 86 e 82 anni, a seguito 
del crollo della casa dovuto ad un cannoneggiamento. Il 22 luglio morì Pietro Costagli, di 
57 anni, a causa delle ferite riportate per lo scoppio di un proiettile d'artiglieria pesa sua 
abitazione ai Casotti. Il 25 luglio morirono Bracci Cesira, di 68 anni, e Paris Iacopini, di 67 
anni, per il crollo delle rispettive abitazioni situate ai Casotti e all Angelica. APSRO, Libro dei 
Morti, anno 1944; ed. Biscarini MANDORLINI NICCOLAI 1998, pp. 137-140. 

18 We LEFT HOME 1945, pp. 30-31. Il 18 luglio perse la vita Isola Gargani, di anni 69, 
coniugata e abitante a Santa Croce Sull’ Arno, ma sfollata a Cigoli. Fu colpita mortalmente da 
una scheggia di un ordigno sparato dall’artiglieria statunitense. Il giorno successivo, sempre 


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La strage di Valicandoli — 20 luglio 1944 





Le attività dell'artiglieria e dell'aviazione statunitense proseguirono fino al 
giorno 23 luglio. Nel frattempo, i reparti tedeschi, prima di oltrepassare l'Arno, 
iniziarono a confluire nella piana sanminiatese, occupando un gran numero di 
abitazioni: in questo modo si misero a riparo dalle incursioni aeree, confonden- 
dosi con la popolazione civile, ed ebbero di che rifocillarsi, razziando le gli anima- 
li ai contadini. Tutte queste circostanze fecero propendere, molte delle persone 
già sfollate dopo il 15 luglio, a trovare una nuova sistemazione più sicura. Non 
potendo muoversi a nord, a causa dell’interdizione, parve naturale allontanarsi 
dalle principali vie di comunicazione per trovare riparo sulla collina di San Mi- 
niato, se non proprio all’interno della città”. 

Fu così che un gruppo di persone, perlopiù provenienti da Isola, il 19 luglio, 
decise di allontanarsi da La Scala e dall’ormai pericolosa 7osco-Romagnola Est, per 


presso Cigoli, a causa delle ferite riportate dall'esplosione di un proietto, perse la vita Pietro 
Casalini, di 70 anni, coniugato con Felice Guerrieri. [ASCSM, CDVB; APCIG, Libro dei 
Morti, anno 1944; UGOLINI 1997, pp. 59-60; GIANI 2003, p. 171; CINTELLI 2005, pp. 77]. Nella 
porzione occidentale di San Miniato, nel “popolo della Crocetta”, a causa di un cannoneggia- 
mento statunitense persero la vita Giovanni Taddei di 19 anni Ferdinando Capecchi di 19 
anni, entrambi celibi, Natalina Taddei di 25 anni sposata con Gino Vedovi, Luigi Taddei di 
36 anni e coniugato con Adele Toni, Gino Toni di 45 anni, assieme al padre Luigi Toni di 74 
anni e coniugato con Enrichetta Don, oltre ad Attilio Vitali di 62 anni coniugato con Consilia 
Caioli [AAESM, Fondo Galli Angelini, n. 69, Note di diario del canonico Francesco Maria Galli 
Angelini; ed. in MANDORLINI 2009, p. 176; SI veda inoltre ASCSM, CDVB; ASVSM, Parrocchia 
della SS. Annunziata alla Crocetta, n. 91, Libro dei Morti, anno 1944]. 

19. Questo è ciò che fece, ad esempio, la famiglia di Nello Mori che da Isola si spostò inizialmente 
presso La Scala e poi a Valicandoli, si veda la lettera proposta in Appendice. Chi raggiunse San Miniato, 
poté trovare ospitalità anche presso le grandi strutture conventuali di San Domenico e San Francesco. 
Molti abitanti di Ontraino, Roffia, Isola e La Scala (compresa anche la zona verso San Miniato Basso 
che all'epoca ricadeva nella parrocchia di San Lorenzo a Nocicchio), infatti, la mattina del 22 luglio si 
trovavano in Cattedrale. Qui morirono i coniugi Giuseppe Arzilli Giuseppa Valleggi entrambi di 
65 anni provenienti da Isola. Anna Bernetti di 49 anni coniugata con Gino Capperucci, era originaria 
di Grosseto, ma residente a Isola. Rimase vittima dell'esplosione assieme ai figli Dino Capperucci 
di 14 anni e Sonia Capperucci di 24 anni, oltre alla madre Benedetta Bellini di 76 anni, spirata 
in ospedale il 1 agosto successivo. Sfollati a S. Miniato, provenivano da Isola anche i fratelli Reno 
Sottani di 19 anni e Pierluigi Sottani di 14 anni, figli di Nello e Maria Nacci, i quale avevano perso 
il padre durante un'incursione aerea alleata il 2 luglio precedente. Zemira Boldrini di 52 anni, figlia 
di Fernando, coniugata con Luigi Fontana, abitava a Isola in “Dogaia”, morì assieme alla figlia Bruna 
Fontana di 19 anni d’età. Ad Isola abitava anche Francesco Gasparri di 17 anni e sfollato nel Ca- 
poluogo assieme ai familiari. Proveniente da Ontraino, ma sfollata a causa dell’interdizione della zona 
dell’ Arno, morì in Cattedrale anche Agar Franchi di 52 anni vedova di Giuseppe Santarnecchi. Da 
La Scala provenivano Ersilia Taddei di 72 anni, vedova Ceccatelli, spirata all’ospedale cittadino il 24 
luglio ed Annunziata Giglioli di 70 anni, figlia di Ferdinando, coniugata Scardigli, sfollata presso il 
convento di S. Francesco assieme ai familiari. La mattina del 22 luglio 1944 si trovava nella Cattedrale 
dove morì assieme a tre suoi nipoti: Adriana Scardigli di 9 anni, Corrado Scardigli di 13 anni e 
Lilia Scardigli di 21 anni, figli di Silvio Scardigli e residenti nella Parrocchia di S. Lorenzo a Nocic- 
chio, ma anch'essi sfollati nel convento francescano. Dalla parrocchia di Nocicchio provenivano Cesare 
Gori di 83 anni, figlio di Giuseppe e Vittorio Faraoni di 46 anni, quest'ultimo spirato in ospedale il 
15 agosto successivo. Anche Quintilia Rossi di 66 anni, figlia di Angelo, proveniva da La Scala 
era coniugata Criachi. Ed ancora, dalla parrocchia di S. Lorenzo provenivano Giulia Ceccatelli di 
59 anni coniugata Faraoni e Amelia Spagli di 57 anni coniugata Ulivieri. [ASCSM, CDVB APISO, 
Libro dei Morti, anno 1944; APSMB, Tiro dei Morti, anno 1944; NICCOLAI 2013, p. 57]. 


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Francesco Fiumalbi 





arrivare in Loc. Valicandoli, una rientranza orografica di poco a nord-est rispetto 
al Convento dei Cappuccini, fra San Miniato e Calenzano. Qui furono accolti 
da Angiolo Rossi, imparentato con alcuni di essi, che mise a disposizione due 
capanne per i diversi nuclei familiari, che in totale dovevano essere oltre venti 
persone. Dopo aver trascorso la prima notte relativamente in tranquillità, la mat- 
tina seguente gli sfollati erano intenti a provvedere alla propria sistemazione ed a 
cucinare all’aperto. 

Fra le ore 9.00 e le ore 10.00 del 20 luglio 1944 iniziò un violento cannoneg- 
giamento che irruppe nell’improvvisato accampamento. Non è chiaro il motivo 
di tale attività da parte dei cannoni americani, ma è ragionevole supporre una 
segnalazione da parte di un ricognitore aereo che forse aveva scambiato il gruppo 
di persone per un appostamento tedesco. In ogni caso, un proietto d’artiglieria 
statunitense cadde proprio in mezzo alle due capanne e fu una strage. Tra i primi 
soccorritori, giunse sul posto Padre Teofilo Dal Pozzo, padre cappuccino, che dal 
vicino convento vide la pioggia di proietti cadere nella valletta di Valicandoli. La 
scena che gli si parò davanti agli occhi fu terribile. 

Quella mattina a Valicandoli rimasero uccise sei persone, tutte residenti a 
Isola: Giovanni Bianchi di 13 anni, figlio di Renato ed Elvira Beninsegni; Elena 
Cei di 31 anni, figlia di Egisto e Maria Sforzi, coniugata con Pietro Ciofi; Na- 
talina Mori di 45 anni, figlia di Cesare e Maria Mori, coniugata con Guglielmo 
Nacci; Lina Rossi di 20 anni, figlia di Enrico e Adelia Dani; Annina Scarselli 
di 40 anni d'età, figlia di Ottaviano ed Ester Zingoni, coniugata con Giuseppe 
Salvadori; Adelindo Scarselli di 19 anni, figlio di Ferdinando ed Amelia Scali, 
morto all ospedale allestito dalla Croce Rossa presso la Fattoria di Sassolo, vicino 
Bucciano il successivo 27 luglio”. 


APPENDICE 

Lettera di Padre Teofilo Dal Pozzo, del Convento dei Cappuccini di S. Mi- 
niato, circa l’assistenza prestata ai parrocchiani di Isola, che restarono uccisi 
o feriti in Valicandoli, conservata presso l'Archivio Storico Vescovile di San 
Miniato [ASVSM, n. 55, 1940-1945, 2° Guerra mondiale, Periodo di emer- 
genza (San Miniato e Diocesi) Luglio-Agosto °44] 


J.MJ. Dal Convento, 21 VII 1944 


Rev.mo Signor Canonico, 

ignorando l’attuale abitazione di suo fratello Don Aldo, faccio a Lei una breve 
relazione del bombardamento o meglio cannoneggiamento avvenuto ieri in Vali- 
candoli e che ha fatto vittime e feriti fra persone della Parrocchia di Isola sfollate 
presso parenti. 

Ieri verso le 10 furono sparate varie cannonate che andarono tutte a scoppiare 
in Valicandoli e che ha fatto vittime e feriti fra persone della Parrocchia di Isola 
sfollate presso parenti. Il numero straordinariamente elevato di sfollati e ricovera- 
ti in quella valle dette forse l'impressione di un accampamento tedesco e provocò 


2°. Sulla morte di Adelindo Scarselli rimane anche la testimonianza del parroco di Buc- 


ciano, pubblicata in BuspRAGHI 1996, p. 39. 


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La strage di Valicandoli — 20 luglio 1944 





il tiro delle cannonate. Fin dalla prima ebbi il presentimento che doveva essere 
successo qualcosa di grave perché quella gente si sentiva sicura e ben difficilmente 
se ne stava nei rifugi. Cessato il cannoneggiamento mi precipitai della valle e 
purtroppo vi trovai morti e feriti. Varie bombe caddero in aperta campagna e 
non provocarono danni né alle persone né agli stabili. Una invece cadde fra due 
capanne dell’agricoltore ROSSI ANGIOLO della parrocchia di Calenzano. Sotto 
queste capanne e nelle adiacenze stavano vari sia per attendere alla cucina, sia per 
svago. Qui purtroppo si hanno a lamentare le vittime e feriti. 


Eccole l’elenco completo dei MORTI: 

1- SCARSELLI ANNINA, nei Salvadori, di Isola, nata nell’anno 1904. Morì 
dopo aver ricevuto in piena conoscenza l’assoluzione, benedizione apostolica ed 
estrema unzione in fronte. 

2 — BIANCHI GIOVANNI di Renato di Isola, dell’anno 1931. Lo trovai 
morto perché ebbe da una scheggia il cranio aperto mentre stava su di una ficaia 
dietro la capanna. Gli diedi assoluzione ed estrema unzione “sub conditione”. 

3 — MORI NATALINA nei Nacci, di Isola. Anch'essa la trovai morta e in uno 
stato che faceva orrore: tutto il corpo crivellato, le vesti strappate, la faccia nera 
e ricoperta di uno strato di polvere. Anche ad essa detti assoluzione ed estrema 
unzione “sub conditione”. 

4 — CEI ELENA nei Ciofi, di Isola. Non ricordo bene, ma mi pare avesse le 
gambe spezzate e molte altre ferite che cagionarono subito la morte. 

5 — ROSSI LINA di Enrico, di Isola, nata nel 1924, sfollata presso Rossi An- 
giolo, (come le vittime precedenti). La trovai ancora viva: aveva i lacerato. 
Appena capiva e spiccicava qualche monosillabo. Le diedi assoluzione, benedi- 
zione apostolica ed estrema unzione in fronte. Morì allo Spedale di S. Miniato 
ieri sera. 


Ecco ora la lista dei feriti: 

1 — Scarselli Adelindo di Ferdinando, di Isola, del 1924, sfollato presso Rossi 
Angiolo. Ferito al braccio (completamente rotto) e alle gambe. Ebbe assoluzione, 
benedizione apostolica ed estrema unzione in fronte. Fu portato allo Spedale. 

2 — Brogi Maria nei Rossi di fu Angiolo, di Isola, del 1896. Ferita non grave. 

3 — Rossi Rossana di Faustino, di Isola, del 1927. Ferita non grave. 

4 — Vi sono poi due ferite di Calenzano, ma lievissime ferite e cioè: 

Rossi Rosa fu Luigi, di anni 66 e Rossi Anna di Attilio, di mesi 8. 

4 — Rossi Leopoldo di Venturino, di Isola, del 1927? Ferito non grave. 

Non so se vi siano altri feriti: io ne feci ricerca ma trovai, oltre quelli elencati, 
solo un povero vecchietto ferito ad una mano e nascosto in un rifugio. Ma per la 
fretta di andare ad assistere chi ne aveva più bisogno non presi i suoi connotati e 
non so chi sia. Si tratta di ferite lievi. 

Scarselli Adelindo fu trasportato, dopo alcuni giorni, dall’ Ospedale nell’Ospe- 
daletto Americano presso Bucciano, ove morì il 27.7.44. 


Ieri sera, circa le ore 18, tornai in Valicandoli a benedire le salme. 

Quella di ELENA CIOFI era già stata portata ad ISOLA. 

Credo che stamani con un carretto abbiano portato ad Isola anche le altre 
salme, oppure al Cimitero di S. Pietro, a meno che i parenti non abbiano messo 


441 


Francesco Fiumalbi 





in esecuzione un loro primitivo disegno (che cercai di eliminare) di seppellire cioè 
le salme in un campo e a tempo opportuno fare la esumazione. 

Questo ciò che ho saputo io. 

Può darsi benissimo che non tutto sia esatto, giacché subito dopo il bom- 
bardamento, io correvo per assistere i feriti e le notizie e connotati li presi solo 
ieri sera, ma lei capisce de la gente era stordita; i parenti nel pianto, e così potei 
raccogliere solo quanto a Lei ho esposto. Questa mattina io ho celebrato “in die 
obitus”, al Convento, la S. Messa per tutte queste vittime. Avevo intenzione di 
celebrare a Calenzano e invitare i fedeli, ma a Calenzano le case sono tutte vuote, 
la gente vive giorno e notte nei rifugi. Andato stamani alla Chiesa, non ho trovato 
nemmeno i parenti del Priore fuggiti non so dove perché sono state piazzate delle 
mitragliatrici. 

Abbia bontà di riferire tutto questo a Suo fratello Don Aldo. 

Mi raccomandi al Signore e si abbia tanti saluti ed ossequi. 


Dev.mo 


Padre Teofilo Dal Pozzo 


Estratto da diario di Giuseppe Busdraghi, parroco di San Regolo a Buc- 
ciano, testimone della morte di Adelindo Scarselli [Estate di guerra a Buc- 
ciano. Diario del parroco Giuseppe Busdraghi giugno-settembre 1944, a cura 
di G. Lastraioli, C. Biscarini, L. Niccolai, E Mandorlini, FM, San Miniato, 
1996, pp. 39-40]. 


Giovedì 27 luglio 

[...] Sono stato dai Lorenzelli dove sono stato chiamato per un ferito di San 
Miniato portato con altri a Sassolo. Con dispiacere non ho fatto in tempo. Mi aveva 
chiesto lui, quindi spero che il Signore gli abbia usato misericordia. Domani verrà 


sepolto qui. |...] 


Sabato 29 luglio [...] 

Alle due sono venuti quelli della Croce Rossa americana per il trasporto del morto. 
A Sassolo ho avuto una triste sorpresa. Quel morto non è uno sfollato di Livorno, ma 
un giovane dell'Isola. Lì ci trovo la sua sorella, che lo aveva cercato tutta la mattina. 
Mi ha fatto tanta pena quella figliola. Con un camion il defunto (in avanzata de- 
composizione) è stato portato alla chiesa e di qui al cimitero. Che pena fanno questi 
trasporti in guerra. Dopo aver fatto rinfrescare la ragazza in canonica, l'ho accompa- 
gnata con degli americani a casa sua, alla Scala. [...] 


Lettera di Nello Mori alla figlia Clorinda — 20 maggio 1945 conservata 
presso Clorinda Frittelli ed Emanuela D’Agostino?!. 


21 


Nello Mori abitava ad Isola con la moglie Ida e la figlia minore Nella. L'altra figlia, Clorinda, 
invece si era sposata e si era trasferita a Torino. Per lunghi mesi, forse più di un anno, non ebbero modo di 
comunicare fra loro. Nel maggio 1945 alla famiglia Mori si materializzò un'occasione d’oro: il padre del 
sacerdote della vicina Marcignana si sarebbe recato proprio a Torino. All’uomo venne dato un foglietto 
piegato, in cui Nello comunicò alla figlia che erano salvi, bramando notizie del resto dei congiunti. 


442 


La strage di Valicandoli — 20 luglio 1944 





[1] Zola 20-5-45 Carissimi tutti, 

Dopo tanto tempo di sofrire il Buon Dio ci a ridato il mezzo di poter riscrivere. Ti 
inviamo questa lettera per mezzo del padre del Priore di Marcignana, che anche lui a 
una figlia maritata a Torino e che viene costà a trovarla. Questo uomo, tanto cortese, 
ci ha avvisato che veniva costà e se ci si aveva una lettera da mandare ce la portava 
volentieri noi abbiamo approfittato dell'occasione. Se vu avessi occasione di vederlo, 
farli tanta festa perché è un bravo uomo. 

Dunque, ora ti vogli parlare un poco di nostro passato anno. A questi giorni era- 
vamo soggetti a quei famosi bombardamenti: tutti i giorni, 4 e 5 volte a giorno ponte 
oo ponte alla Motta e ferrovia”. E si durò tanto che, credete, era un inferno 
addirittura! 

Poi da il 1 luglio a 16 luglio — che gli Alleati erano vicini a liberarci che erano 
verso Volterra che venivano — i vigliacchi tedeschi prendevano tutti gli uomini per 
farli lavorare sulla ferrovia rotta mentre bombardavano, ma noi tutti fuggiaschi, a 
scappare per canneti e per campi di granturco a giorni interi e le donne, bi nascosto, 
ci portavano da mangiare. 

Poi il 16 luglio venne l'ordine di sfollare da l'Arno alla ferrovia: non ci poteva 
sta nessuno perché era “zona di operazione”. E la domenica mattina, 16 luglio, si 
dovette abbandonare la casa portando via 4 o 5 carrettate della roba che ci premeva 
di più. Che Questo lavoro toccò a mamma e Nellina, perché gli uomini i tedeschi li 
prendevano, e si partì tutti per La Covina” da zia Maria. Lì ci si stiede 3 giorni e poi 
incominciò a venire le cannonate americane. E una sera arrivò una 10 di autoblinde 
tedesche e simpadronirono della casa e di tutto e noi il 19 si ripartì per Valicandoli. 
Noi e tutti: zio Alfredo colla sua famiglia eravamo fra tutti 2 ...*. 

[2] Valicandoli sarebbe dove sta i Bacoli sotto i Cappuccini di S. Miniato. Tut- 
ti [gli abitanti] dell'Isola scapparono: chi per la Valdevola, chi a Calenzano, chi a S. 
Miniato. Tutti si dovette andare via. Ma noi si indovinò poco bene in codesto Vali- 
candoli: si partì il 19 luglio dalla Covina co il carretto carico di tutto il necessario per 
coprirsi e per fare da mangiare e co’ Marmugio sopra e que’ 4 bambini sotto le canno- 
nate che oramai gli americani erano a Palaia che venivano. Appena arrivai si diede a 
fare rifugi sotto terra per libersi dalle cannonate, ma il giorno dopo, giorno 20 luglio, 
ce ne morirono 6 alla prima cannonata. Tutti di Lisera, che sarebbero: Natalina di 
Memo, la sarta Elena di Ciofi, Linuccia d’Enrico, Giovannino di Elvina, Lindo di 
Nandino e Rossana di Ciofi senza un braccio. E costì ci abbiamo passato 50 giorni, 
sempre a dormire vestiti sotto terra, se si volle salvare la pelle. Gli Americani arriva- 
rono a S. Miniato il 23 luglio, ma i tedeschi fecero resistenza sull'Arno e per questo 
gli Americani ci stiedero fermi fino all) 1 settembre e i tedescacci stiedero tanto tanto 
fermi all'Isola che ebbero tempo di farci tanto male. Noi tutti salvi, come pure la fa- 
miglia di zio: si rientrò a Isola il 2 settembre e si trovò l'Isola irriconoscibile. Sentite: 
il palazzo di Cantini raso al suolo, mezzo quello di Torinda, la casa di Neri, quella di 
Barbieri, fino a quella di Venturino tutto raso a suolo. Quella di Elvina e di Mario, 


22 In quei giorni ferveva l’attività dell'aviazione alleata che aveva l’obbiettivo di colpire il ponte di 
ferro della ferrovia sull Elsa, il ponte alla Motta a Marcignana sull'Arno, oltre che la linea ferroviaria. 

2 La Covina è una località nella piana sanminiatese, fra La Scala e la Dogaia, che dà il nome 
anche ad una strada che dalla Strada Statale n. 67 Tosco-Romagnola Est si immette in via Trento. 

24 In quel punto la carta è strappata, probabilmente formavano un gruppo di circa 20 persone. 


443 


Francesco Fiumalbi 





compreso fino alla macelleria e fino da il “Fava” tutto giù al suolo e più che fa effetto 
tutto il Molino e i capannoni rasi al suolo. Tutto per capriccio di quei vigliacchi tede- 
schi che vollero minare ogni cosa. Poi sull’Arno, compreso i palazzo dei sane fino 
in cima, tutto raso al suolo. Credete, che Isola è [3] irriconoscibile. Poi cè la casa dello 
Scarselli per la via di Roffia e quella di Mancini contadino di Egisto tutto giù, come 
pure il palazzo di Egisto e tutto Surarno®° tutto giù. Anche la casa di zio Tofano è 
mezza buttata giù dalle cannonate. Ma questo non sarebbe niente di fronte che pochi 
iorni fa è morto Francesco di malattia e Marina è malata all'ospedale. Anche noi ab- 
Vario subito dei danni alla Covina: i tedeschi ci presero la bicicletta di Nellina e poi 
si rivò a casa e si trovò la casa colpita da una cannonata. La tua camera era andata 
giù, compreso il tetto, ma non estate in pensiero, che abbiamo bell'e rimediato tutto. 
La bicicletta l'abbiamo rifatta nuova, sennò Nellina non poteva andare a lavorare e 
l'abbiamo pagata Lire ventiseimila e la casa l'abbiamo riaccomodata per bene e ci si è 
speso lire ventimila. Qua la roba ci è tanto cara che non vu ve ne poro fare un'idea. 
Dunque state contenti e non estate in pensiero di noi che stiamo bene. Ma speriamo 
che questa mia lettera vi trovi anche voi sani e salvi. Bisogna ringraziare Dio che 
credete, siamo salvi, ché in questo piccolo paese si passa i 30 morti causa la guerra. 
Quei tedescacci distrussero tutta la ferrovia, metro per metro, tutti i ponti della 
ferrovia e tutti i ponti delle strade: sull’Elsa non cè più un DI e sull'Arno non 
cè più un ponte. Tutti minati. Noi struggiamo dalla voglia di rivedervi e vi prego, 
appena potete, venite subito da noi, ché abbiamo tanto voglia di rivedervi colla mia 
piccola Mari” che abbiamo pregato tanto il Dio che vi salvi tutti e tre. Cara Mari, 
quando si rientrò abbiamo trovati tutte le porte aperte, ma la tua bicicletta si trovò 
in mezzo di camera sana e salva, dunque presto ti aspetto a rimontarci. Vi avrei da 
dire tante cose, ma si ragionerà a voce. Baci da mamma e Nellina. Baci da me vostro 


padre Nello. 


Testimonianza di Rossana Rossi, ferita a Valicandoli il 20 luglio 1944, 
rilasciata nel 2014 ad Alessio Guardini e Piero Nacci autori del video-docu- 
mentario “Luglio 1944-Luglio 2014. Settant'anni fa l'orrore: nessuno dimen- 
tichi”. 


Era una mattina, il 20 luglio, verso le 9. Era una bella mattinata di sole in pieno 
luglio. La mia mamma disse: «Ascolta, Rossana, guarda quanti bei fichi ci sono su 
quel fico. Se ci monti, buttamene un po giù, (che) si mangiano». 

lo montai su questo fico e ad un certo punto sentii un qualcosa addosso che non 
so descrivere: sembrava che potessi lamentarmi, ma la voce non mi veniva. Almeno 
credo. E questo me lo dimostrò mio fratello: «Che è successo? Mamma mia! E vide 
i morti e più gli fece effetto il povero Giovannino (colpito alla testa) che aveva una 
parte del cervello che glielo aveva portato via. E cercava mia mamma: «Mamma, 
mamma!». Mia mamma non gli rispondeva, era a terra, anche lei ferita: una scheggia 


2 “Fava” era il soprannome di Eugenio Scarselli, abitante di Isola e di professione faceva il navi- 


cellaio sull’Elsa. 

26. “Surarno” è la zona prossima all’Arno, ad ovest di Bocca d'Elsa, dove erano presenti un gruppo 
di abitazioni. 

2 Si tratta della nipotina Marilena Frittelli. 


444 


La strage di Valicandoli — 20 luglio 1944 





le entrò qui (davanti al petto) e le uscì di dietro. Per fortuna non toccò il cuore ed è 
sopravvissuta. 

E io vedevo mio fratello che mi cercava: «Rossana, dove sei?» E piangeva disperato. 
Poi arrivò sotto il fico e sentì delle gocce: «che fa piove». Ero ancora sul fico che non 
potevo chiamare. E allora lui sentì queste gocce, si toccò (e vide che era sangue), alzo 
lo sguardo: «Oddio! Dov'è mia a È così andai all'ospedale, il 20 luglio. 

L'ospedale si riempì in un baleno. C'era anche Lina (Rossi), sorella del Maso, che 
morì, mi sembra, la notte o il giorno dopo. Adelindo (Scarselli) fu portato all'ospedale 
anche lui. Il 22 luglio pe successe il fatto del Duomo, arrivarono moltissime perso- 
ne. Ci tolsero tutti dalla corsia e ci portarono giù negli scantinati con le brandine. 
E poi vennero gli americani e, 0 bene 0 male, ci portarono via, perché i medicinali 
nell'ospedale erano finiti. Io avevo già un principio d'infezione e dei mosconi che mi 
ronzavano intorno. Ci portarono a Volterra. Io stetti lì e ritornai ad ottobre. E in casa 
mia non seppero mai dov'ero. 

Mia mamma (nei mesi successivi) ritornò all'ospedale per un problema (sempre 
legato alla scheggia) e nel mentre arriva un'infermiera che dice: «Ma che gente c'è nel 
mondo? C'è una povera bambina a Volterra che piange. Chiama mamma, ma non 
ha visto nessuno. To pagherei a sapere di chi è figliola!». Mia mamma che camminava 
già, a sentire quel (discorso) lì... boom in terra! Gli prese un “infarto” (svenne). E 
l'infermiera fu brontolata: «Guarda che lei cerca la sua figliola, non sa dov'è!». Questa 
qui poverina si sentì (d'aver fatto) male, ma ormai l'aveva detto. Allora (mia mam- 
ma) gli disse a mio fratello, quando arrivò da lei: «Guarda, vedrai hanno trovato 
Rossana! Probabilmente è a Volterra nel tal ospedale». Mio fratello, non c'era verso, 
prese la bicicletta e venne a Volterra e mi trovò. — 

[...] Sapete dove è morto Scarselli Adelindo? E morto n la strada mentre gli 
Americani ci portavano a Volterra. Questo ragazzo, guarda che mi commuovo ancora, 
perché io avevo 10 anni e mezzo, quindi ero già grande, mi faceva: «Oh Rossana, 
muoio, diglielo a mio babbo che sono morto a Bucciano!». 


Fonti archivistiche — Elenco abbreviazioni 


AAESM = Archivio dell’Accademia degli Euteleti della Città di San Miniato 
ASCSM = Archivio Storico del Comune di San Miniato 
CDVB = ASCSM, Carteggio per Categorie, 1945, F200 S062 UF184, fasc. 
Atti del Comune già carte raccolte dall'assessore Renzo Caponi. Ma- 
teriali originali eccidio Duomo. Relazione Giannattasio e altro, doc. 
Cittadini deceduti per vicende belliche durante il passaggio del fronte 
da San Miniato — periodo dal 12-2-44 al 17-10-45. 
ASVSM = Archivio Storico Vescovile di San Miniato 
APROF = Archivio della Parrocchia di San Michele Arcangelo di Roffia 
APSMB = Archivio della Parrocchia dei SS. Martino e Stefano di San Miniato 
Basso 
APSRO = Archivio della Parrocchia “La Madonna” di San Romano 
APISO = Archivio della Parrocchia di San Donato a Isola 
NARAW = National Archives and Records Administration, Washington 
H349IR = Record Group 388 — Records of U.S. Army Operational, Tactical, 
and Support Organizations (World War II and Thereafter), Series 


445 


Francesco Fiumalbi 





Unit Histories, 349" Infantry Regiment, History of the 349" Infan- 
try Regiment — 88" Infantry Division for the month of July 1944. 

H350IR = Record Group 388 — Records of U.S. Army oa Tactical, 
and Support Organizations (World War II and Thereafter), Series 
Unit Histories, 350% Infantry Regiment, History of the 350° Infan- 
try Regiment — 88" Infantry Division for the month of July 1944. 

H351IR = Record Group 388 — Records of U.S. Army Operational, Tactical, 
and Support Organizations (World War II and Thereafter), Series 
Unit Histories, 351° Infantry Regiment, History of the 351” Infan- 
try Regiment — 88" Infantry Division for the month of July 1944. 


Bibliografia 


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siva mancata per difetto di offensiva), «Bullettino Storico Empolese», nn. 7-8, 
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446 


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zione Melograno, Parrocchia di San Quintino Martire in San Donato di San 
Miniato, Ed. Tip. Palagini, San Miniato, 2010. 

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Biblioteca Comunale di San Miniato, Giardini Editori, Pisa, 1986. 

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Milano, 1945. 

Von SENGER F und Etterlin, La guerra in Europa, trad. It. a cura di G. Cuzzelli, 


Longanesi, Milano, 2002, (orig. Der Krieg in Europa, Verlag Kiepenhueuer & 
Witsch, Köln, 1960). 


447 


Francesco Fiumalbi La strage di Valicandoli — 20 luglio 1944 








Bianchi Gbvanni 


= 


FE 





Fig. 1: Ľarea compresa fra lElsa e San Romano, dove l’esercito tedesco organizzò la difesa sulla Fi 
senbabndammilinie, la linea del rilevato ferroviario, con evidenziata la zona sottoposta ad interdizione. 
Sono indicate anche le direzioni dello sfollamento, rispetto anche alla zona di Valicandoli, dove avvenne 
la strage del 20 luglio 1944. Base cartografica Carta Topografica 1:50000, Geoscopio, Regione Toscana. 


I 
da 
af 


AMENTO 





Scarselli Annina 





Fig. 2: Ľarea dove avvenne la strage il 20 luglio 1944, in Loc. Valicandoli, a sud-est di San Miniato, Fig. 3: Le vittime della strage del 20 luglio 1944 in Valicandoli. Non è stato possibile rintracciare una 
fra I Cappuccini e Calenzano. Base cartografica Carta Tecnica Regionale 1:10000, Geoscopio, Regione fotografia di Annina Scarselli. Le altre immagini sono state individuate e messe a disposizione da Alessio 
Toscana. Guardini e Piero Nacci. 


448 449 


BAMBINI IN CAMICIA NERA. La guerra e la caduta 


del Fascismo viste con gli occhi di un bambino 





GIUSEPPE CHELLI 


La pluriclasse di Roffia 

Sono nato a San Miniato, ma ho vissuto la mia fanciullezza, tra il colle e l’argi- 
ne Sud dell’ Arno, a Roffia. Lì ho fatto le mie prime esperienze, a contatto diretto 
con la natura e con la vita di campagna, ben diversa da quella che si viveva sul 
colle di San Miniato. I figli dei contadini furono i miei primi compagni di giochi, 
condividendo ogni cosa, anche i piccoli lavori che venivano loro affidati: portare i 

olli al capanno, governare gli animali da cortile, tirar via dalle zolle i beci durante 
k arature, isola frutta e verdura, andare a far arselle in Arno, oltre a fare gli 
stessi giochi che in seguito, un po’ più grandicello, feci a San Miniato: le corse 
col carretto, rimpiattino, le pallate di neve, arrampicarsi sugli alberi, e tanti altri 
ancora. 

Il mio primo ricordo di un contatto col regime fascista risale al 1939, l’anno 
in cui cominciai ad andare a scuola. Degli anni precedenti non è rimasto niente 
nella memoria, se non la sbiadita immagine di un fantoccio tutto nero portato 
per le vie di San Miniato e bruciato nottetempo. Forse rappresentava il Negus 
Hailé Selassié, sconfitto nella guerra di Abissinia del 1936: avevo appena tre anni! 

Ho frequentato a Roffia ib primo triennio delle elementari. Dopo l’esame di 
terza, le ultime due classi le ho fatte a San Miniato. A Roffia c'era una sola plu- 
riclasse mista del corso elementare inferiore. Laula si trovava esattamente sopra 
il Circolo Ricreativo, al primo piano dell’edificio che c'è ancora oggi in via San 
Michele. All’aula, uno stanzone rettangolare con due finestre, una sul lato Sud, 
l’altra che dava sulla via, dietro la cattedra della maestra, si accedeva da una lunga 
scala esterna in vetta alla quale c'era il gabinetto. In fondo all'aula c'erano gli 
attaccapanni, la stufa in terracotta rossa, spesso alimentata dalla legna che ogni 
alunno portava da casa, e sulla parete Nord una grande carta geografica dell’Italia 
e la lavagna. I banchi di legno, a due posti con il piano ana e alzabile per 
metterci dentro le cartelle ti cartone, erano vecchi e tutti tagliuzzati dal pluride- 
cennale lavorio dei temperini dei ragazzi. 

La nostra maestra era la signorina Luigia Simoncini, che ogni giorno, con 
qualsiasi tempo, si faceva a piedi i quasi otto chilometri dalla sua casa di Sant An- 
drea in San Miniato fino a Roffia (e ritorno), trattenendosi fino al pomeriggio, 
credo perché la terza classe aveva il secondo turno. Non ricordo che A maestra si 
dilungasse in apologie del regime, ma in molte parti del libro di testo venivano 

roposti brani e immagini inneggianti ai modi di vita cari al sistema ideologico 
E l'amor di patria, il coraggio e l’eroismo, la bellezza del lavoro, l’amore 
familiare, l'obbedienza ai superiori. Vedo ancora l’immagine dell’aratro con il vo- 
mere lucido, per illustrare vividamente il concetto che il lavoro rende belli e forti 
a differenza d vomere inattivo che viene corroso e consumato dalla ruggine, e 
porta fame e miseria. In queste letture era spesso additata a esempio la fierezza 


451 


Giuseppe Chelli 





del bambino che compiva azioni coraggiose o la modestia delle bambine che 
accudivano la loro casa e curavano i fiori, le piante e gli alberelli del giardinetto 
attorno ad essa. 

Ogni mattina, prima di iniziare la lezione, veniva distribuito a tutti un cuc- 
chiaio di olio di fegato di merluzzo, e subito dopo una tazza di latte bello caldo, 
che Pia di Mero, la moglie del carraio che aveva la bottega accanto alla scuola e 
che faceva la bidella, riscaldava in un pentolone a casa sua. Ci dicevano che ce lo 
mandava il Direttore da San Miniato per farci crescere sani, e con ossa robuste! 

Il sabato, chiamato sabato fascista, la maestra pretendeva, secondo le disposizio- 
ni superiori, che si andasse in classe, a seconda dell'età, con la divisa da Figli della 
lupa (prima e seconda classe) o da Balilla (terza). Per i Figli della Lupa la montura 
era questa: scarpe nere, calzettoni grigioverde con risvolti neri fino al ginocchio, 
pantaloni grigioverde corti, camicina nera con il cinturone bianco su cui si racco- 

lievano le due bretelle bianche incrociate. Nel mezzo alle bretelle una M di metallo 
fido, mentre in testa era d'obbligo portare il fez, un cappello nero con una nappa 
appesa a un cordoncino e in fronte un piccolo simbolo dorato: la lupa che allatta 
Romolo e Remo. Anche le bambine di prima e di seconda, le Figlie della Lupa, ave- 
vano la loro montura. Scarpe con il laccio sulla fiocca, calzettoni bianchi, sottanina 
scura (blu/nero), camicetta bianca con il ricamo della M sopra i colori della GIL 
(Gioventù Italiana del Littorio) e un fiocco bianco in testa. 

Dalla terza classe si indossava la montura da Balilla o da Giovane italiana. Per 
i maschi, al posto del cinturone e delle bretelle c'era al collo un fazzoletto celeste, 
con le cocche infilate davanti in un anello con la testa del Duce con l’elmetto. Sul 
fez, anziché la lupa, laquila imperiale. Le bambine avevano la gonna blu pieghet- 
tata e invece del fiocco portavano un basco di feltro blu sulle ventitré. 

Ogni sabato, appena arrivati davanti la scuola, la maestra ci radunava in fila 
per due e si saliva in classe cantando Giovinezza, giovinezza, / primavera di bel- 
lezza. Dopo la consueta preghiera, si ascoltavano le trasmissioni di La Radio per 
le scuole, e si cantavano canzoni inneggianti al Duce e al regime, oppure si legge- 
vano racconti di carattere patriottico ed altre storie edificanti dal libro Cuore di 
De Amicis: La Piccola vedetta lombarda, Il Tamburino sardo, Garrone il gigante 
col cuore d’oro, Dagli Appennini alle Ande, Il Piccolo scrivano fiorentino. Finite le 
letture, era la volta della ginnastica. Se pioveva o era troppo freddo si faceva in 
fondo all’aula; se la stagione lo permetteva si andava fuori, in campagna. In fila 
per due si attraversavano le vie piene di polvere quando la stagione era asciutta e 
motose dopo che era piovuto, cantando P Canzone dei Balilla: “ Fischia il sasso, il 
nome squilla / del ragazzo di Portoria / e l'intrepido Balilla / sta gigante nella storia”; 
e l'Inno dei Figli della Lupa: “Siamo i figli della lupa / dell'Italia il primo fiore / e 
donato abbiamo il cuore / al suo grande Condottier...”. Dopo gli esercizi ginnici si 
scioglievano le righe, e via di tutto d’un fiato sull’argine a fare la corsa campestre. 
Il ritorno a scuola si faceva in libertà attraverso le prode e i campi di erba medica. 

Per stimolare l’intraprendenza e la competizione, spesso venivano indette tra 
le scuole gare e competizioni a tema. Anche noi a volte si partecipava a concorsi 
di pittura e ad altre esibizioni o a gare di recitazione. Quando eravamo in terza, 
venne indetto un concorso di recitazione di poesie fra tutte le classi delle scuole 
elementari, medie e avviamento del Comune, che si tenne a San Miniato. La ma- 
estra scelse me per partecipare alla gara e mi fece imparare una poesia intitolata 
“Il moschetto sl bica” che diceva così: “Padre e figlio salzan presto: / chi dei due 


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Bambini in camicia nera. 
La guerra e la caduta del Fascismo viste con gli occhi di un bambino 





sarà più lesto? / Lun la falce appesa al letto / stacca, l’altro il suo moschetto. / L'uno 
miete, l’altro spara / così a vivere simpara. / Questa no, non è fatica; / eia! E il grano 
già sabbica. / Questa è festa: avanti, avanti! / Laia suona, ecco, di canti. / Sulla bica 
d'oro schietto / issa il bimbo il suo moschetto. / «Questo, dice il suo pensiero, / questo 
è il grano dell'Impero»”. 

Il giorno fissato per la gara, un sabato, tutti i ragazzi delle scuole del comune si 
presentarono alla sede della GIL a San Miniato, sotto i chiostri di San Domenico, 
dove ora è il Museo della Memoria. Di fronte a una commissione, rigorosamente 
in camicia nera, uno a uno, i ragazzi recitarono la poesia imparata. Io fui tanto 
bravo che mi classificai primo tra le scuole elementari! Per questo fui inviato a 
Pisa assieme agli altri vincitori di categoria per la gara provinciale. La maestra mi 
fece imparare tre poesie e ogni giorno dovevo recitarle davanti alla classe. Final- 
mente venne il giorno della competizione e la maestra mi disse che se mi facevano 
scegliere la poesia dovevo dire quella... di cui ora non ricordo il nome. Non ero 
mai salito su un treno, e a Pisa mi accompagnò mia madre. Stetti tutto il tempo al 
finestrino a vedere correre i campi, le case, i paesi: non mi raccapezzavo! Successe 
però che avevamo sbagliato orario e quando si arrivò a Pisa al Giardino Scotto, 
l'audizione dei ragazzi della provincia era terminata e la commissione stava per 
andarsene. In fretta e furia mi fecero dire una poesia a piacere, ma dall'emozione 
non dissi quella che mi aveva consigliato la maestra. E così ignominiosamente 
finì la mia corsa; altrimenti, chissà, sarei potuto andare a Roma a recitare davanti 
al Duce in persona! 

Avevo appena finito la prima elementare, era il 10 giugno 1940. Non ricordo 
da chi o come, ma ci fu detto che nel tardo pomeriggio dovevamo andare tutti a 
San Miniato in piazza dell'Impero, l’attuale piazza e] Popolo, perché Mussolini 
avrebbe parlato a tutta la nazione. Prima delle 18, mi trovavo in piazza delľ Im- 
pero gremita di persone in camicia nera, ma anche in abiti normali o da lavoro 
perché in tanti avevano appositamente smesso di lavorare per venire ad ascoltare 
il Duce. C'erano pure un bel numero di preti. La gente riempiva anche via Ser 
Ridolfo e via Augusto Conti, da dove avrebbero potuto ascoltare bene, perché 
avevano montato degli altoparlanti che diffondevano la voce a distanza: almeno 
due a forma di imbuto, uscivano dalle finestre del palazzo Cheli-Giannarelli. Io 
con i miei amici — forse uno era Mario Ciarini — stavamo seduti sulla soglia del 
portone del palazzo, a fianco dell’attuale farmacia. La gente applaudiva e molto 
spesso gridava Duce! Duce! Duce! Tutto come fosse una festa, una vittoria, uno 
spettacolo divertente. La mia età non mi permetteva di capire il pericolo che 
si andava delineando, quando, alle 18 in punto, la voce dI Duce proclamò, 
nell’entusiasmo generale, che lora segnata dal destino batteva nel cielo della pa- 
tria e che la dichiarazione di guerra era già stata consegnata agli ambasciatori di 
Gran Bretagna e di Francia! Fu per me e per i miei amici una serata di allegria: ce 
ne fossero state di così divertenti! La festa durò anche dopo la fine del discorso, 
con la gente che si trattenne a parlare, a cantare e a schiamazzare per le strade 
di San Miniato fino a buio. Solo a sera tardi, andando in piazzetta del Comune 
con i vicini di casa a prendere un po’ di fresco, ricordo come fosse ora, che mia 
madre disse: “Nella confusione si sono dimenticati di accendere il faro in Rocca.” 
Sapemmo poi che non era stata una dimenticanza: con lo scoppio della guerra il 
faro venne spento, e non fu più riacceso neppure a guerra finita perché i tedeschi 
il 23 luglio 1944 abbatterono la torre e con essa il Ta 


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Giuseppe Chelli 





Da Roffia a San Miniato 

Finita la terza elementare a Roffia, passai alle scuole elementari di San Minia- 
to. La maestra della quarta, tutta RI era la signora Ada Capponi, sorella di 
Ugo, medico veterinario, un pezzo grosso del Fascio sanminiatese. Il clima qui 
era diverso! A scuola si facevano discorsi sulla patria in guerra, sulla necessità di 
stare attenti con chi si parlava, e ci raccomandavano di non dire mai male del 
Duce e del Fascio. E guai a raccattare quello che gli aerei nemici gettavano sui 
paesi, anche se fossero state caramelle. Invece dell olio di fegato di merluzzo e 
della tazza di latte, ci davano la cosiddetta refezione dopo mezzogiorno. Nello 
stanzone all’ultimo piano c'era il refettorio, un locale con grandi tavoli bianchi 
e le panche per sedersi, dove alla fine delle lezioni si andava a desinare. Il pranzo 
consisteva in una ciotola di minestra di fagioli, a volte di verdura o di brodo ve- 

etale, più raramente c'era della carne, con pasta e spesso riso. Per secondo una 
Bella fetta di pane con la marmellata e sempre un frutto di stagione. Una volta 
nella minestra in brodo col riso c'erano pezzi di cavolfiore. A me toccò un pezzo 
grosso di cavolfiore, che era un cibo raro in casa nostra, e allora mangiai tutto il 
riso e il brodo lasciando per ultimo il cavolo come il boccone più prelibato. Che 
delusione quando lo misi in bocca: era stracotto, una poltiglia! 

Spesso la maestra ci faceva sentire la trasmissione La Radio per la scuola e a 
volte ci faceva fare il tema su quello che avevamo ascoltato. Oltre al ricordo nitido 
di una di queste trasmissioni, conservo ancora il tema e il disegno che la maestra 
Ada ci aveva fatto fare dopo aver ascoltato un programma sulle rondini. Ecco cosa 
avevo scritto: © ... Zeri l'altro ascoltai la trasmissione delle rondini. Le rondini di 
primavera fanno il nido e poi covano le uova, quando nascono gli uccellini portano 
loro da mangiare. Appena sono grandicelli le loro mamme insegnano loro a volare ed 
anche a da nel loro linguaggio. La rondine madre fa Cicì e gli uccellini rispondo- 
no così Cicò! Non lo so!. E ruzzano e parlano come facciamo noi uomini sulla terra. 
Le rondini sono uccelli migratori, appena comincia il freddo vanno nei paesi caldi, 
a primavera ritornano e riempiono l’aria dei loro gridi giocondi. San Miniato 23 
Febbraio 1943 XXI E.F” (Fig. 1). 

Devo però confessare che nel disegno non ero granché bravo e allora mi feci 
dare una grossa mano da mio fratello Carlo. La Patria ovunque, anche nel cielo 
delle rondini! La maestra volle che la cornice attorno al disegno avesse i colori 
della nostra bandiera, in omaggio dei soldati al fronte (Fig. 2). Molte erano le 
canzoni che ci insegnava, tutte inneggianti alla guerra, al valore dei soldati, alla 
grandezza dell'Impero. Alcune già le conoscevo come La Canzone dei Balilla o 
Giovinezza. Altre le imparai a forza di cantarle: Faccetta Nera, la Canzone dei som- 
mergibili, la Sagra di Giarabub (“Colonnello non voglio il pane / dammi il piombo 
pel mio moschetto / C'è la terra del mio sacchetto / che per oggi mi basterà...). 

E poi si continuava con il sabato fascista. La mattina non ricordo se andavamo 
a scuola in montura, però il pomeriggio si doveva andare “vestiti” alla sede della 
GIL. Da lì, se non c'erano manifestazioni particolari, si andava sul piazzale delle 
fiere a fare la ginnastica divisi per categoria e sesso. Gli istruttori erano gli avan- 
guardisti oppure i giovani del GUF (Gruppo Universitari Fascisti) che avevano la 
camicia nera di seta, i pantaloni alla zuava e le fasce ai polpacci. Li comandava un 
Capo Manipolo che impartiva ordini con urla e minacce. Successe una volta che 
a uno di questi Capi, di statura piuttosto bassa, sembrò, che gli ordini impartiti 
all’istruttore non fossero stati eseguiti a dovere, e allora fece P atto di dargli una 


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Bambini in camicia nera. 
La guerra e la caduta del Fascismo viste con gli occhi di un bambino 





pedata nel sedere. L'istruttore era un giovanottone alto, tanto che il Capo Mani- 
polo, per arrivare col piede dove non avrebbe mai potuto, perse l'equilibrio e finì 
a terra. Nessuno dei presenti fiatò, ma la soddisfazione fu più che evidente. Anche 

li avanguardisti avevano i pantaloni grigioverde e la camicia nera con in testa il 
ni Devo dire che molti di quegli istruttori non appena passato il fronte da San 
Miniato, cambiarono camicia e alcuni poi spergiuravano che quella nera non 
l'avevano mai portata. A rendere onore al vero, però, di tanto in tanto, spuntano 
da qualche cassetto delle inequivocabili fotografie. 

Molte prove atletiche si concludevano con il Saggio Ginnico (maschile e fem- 
minile e per categoria) al campo sportivo di Santa Maria a Fortino, di fronte a 
tutti i gerarchi e ai capoccioni fascisti, agli invitati da parte del PNF e al pubblico 
civile. Le prove ginniche erano obbligatorie, come la scuola. Se non ci andavi, la 
prima volta ci passavano sopra. Però, se un ragazzo si assentava una seconda vol- 
ta, allora veniva inviata una lettera dal Comandante della Coorte alla Direzione 
della scuola, in modo che avvertisse dell’assenza i genitori del ragazzo! I raduni al 
campo sportivo cessarono, mi pare, nel 1943/44 quando il terreno fu usato per 
seminarci il ricino. Lo vedo ancora, il campo tutto verdeggiante di piante alte 
poco più di in metro con le foglie seghettate e con i frutti a grappoli rossi simili 
a piccoli ricci di castagno. Dai semi di quei frutti si ricavava f, olio che, in regime 
autarchico, era utilizzato per fare il sapone (allora a razionato), per lubrificare gli 
ingranaggi dei macchinari, per fabbricare vernici e per cento altri usi, non ultimo 
quello di purgare gli antifascisti durante le spedizioni punitive. 

In estate cerano i campi solari, che qui a San Miniato, si facevano alla Vil- 
la Antonini, attuale Caserma della Compagnia dei Carabinieri. Non ricordo in 
quale anno incominciarono e se durarono per più anni. Di sicuro ricordo quello 
a cui presi parte. Forse fu l'estate del 1942 o 1943. In dotazione ci davano un 
cappellino, una maglietta bianca, pantaloncini corti neri e scarpe da ginnastica. 
Ogni mattina, dopo l’alzabandiera, si facevano la colazione e gli esercizi ginnici: 
flessioni, torsioni, saltelli a gambe divaricate e altri ancora. Poi veniva il momento 
della terapia solare. Siccome il terreno era ghiaioso, ci si stendeva a prendere il 
sole su delle stuoie, con solo i pantaloncini e il cappellino per proteggere la testa. 
Al termine si andava a fare la doccia, tutti nudi, con le assistenti ni ci insapo- 
navano e ci asciugavano. Di tutte le assistenti (credo fossero maestre) io ricordo 
Paolina Neri, che era la responsabile della mia squadra, cui ci si rivolgeva per 
qualsiasi necessità. Dopo il pranzo ci facevano fare un riposino sulle brandine e 
poi finivamo il pomeriggio con giochi liberi: rimpiattino, rubabandiera e canti, 
ovviamente di regime. Con l’ammainabandiera finiva la nostra giornata al campo 
solare e si ritornava ognuno a casa nostra, a piedi, come eravamo venuti. E così 
tutti i giorni, escluso la domenica, per due settimane, quanto durava un turno. 
Non ricordo se erano riservati dei turni anche alle bambine o se fossero solo per 
i figli della lupa e i balilla. 

L'ultimo anno delle elementari cominciò subito con un clima nuovo rispetto 
alla conclusione dell’anno precedente: l’infatuazione fascista era cambiata! Il ma- 
estro Mario Zucchelli, poi esimio grecista, si occupava e preoccupava soprattut- 
to di insegnarci le materie di studio, senza mischiarci troppa cultura di regime. 
Durante l'estate, il 25 luglio, il re aveva destituito Mussolini, e l’8 settembre, una 
data di poco precedente i primi giorni di scuola, era stato firmato l'armistizio con 
gli Anglo-Americani, l’esercito era stato sciolto e i soldati tornavano tutti a casa. 


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Giuseppe Chelli 





Mi pare che non si andasse più alla GIL per il sabato fascista. Forse perché il PNF 
non cera più ed a fine settembre era stata fondata la Repubblica Sociale Italiana 
nell'Italia occupata dai Tedeschi. 

Nell’ anno scolastico 1943/44 però, tutte le classi quinte del plesso, maschili 
e femminili, venivano spesso radunate nel refettorio per imparare nuove canzoni. 
Una di queste, era di origine tedesca: Lilì Marleen. Cominciava così: “ Tutte le sere 
/ sotto quel fanal / presso la caserma / ti stavo ad aspettar..”. Una canzone d'amore 
lenta e triste, ma ce la facevano cantare in omaggio ai Tedeschi che erano venuti 
ad aiutarci — ci dicevano - contro i nemici americani e inglesi. 

Dall’ autunno del ‘43 cominciarono i bombardamenti delle città e dei ponti 
vicino a San Miniato: quello della Motta a Marcignana, quello di Fucecchio e 
quello della ferrovia a Isola. La collina e il centro storico parevano sicuri e perciò 
dai paesi e dalle città bombardate (Pisa, Pontedera, Empoli e Livorno special- 
mente) arrivarono molti sfollati. A scuola, i figli di questi furono integrati con 
noi, tanto che la nostra classe arrivò a contare oltre 40 alunni, fra cui un bel 
numero di pluriripetenti. Accanto a casa nostra venne ad abitare una famiglia di 
livornesi. La madre si chiamava Cecilia ed aveva tre figli giovani. Questa donna 
non sapeva come sfamarli, perché la tessera annonaria non le bastava. Senza per- 
dersi d'animo lei ogni mattina partiva con una valigia vuota e andava con il treno 
verso Livorno o verso Firenze. Quasi ogni giorno i treni venivano mitragliati, 
si fermavano e i passeggeri dovevano scendere. Lei rimaneva sul treno da sola, 
scorreva tutti gli scompartimenti e quando adocchiava una valigia di cui era certa 
fosse piena di qualcosa di utilizzabile, lasciava la sua e prendeva quella. Ci trovava 
sempre qualcosa: spesso roba da mangiare, a volte vestiario. Se si trattava di cibo, 
tornata a San Miniato apparecchiava una cena abbondante e chiamava anche noi 
a parteciparvi, perché mia madre spesso gli allungava qualche filino di pane. 

Come quella volta che Cecilia tornò tutta euforica da uno dei suoi viaggi, 
canticchiando. Nella valigia aveva trovato un sacchetto pieno di fagioli cannellini 
e una bottiglia d’olio di stiva “Stasera — disse alla mia mamma — si mangia fagioli 
a strippapelle”. Ci mise una serata intera a far bollire il paiolo dove ruzzolavano 
i cannellini insaporiti con spicchi d’aglio e rametti di salvia. Si era una bella ta- 
volata intorno a quel pentolone dove Cecilia aveva rovesciato il paiolo dei fagioli 
e versato tutta la bottiglia dell'olio: “Di chi uno ne gode, tutti i dì non stenta” 
sentenziò Cecilia sedendosi a capotavola. 

Era davvero una lotta per la sopravvivenza. Noi però eravamo fortunati, il 
pane non ci mancava! Lo zio prete di Roffia, don Lionello Benvenuti, via via ci 
faceva arrivare dei sacchetti di farina con cui la mia mamma faceva quattro o cin- 
que scole di pane che portavamo a cuocere nottetempo al forno della Pippotta, 
a Pancole, vicino al ricovero. C'era il coprifuoco e ci voleva prudenza. Facevamo 
così: io andavo avanti rasente i muri e, quando non vedevo nessuno e la via era 
libera, facevo cenno al babbo di venire avanti con la tavola del pane sulle spalle. 
Tappa dopo tappa, si arrivava al forno, e allo stesso modo si ritornava dopo la 
cottura. 


Il passaggio del fronte 

Con la primavera, le incursioni aeree si intensificarono, e quindi appena suo- 
nava la sirena si doveva lasciare l’edificio scolastico e precipitarsi fuori. La nostra 
classe infilava giù per il vicolo di Gargozzi, a fianco della scuola, e si fermava in 


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fondo, sul muricciolo. Qualcuno dei più grandi, aspettando il fine allarme, fuma- 
va le vitalbe. Succedeva anche che in classe, qualche ripetente di 13 o 14 anni, se 
non aveva più voglia di stare a scuola, si mettesse a fare il verso della sirena con 
le mani alla bocca... e allora tutti via di gran carriera in Gargozzi! Il maestro ci 
urlava dietro che non era vero nulla, che non c’era nessun allarme, ma noi via di 
corsa giù per lo sdrucciolo, che non ci pareva vero di uscire dalla scuola! Il mae- 
stro, affacciato alla finestra che dava sul vicolo, ci chiamava per rientrare e spesso 
i ragazzi della borghesia cittadina gli obbedivano, e anch'io per la verità. Quelli 
grandi invece prendevano i vicoli e andavano a casa. 

Persino la pagella era uno strumento di propaganda (Fig. 3). Aveva un fronte- 
spizio dalle linee futuriste, con immagini di regime e l'acronimo del fascio, PNE, 
sui cui noi bambini si scherzava dicendo, nel giorno in cui ce le consegnavano, 
che ci davano Pane, Noce e Fichisecchi! Nel ‘44, l’anno scolastico finì mi pare 
a maggio e fummo tutti promossi senza esami. Il fronte si avvicinava, ma per il 
momento non potevamo immaginare la rovina e la distruzione che stavano per 
caderci addosso. Eravamo ragazzi, percepivamo un pericolo diffuso, questo sì, 
ed eravamo meno smaniosi di ruzzare o di allontanarci da casa. Spesso si andava 
alla Madonnina del Riposo a vedere i bombardamenti su Empoli, come fosse 
uno spettacolo. Oppure la notte correvamo sul prato del duomo a vedere cadere 
i bengala su Pontedera e su Pisa e a sentire gli schianti dei bombardamenti. Era 
rischioso, perché vigeva il coprifuoco e già alle sette, in pieno giorno, si doveva 
stare chiusi in casa. Se passava la ronda dei polizei (così la gente chiamava i mem- 
bri del corpo degli italiani collaboratori dei Tedeschi, inquadrati nella Ordnungs- 
Polizei), ti portavano alla Casa del Fascio, in quello che oggi è palazzo Piccolo! 

Si era già vicini all’estate e stare chiusi in casa la sera era un gran sacrificio. Noi 
avevamo cambiato casa e s'era tornati al numero 52 di via Umberto I (oggi via 
Rondoni) dove attualmente c’è un terrazzino al pianterreno. La casa aveva anche 
una finestra che dava in quella che oggi è via Del Bravo, e quindi si poteva vede- 
re quasi tutta la piazza Buonaparte. I polizei non volevano neppure che si stesse 
affacciati alle finestre a frescheggiare e a parlare da finestra a finestra, ma la gente 
se ne fregava e stava ugualmente a due aria chiacchierando. 

Una sera, giù sulla piazza, i polizei cominciarono a sbraitare verso chi stava af- 
facciato a prendere il fresco, intimando di andare dentro e di chiudere le finestre, 
quando po partì una pernacchia talmente rumorosa e prolungata che 
la sentimmo tutti, scoppiando a ridere! Forse era stato qualcuno che abitava nel 
palazzo Buonaparte, dov'è la lapide che ricorda la visita di Napoleone a San Mi- 
niato. I polizei s'incattivirono e cominciarono a battere il calcio dei fucili contro 
il portone del palazzo e a sparare verso le finestre, ma fu tutto inutile. Allora si 
radunarono davanti alla chiesa di San Rocco, per ripararsi, e uno di loro tirò fuori 
dalle giberne una bomba a mano con l’idea di lanciarla contro il portone della 
casa presa di mira. Forse sbagliò a contare prima del lancio, forse la bomba era di- 
fettosa... Sta di fatto che l’ordigno gli scoppiò in mano, troncandogli di netto un 
braccio poco sopra il polso! I polizei, tutti impauriti, soccorsero immediatamente 
il camerata ferito e lo portarono a braccia all’ospedale, in fondo alla strada. Tutto 

uesto tra le grida di gioia, le risate e gli applausi di quelli che avevano assistito 
dalle finestre. 

Capitava anche che durante il coprifuoco girassero pattuglie tedesche alla ri- 
cerca di cibo. Siccome trovavano tutto chiuso, si accanivano contro le saracine- 


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Giuseppe Chelli 





sche e le porte, urlando e minacciando. Una sera, in casa eravamo solo io e mia 
madre. I tedeschi, risalendo via Del Bravo, urlavano. danneggiando le porte. La 
mia mamma, impaurita che arrivassero anche da noi, voleva farmi star sveglio; 
ma io, stanco morto per una giornata tutta a zonzo, appena aperti gli occhi, mi 
riaddormentavo con grande angoscia della povera donna. Aveva paura che se 
fossero entrati in casa avrebbero potuto abusare di lei. Aveva ancora un aspetto 
giovanile ed era molto bella, nonostante avesse più di 40 anni. Meno male che 
i Tedeschi, arrivati in Sant Andrea, presero viale Umberto Pontanari (oggi viale 
Matteotti) e calarono verso La Scala. 

Erano giorni quelli in cui capitava di tutto! 

Almeno in due occasioni i Tedeschi invece di saccheggiare, portarono roba da 
loro rubata per barattarla con la gente di San Miniato. In uno di quei pomeriggi 
nei quali si stava tutti per strada come a farci coraggio a vicenda, in attesa di 
lasciare le case per il rifugio, arrivò in Sant'Andrea un camion tedesco carico di 
gropponi di cuoio predati in qualche concia giù al piano, e i soldati li davano a 
tutti in cambio di qualsiasi cosa e anche gratis. Mia madre fu lesta ad accaparrarsi 
un grosso groppone di cuoio ben conciato che ci servì per qualche anno a risolarci 
le scarpe. Un'altra volta i Tedeschi arrivarono con un carico di vitelli. Le bestie 
erano molto agitate, al punto che un bel vitello saltò giù dal camion e venne preso 
dalla gente in strada. Lo misero nella stalla del Bianchi. in fondo ai piedi della 
salita di San Francesco. Che fine abbia fatto non so dirlo. 

Un paio di giorni dopo dovemmo correre per la prima volta nel rifugio per 
l’arrivo del fronte bellico. 

Sarà stato verso la fine della primavera, che una notte si sentì una grossa de- 
flagrazione nella valle di Gargozzi, nella zona sotto gli orti delle monache di San 
Paolo. Non era mai successo nulla che facesse temere un bombardamento aereo 
su San Miniato, per cui quello scoppio fu interpretato come un avviso che da lì 
a poco il colle sarebbe stata bombardato. Fu tutto un passaparola, e la gente uscì 
di casa. Si formarono gruppi un po’ ovunque nello Scioa, decisi a lasciare San 
Miniato. Una fiumana di persone, donne, uomini e bambini si incamminarono 
verso il Convento dei Cappuccini, sicuri di essere ospitati. Anche noi, i miei geni- 
tori e mio fratello Carlo, che aveva lasciato il servizio militare dopo l’8 settembre 
e che non intendeva tirarsi su dal letto, fu costretto da mia madre a venire col re- 
sto della famiglia. I frati ci accolsero in chiesa e nelle stanze adiacenti in attesa del 
bombardamento. Mio fratello per un po’ stette lì con noi, poi decise di tornare a 
dormire a casa, sicuro che non sarebbe successo nulla. Infatti, sul far del giorno, 
tutti riprendemmo mezzo assonnati la via di casa. Si seppe, poi, che un aeroplano 
solitario in avaria, per alleggerirsi del peso aveva sganciato uno spezzone incen- 
diario, in piena campagna, proprio in Gargozzi, dove non c'erano abitazioni. 

Siamo a luglio, e il fronte è ormai vicino. Le incursioni erano cosa di tutti 
i giorni, ed io, appena sentivo la sirena, scappavo di casa e correvo nella valle 
di Calvano con mia madre che mi seguiva in affanno. Spesso vedevo i caccia 
sganciare le bombe sulla ferrovia: da sotto la pancia dell’aereo si staccavano due 
bombe appaiate, come se fossero due bottiglie, che andavano a scoppiare verso 
Isola, al ponte della ferrovia... però non l'hanno mai colpito in pieno. L'arrivo 
del fronte sulle nostre colline, a metà luglio ‘44, produsse prima la distruzione di 
mezza San Miniato da parte dei Tedeschi che minarono case e palazzi, poi lec- 
cidio del Duomo e l’abbattimento della torre di Federico II... Infine arrivarono 


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La guerra e la caduta del Fascismo viste con gli occhi di un bambino 





gli Americani! 

Il fronte impiegò una quarantina di giorni a passare sulle nostre vite. Prima le 
cannonate americane che arrivavano da Sud-Ovest, tra Bucciano e Montopoli, 
dopo quelle tedesche, dalla riva dell'Arno. Io e i miei amici sfollati nel convento 
di San Francesco avevamo imparato le ore in cui i tedeschi facevano fuoco su San 
Miniato. Poche cannonate sparate qua e là. Negli intervalli, correvamo giù nella 
valle di Calvano o in quella di Cencione a far razzia di frutta, ché quell’anno ce 
ne fu in abbondanza. Se per caso i tedeschi cambiavano orario e le cannonate 
ci prendevano in campagna, ci si buttava nelle fosse e, riparandosi da una fossa 
all'altra, si cercava di arrivare sani e salvi al Convento. Furono giorni e giorni di 
paura, ma la nostra incoscienza di bambini ce li fece vivere anche come un tempo 
di grande divertimento. Poi, col 1 settembre la guerra qui da noi finì. 

Poco prima dell'arrivo del fronte, i polizei erano spariti di circolazione. Uno 
andò a Toiano di Palaia e tornò dopo alcuni anni. Finì a fare il sacrestano in 
Duomo. Ricordo che una volta ero capitato a casa sua, sarà stata la primavera 
del ‘44, e in cima di scala c'era una gigantografia di Mussolini, con una grande 
scritta in nero: Vincere. Alcuni rimasero, a badare i moschetti della GIL e dopo 
poco passarono a vendere [Unità casa per casa. I Turini, i Pellicini , il prof. Novi, 
Commissario del Fascio, e diversi altri fascisti lasciarono la Città, senza farvi più 
ritorno. Solo i figli continuarono a frequentare San Miniato. Ci furono anche 
degli internati nel campo di concentramento di Coltano, vicino Pisa. Diverso 
trattamento fu riservato a Ugo Capponi, fascista della prima ora e pluridecorato 
tenente del 3° Reggimento “Frecce Nere” nella guerra di Spagna. Contro di lui 
non ci furono atti di violenza o ritorsioni, forse per essere riuscito a far liberare i 
12 ostaggi civili catturati dai Tedeschi a La Catena, per rappresaglia dopo lucci- 
sione di un loro camerata per mano dei partigiani. 

Qualche giorno dopo la liberazione della città, i partigiani si misero a dare la 
caccia alle ragazze e alle donne che avevano avuto simpatie con i tedeschi o che 
erano fasciste, tagliando loro i capelli in pubblico (Fig. 4). Anche nel rifugio di 
San Francesco, tra gli schiamazzi della gente, furono rapate alcune donne, tra cui 
mia zia Beppa. Lei non aveva nulla da rimproverarsi, ma fu messa alla berlina 
perché era la sorella del prete di Roffia, Don Lionello Benvenuti, che i partigiani, 
Emilio Baglioni, sindaco, e il maggiore Torquato Salvadori, fecero allontanare 
dalla sua parrocchia di Roffia she aveva avuto simpatie fasciste ed era amico 
del Prof. Novi, con cui era stato insieme alcuni anni in seminario. Fu trasferito a 
Cevoli, presso Lari (Fig. 5). 

Anch'io, nell'autunno di quell’anno, andai a Cevoli con mia madre perché 
la nostra casa era stata gravemente danneggiata dalle mine e dalle cannonate 
americane cadute su San Miniato. Fu un distacco penoso dover lasciare gli ami- 
ci, il babbo e gli altri familiari, ma fu fecondo di nuove conoscenze e amicizie e 
soprattutto trovai un ambiente non devastato dalla guerra come San Miniato e 
dove la vita scorreva quasi normalmente. Lì mi preparai agli esami di ammissione 
alla scuola media sostenendoli nel giugno 1945, presso l'Istituto parificato “SS. 
Crocifisso” di Lari. 

Poi, la scuola media, e ... P adolescenza! 


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Giuseppe Chelli 


Bambini in camicia nera. 


La guerra e la caduta del Fascismo viste con gli occhi di un bambino 








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Fig. 2 — Il disegno con cui il fratello Carlo aveva illustrato il tema di Giuseppe Chelli. 


460 








“ANCORA PIÙ VICINO AL 
MIO CUORE DEGLI ISTITUTI, 
DELLE UNIVERSITÀ FASCISTE, 
È UNA NUOVA ISTITUZIONE 
CHE HA TUTTI | SEGNI ORI 
GINALI DELLA RIVOLUZIONE 
FASCISTA: L'OPERA BALILLA.. 


1 Vht 


opera 
balilla 





MINISTERO 
EDUCAZIONE NAZIONALE 


Fig. 3 — Una delle pagelle del periodo bellico, con i simboli della propaganda fascista. 


461 


Bambini in camicia nera. 








Giuseppe Chelli La guerra e la caduta del Fascismo viste con gli occhi di un bambino 
FEEBRAÎO FERBBRAI 
293 Lunedì - 4. Policarpo mi TE 25 Mercalli -n Felico papa -gizo 


tamnanala i aguda iana Mow Rae elit) 
ennai aT EE SEL basici scuo Bla det Cous 
ER aeee e tee i 
Ank niguutto olet RI i TEF egg 3 


Sell Bi fanatà oi Rit ate cl | 

Ne dillo a eni | pende i PENE SATA 

Siigiuone nda ditta | effi Neut Merat ni ha | 
ia apostolo 10 (6 (Giovedi — è Fortunato 7} 

24 3 Non E daharan a Te di BrE Fi pams 

Wun Assai lsak = r duetti a Grek iii. Fl 


Fr gerlo (94h rupe A pesi 
Tutti lori fiasio E uo afan fa olta a s bapu] 
k TESE sulla tou guie | ou televi o affrontano aula | 

tia petti * deo = pen fe dire mn ne 


| 
| 





Fig. 5 — La pagina del diario di don Lionello Benvenuti, in cui il sacerdote annota il colloquio con 
Fig. 4-1 a rapano le donne ritenute collaboratrici dei Tedeschi, in piazza Santa Caterina, alla Monsignor Rosati a proposito della lettera del prof. Baglioni e del maggiore Salvadori in cui si chiedeva 
fine di luglio del 44 A 


la sua rimozione da Roffia 


462 463 


Ricordi di una bambina nel 1944 





PIERA CHELI 


Una mattina dei primi di luglio 1944 (avevo sei anni) scesi in Piazza del Po- 
polo e mi trovai davanti agli occhi una schiera enorme di carri armati tedeschi. 
Subito spaventata tornai su in casa. 

Nel luglio 1944 eravamo alloggiati da qualche tempo nei sotterranei (chiama- 
ti cripta di Sant'Urbano) della Te di Santa Maria Assunta e di San Genesio, 
detta anche di San Domenico, oltre a me, Paola mia sorella gemella, mio fratello 
Amerigo, mia madre Olga, e i nonni paterni Alfredo Cheli e Luisa Ceccherelli. 

Mia sorella Paola ricorda come me quel giorno. La mattina del 22 luglio i 
soldati tedeschi ci fecero salire in chiesa con tante altre persone, puntandoci alle 
spalle i fucili. Ricordo che eravamo nelle prime panche a sinistra. Nostro padre 
non c'era. Era tornato dall’ Africa l’anno precedente. Probabilmente era nella sua 
farmacia. I tedeschi sorvegliavano tutti con i fucili spianati, e andavano su e giù 
nella navata centrale. Io ero terrorizzata dai loro visi cattivi. A un certo punto 
fecero uscire dalle panche alcune persone, compresi i miei nonni, e li radunarono 
in sagrestia. Mia nonna ci ha sempre raccontato che i tedeschi per un po’ li la- 
sciarono soli. Allora lei disse al marito: «Alfredo, torniamo dall’Olga e non lascia- 
mola sola con i bambini». Dalla porta che conduceva in sagrestia infatti ricordo 
che uscirono i miei nonni, camminarono lentamente e si rimisero nel loro posto 
accanto a Olga. Così non furono trasferiti nel duomo di S. Miniato insieme alle 
altre persone che erano in sagrestia. E si salvarono. Perché poco dopo alle 10 in 
duomo avvenne la terribile esplosione che causò 55 vittime. 


* 


Mio padre aveva rischiato la vita più volte in Africa, dove aveva combattuto 
(ottenendo due croci al valore) fino alla terribile battaglia di El Alamein. Ma 
rischiò la vita anche a San Miniato durante l'occupazione tedesca. Raccontava 
spesso che un giorno andò a pranzo nella località chiamata Cappuccini da alcuni 
contadini. Si trattenne da loro molte ore. Alcuni militari tedeschi lo attendevano 
fuori per ucciderlo, lo sospettavano di connivenza con i partigiani (con i quali 
era podi in contatto), dal momento che conosceva il tedesco e quindi 
poteva rivelare qualcosa dell'esercito occupante. Visto che mio padre non usciva 
mai, per sua fortuna se ne andarono. Così raccontarono alcuni sanminiatesi che 
passavano di lì e vedevano sempre i tedeschi con le armi spianate. 


* 


I tedeschi lasciarono San Miniato il 23 luglio 1944. 
Alcune case del centro storico furono minate il 20 e 21 luglio 1944 dai te- 


465 


Piera Cheli 


Ricordi di una bambina 








deschi in ritirata: Piazza del Popolo (allora Piazza dell'Impero) fu ridotta ad un 
cumulo di rovine. La nostra casa, al n. 21, non fu minata: le mine eono poste 
dai soldati polacchi al servizio dei tedeschi. Con i tedeschi c'erano infatti soldati 
ucraini, polacchi, mongoli. Mia sorella ed io avevamo fatto amicizia appunto con 
soldati polacchi, che tenevano una trincea nella valle di Cencione, dietro la nostra 
casa. Quando ricevettero l’ordine di minare la nostra casa, dissero: No, questa è 
la casa delle gemelline, non la miniamo, e così fu salvata. Ho negli occhi la di- 
sperazione di Marisa Gori e della sua famiglia, cioè suo padre Masino, sua madre 
Beppa e suo fratello Vittorio, che erano in Sant'Urbano con noi, quando seppero 
che la loro casa era distrutta. Per qualche tempo tutta la famiglia Gori fu ospitata 
in casa nostra ed io e mia sorella Paola eravamo felicissime di averli con noi, per- 
ché i Gori erano amici estremamente affettuosi. Non solo le case distruggevano, 
uccidevano anche le persone: ricordo ancora le urla di dolore della signora Rossi 
(anche lei era in Sant'Urbano col suo bambino piccino), quando seppe che suo 
marito era stato ucciso dai tedeschi. 


Nel luglio 1944, dopo l’esplosione avvenuta nel duomo, con la mia famiglia 
ci rifugiammo insieme ad altri sanminiatesi a Collegalli per salvarci dalla guerra 
e dall'occupazione tedesca. Durante il viaggio a dii verso Collegalli passavano 
aerei che bombardavano, ci si rifugiava nei fossi ai lati della strada. Rimanemmo 
là qualche mese: fummo accolti nella villa dei Burgisser, amici di nostro padre che 
erano tornati nel loro paese, la Svizzera; era rimasto lì il loro giovane amministra- 
tore, di nome Weber. Nella villa c'era un parco con tanti grandi vasi di limoni; 
per gioco mia sorella Paola ed io riempimmo i vasi con semi di cocomero. Dopo 
nacquero in quei vasi tanti bei cocomeri con stupore dell’amministratore, che poi 
ci rimproverò, perché, secondo lui, i limoni avevano molto sofferto. 


* 


Il 24 luglio 1944 a San Miniato arrivarono finalmente i soldati americani. Noi 
bambine andavamo a chiedere loro caramelle e cioccolate. Facemmo anche ami- 
cizia con uno dei soldati, di nome Andrea. I soldati alla sera andavano a ballare 
con ragazze di San Miniato in uno stanzone sotto i chiostri contigui alla chiesa 
di San Domenico. Una nostra conoscente, più grande di noi di 13 anni, strinse 
amicizia con un soldato di nome Andrea. Qualche anno dopo andò a trovarlo 
negli Stati Uniti; in casa sua nel salotto su un mobile vide una foto di lui con noi 
gemelline a San Miniato: la teneva tra i ricordi di guerra. 


* 


Subito dopo la guerra in casa non arrivava l’acqua corrente, perché gli ac- 
quedotti erano stati gravemente danneggiati dai tedeschi; si scendeva giù di casa 
e si faceva la fila alla fontanella in cima di Piazza del Popolo, munite di secchi. 
Un giorno mia sorella ed io andammo come ogni giorno a metterci in coda alla 
fontana, ma ebbi un'idea per evitare la fila. Avevo un fiasco pieno d’acqua e lo 
rovesciai in terra dicendo una cosa non vera alle molte donne e uomini che erano 


466 


davanti a noi in attesa: “Sul piazzale (dei giardini pubblici) c'è una fontanella che 
butta forte!”. Tutti corsero sul piazzale e noi due allora riempimmo i nostri secchi 
e ci avviammo subito verso casa. Ma mentre stavamo chiudendo il portone torna- 
vano le persone che erano andate al piazzale, ci videro e ci lanciarono improperi, 
anche perché avevano perso i loro posti nella coda. 


* 


Nostro zio Arrigo Cheli, militare di carriera, partecipò sia alla guerra per la 
conquista dell'Etiopia sia alla seconda guerra mondiale. Fu preso prigioniero da- 
gli inglesi e portato in India, dove rimase sette anni. Noi suoi nipoti non avevamo 
avuto il tempo di conoscerlo e attendevamo con curiosità e ansia il suo ritorno 
per poterlo finalmente vedere. Quando avevo dieci anni un giorno suonò il cam- 
panello della porta di casa, aprii, era lui, bello, in divisa. Rimasi senza parole per 
l'emozione. Mi abbracciò. 


467 


Piera Cheli Ricordi di una bambina 











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Paola e Piera Cheli nel giorno della prima comunione. Paola e Piera Cheli con Marisa Gori a Pisa. 


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Piera Cheli 








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Piera, Amerigo e Paola Cheli al mare dopo la guerra. 


470 


Ricordi di una bambina 





La nonna Luisa Ceccherelli e il figlio Arrigo Cheli dopo la guerra. 





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Piera Cheli 





Vita dell’Accademia nell’anno 2021 





Alfredo Cheli, marito di Luisa, poco dopo la guerra. 
472 


474 


ACCADEMIA DEGLI EUTELETI DELLA CITTÀ DI SAN MINIATO 
COMPOSIZIONE DELLE CARICHE SOCIALI 


Il Consiglio Direttivo risulta per l'anno 2021 composto da: 


Saverio Mecca Presidente 
Maria Grazia Messerini Vice Presidente 
Bruno Bellucci Segretario 
Francesco Fiumalbi Vice Segretario 
Alberto Falaschi Tesoriere 
Anna Alessi (1 gennaio-30 aprile) Consigliere 
Lucia Catarcioni Consigliere 
Alexander Carmine Di Bartolo Consigliere 
Riccardo Gucci Consigliere 
Luca Macchi Consigliere 
Rossano Nistri (1 maggio-31 dicembre) Consigliere 
Roberta Roani Consigliere 


Tutti i componenti del Consiglio Direttivo non percepiscono alcun compenso 
derivante dalle cariche in seno all Accademia. 


Il Presidente dell’Accademia degli Euteleti di San Miniato 
Prof. Saverio Mecca 


475 


ACCADEMIA DEGLI EUTELETI 
DELLA CITTA DI SAN MINIATO 


SOCI ONORARI 


Cristina Acidini 
Alessandro Bandini 
Luigi Bernini 

Igino Bonechi 
Giuseppe Roberto Burgio 
Giovanni Cipriani 
Marco Fagioli 
Crescenzio Franci 
Angelo Frosini 
Vittorio Gabbanini 
Renzo Gamucci 
Eugenio Giani 
Franco Giannoni 
Simone Giglioli 


Giorgio Giolli 


SOCI ORDINARI 


Anna Alessi 
Adriana Banella 
Bruno Bellucci 
Piero Bruschi 
Federico Cantini 
Lucia Catarcioni 
Giovanni Conforti 
Andrea Cristiani 
Antonia D’Aniello 
Alexander Carmine Di Bartolo 
Francesco Dini 
Alberto Falaschi 
Maria Fancelli 
Francesco Fiumalbi 
Marzio Gabbanini 


Antonio Guicciardini Salini 


Francesco Gurrieri 
Lino Lensi 
Alfonso Lippi 
Romani Masoni 
Andrea Migliavacca 
Morello Morelli 
Giorgio Rondini 
Salvatore Settis 
Mario Sladoyevich 
Fausto Tardelli 
Paolo Taviani 
Alberto Vierucci 
Luigi Zangheri 


Isabella Gagliardi 
Antonio Galanti 
Riccardo Gucci 
Luigi Latini 

Luca Macchi 
Andrea Mancini 
Saverio Mecca 
Maria Grazia Messerini 
Rossano Nistri 
Anna Padoa Rizzo 
Roberta Roani 
Renzo Rossi 


Francesco Salvestrini 
Andrea Vanni Desideri 


SOCI CORRISPONDENTI 


Amedeo Alpi 

Carlo Baccetti 
Lorenzo Bacci 
Massimo Bacchereti 
Renato Baldi 
Pierluigi Ballini 
Antonio Baroncini 
Carlo Baroni 
Nicola Baronti 
Riccardo Belcari 
Giuseppe Bellandi 
Gianluca Belli 
Antonio Bellucci 
Silvia Benassai 
Giovanni Benelli 
Giacomo Benvenuti 
Virginia Benvenuti 
Maria Pia Bertagnolli 
Antonella Bertini 
Emilio Bertini 
Daniela Bianconi 
Francesco Biron 
Claudio Biscarini 
Stefano Boddi 
Roberto Boldrini 
Adolfo Bucalossi 
Alfredo Bucalossi 
Claudia Maria Bucelli 
Adriano Buggiani 
Susanna Caccia 
Mario Caciagli 
Fabio Calugi 
Johara Camilletti 
Francesco Campigli 
Daniela Cancherini 
Andrea Capecchi 
Rosario Casillo 
Mattia Catarcioni 
Costantino Ceccanti 


Susanna Cerri 
Amerigo Cheli 
Giuseppe Chelli 
Andrea Ciarini 
Ruffo Ciucci 
Giovanni Coppola 
Francesca Romana Dani 
Luca Danti 
Giuseppe De Juliis 
Giuseppe De Luca 
Andrea De Marchi 
Angelo Fabrizi 
Anna Falchi 
Michele Feo 

Alice Fiaschi 
Ludovica Fiaschi 
Michele Fiaschi 
Marco Fioravanti 
Delio Fiordispina 
Maria Antonietta Frosini 
Antonio Galli 
Vincenza Galli Angelini 
Laura Galoppini 
Graziano Ghinassi 
Alice Giani 

Aldo Giannarelli 
Benedetta Giugni 
Simone Giugni 
Ezio Giunti 
Andrea Gozzini 
Sergio Gronchi 
Alessio Guardini 
Anna Lambertini 
Lamia Hadda 
Renzo Lapi 

Carlo Lapucci 
Marco La Rosa 
Silvia Lensi 

Pier Giuseppe Leo 
Giuseppe Lotti 


477 


Luca Lupi 

Pier Luigi Luti 
Fabrizio Mandorlini 
Rosalia Mannu Tolu 
Emilia Marcori 
Claudia Massi 

Tessa Matteini 

Rita Mazzei 

Patrizia Mello 

Luca Menichetti 
Giovanni Meozzi 
Giulia Micera 
Nicola Micieli 
Paolo Morelli 
Barbara Mori 
Eugenio Murrali 
Maria Grazia Napoli 
Lucia Nacci 

Masao Noguchi 
Costanza Pacini 
Franco Paliaga 
Valentino Pancanti 
Manuela Parentini 
Ettore Parmeggiani 
Barbara Pasqualetti 
Rossano Pazzagli 
Ernesta Pellegrini 
Valfredo Pellegrini 
Carla Pieri 

Alfiero Petreni 
Susanna Pietrosanti 
Davide Provenzano 
Stefano Renzoni 
Francesco Ricciarelli 


Graziana Rocchi Giannoni 


Gianfranco Rossi 
Giuseppe Rossi 
Francesca Ruta 
Lucilla Sacc. 
Sandro Saccuti 
Fausto Sacerdote 


478 


Giulio Santini 
Alessandra Scappini 
Anna Scattigno 
Fabio Sottili 


Maria Donata Spadolini 


Ferruzzi 

Bruno Spagli 

Luigi Spezia 

Matteo Squicciarini 
Piero Taddeini 

Maria Grazia Tampieri 
Maddalena Tani 

Paolo Tinghi 

Varo Tinghi 

Aldemaro Toni 

Denise Ulivieri 
Valerio Valori 

Daniele Vergari 
Edoardo Villani 
Cesare Viviani 
Marcello Viviani 
Claudia Weber Saglam 


Emiliano Zucchelli 


SOCI BENEMERITI 
Franco Frulli 
Lodovico Inghirami 
Rodolfo Panarella 


Ilvano Vannozzi 


SOCI DECEDUTI 


Mario Rossi Locci 


Il Presidente 


dell’Accademia degli Euteleti di San Miniato 


Prof. Saverio Mecca 


LE ATTIVITÀ DEL’ACCADEMIA DEGLI EUTELETI DI SAN MINIATO 


Le attività dell’Accademia degli Euteleti che già negli ultimi anni hanno dovuto 
confrontarsi con una forte riduzione delle risorse provenienti dalle istituzioni, 
sono state limitate dalla pandemia Covid19, ma le sue scelte fondamentali sono 
state mantenute: 


e il Bollettino che raccoglie contributi di ricercatori e studiosi soci e non soci 
dell’Accademia su temi articolati dalle scienze fisiche alle scienze umane, alla 
storia e all'arte. Il Bollettino si conferma come uno dei più prestigiosi contribu- 
ti al dibattito culturale del Valdarno e della Toscana; 


e le mostre di arte, dalla pittura alla scultura, la grafica, la fotografia. La mostra 
di opere di Rossano Nistri è stata posticipata all estate 2022 e altrettanto la rel- 
ativa pubblicazione del catalogo che andrà ad arricchire la collana “Le mostre 
dell’Accademia”; 


e il sostegno e cooperazione con altre istituzioni e associazioni presenti nel ter- 
ritorio mediante la condivisione di progetti e la messa disposizione della sede 
rinnovata e adeguata tecnicamente per lo sviluppo di mostre, seminari, con- 
vegni e conferenze. 


e il rinnovamento dei soci componenti il consiglio, i soci ordinari e corrispon- 
denti dell’Accademia; 

e la gestione del sito web dell’Accademia; 

e il mantenimento delle attrezzature e degli arredi; 

e l'adesione al Sistema Museale di San Miniato. 


Le attività sopra riassunte sono state rese possibili utilizzando in pieno le risorse 
economiche sia quelle provenienti dai contributi del Ministero della Cultura e 
dalla Fondazione Cassa di Risparmio di San Miniato che dai Soci dell’Accademia. 


La continuità della attività nei prossimi anni dell’Accademia richiederà risorse 
adeguate, anche se modeste, integrate dall'impegno, dal lavoro e da contributo 
volontario di tutti i soci, che per quanto generoso non potrà essere sufficiente. 


Rivolgiamo un appello affinché da parte delle Istituzioni Pubbliche del territorio 
e della Fondazione Cassa di Risparmio di San Miniato si possano assicurare le 
risorse necessarie affinché l'Accademia possa continuare ad operare nella neces- 
saria autonomia e libertà nell'interesse della comunità. 


479 


ATTIVITÀ DELL'ACCADEMIA DEGLI EUTELETI DI SAN MINIATO 
NELL'ANNO 2021 


L'Accademia degli Euteleti ha perseguito il suo fine statutario di “attuare ini- 

ziative e di lavori per la promozione wo studi letterari, storici, scientifici ed 

artistici”. Le attività si sono quindi articolate, pur nelle limitazione indotte dalla 
pandemia, in: 

e promozione della cultura mediante la redazione, la pubblicazione e la diffusi- 
one del Bollettino dell’Accademia con periodicità annuale, e di altre opere a 
stampa; 

e organizzazione delle Mostre dell’Accademia 


e organizzazione di Conferenze, progetti e iniziative nel campo degli studi letter- 
ari, storici, scientifici ed artistici; 


attività di cura, conservazione e valorizzazione del patrimonio librario, archi- 
vistico e artistico dell’Accademia a beneficio degli studiosi e della comunità. 
L'Assemblea dei Soci Ordinari nella seduta Gennaio 2021 ha approvato il Bi- 
lancio consuntivo dell’anno 2020, il Bilancio preventivo dell’anno 2021, il Pro- 
gramma delle attività per l’anno 2021 e il Programma delle attività per il triennio 
2021-2023. 


Incontri dell’Accademia 
Gli incontri dell’Accademia sono stati sospesi per l’intero anno 2021 


Sabato 11 dicembre 2021 

Saverio Mecca 

Ore 17,30 

presentazione e diffusione del Bollettino n° 88 - anno 2021 

Ore 18,00 

Carlo Francini Ufficio Firenze Patrimonio Mondiale e rapporti con UNESCO 
del Comune di Firenze 

75 anni di UNESCO e la Toscana Patrimonio Mondiale. Obiettivi raggiunti e sfide 
future Mostre dell’Accademia 


Mostre dell’Accademia 


Le mostre dell’Accademia sono state sospese 


Pubblicazioni 


Bollettino dell’Accademia n° 88-2021 

La pubblicazione del Bollettino n. 88 ha avuto luogo Sabato 11 dicembre 2021 
oo la sede della Fondazione Cassa di Risparmio di San Miniato, Palazzo Gri- 
oni, Piazza Grifoni 12, San Miniato. 


480 


Cura, conservazione e valorizzazione della Biblioteca 
e del patrimonio archivistico e artistico 


Con nostro rammarico il progetto di completamento della catalogazione su sup- 
porto informatico del patrimonio librario per la ricerca e la consultazione anche 
via Web del Catalogo della Biblioteca dell’Accademia degli Euteleti della Città 
di San Miniato i per il 2021 è rimasto sospeso in quanto non ha ricevu- 
to il contributo atteso. Il progetto di completamento della catalogazione sarà 
ripresentato nell’anno 2022 per poter mettere a disposizione della comunità e dei 
ricercatori l'importante archivio dell’Accademia. 

Per l’insufficienza dei contributi ricevuti non si è avviato il completamento 
dell’inventariazione dei dipinti e delle suppellettili di proprietà dell’Accademia 
degli Euteleti. Tale operazione sarà realizzata in collaborazione con la Sovrinten- 
denza ai Beni Culturali di Pisa. 


Sistema museale di San Miniato 


Anche per quanto riguarda l’anno 2021 l'Accademia ha aderito al Sistema Mu- 
seale di San Miniato. 


481 


FINITO DI STAMPARE 
NELLA TIPOGRAFIA BONGI 
SAN MINIATO (PI) 
DICEMBRE 2021